FILIPEPI, Alessandro (Sandro Botticelli)
Nato a Firenze nel 1444 (0 1445), era il più giovane dei figli di Mariano di Vanni, conciatore, e di sua moglie Smeralda, che avevano preso in affitto una casa da Niccolò di Pancrazio Rucellai in via della Vigna Nuova. Fu il fratello Giovanni a essere chiamato Botticello, soprannome poi usato a Firenze anche per il F. e per gli altri fratelli. Il Vasari ([1568], 1878, pp. 309 s.) racconta che da fanciullo il F. era svogliato negli studi, "di maniera che il padre, infastidito di questo cervello si stravagante", lo mise a imparare il mestiere di orafo. Probabilmente è stata sopravvalutata l'importanza della pratica dell'arte orafa per la formazione del F.; è però certo che nella bottega del suo maestro egli deve aver appreso tutte le tecniche dell'oreficeria, compresa quella dell'incisione; in seguito fornì disegni all'orafo Baccio Baldini come pure per incisioni destinate alla stampa.
Sempre secondo il Vasari (ibid.), "era in quell'età una dimistichezza grandissima, e quasi che una continuava pratica tra gli orefici ed i pittori, per la quale Sandro, che era destra persona e si era tutto volto al disegno, invaghitosi della pittura, si dispose volgersi a quella". Si mise perciò a far pratica presso Filippo Lippi probabilmente intorno al 1461-62, quando questi era attivo soprattutto a Prato, dove il F. lavorava agli affreschi della pieve (attuale duomo). Non si conosce la durata di questo apprendistato, ma esso deve aver avuto termine nell'aprile del 1467 quando il Lippi partì per Spoleto. Il F. "seguitò ed imitò si fattamente il maestro suo, che Fra Filippo gli pose amore, ed insegnogli di maniera, che e' pervenne tosto ad un grado che nessuno lo avebbe stimato" (ibid.). Il F. dimostrò poi la sua gratitudine per il maestro accogliendo alla sua morte (1470) il figlioletto Filippino ed educandolo alla pittura.
Evidenti reminiscenze del Lippi ricorrono in quasi tutta la sua opera e anzi alcuni dei dipinti attribuiti al F. giovane derivano direttamente da Madonne del Lippi - quali ad esempio quelli oggi al Louvre e agli Uffizi -, oppure imitano strettamente il suo stile come nel caso della Madonna dell'umiltà con cinque angeli, conservata al Louvre. Dal Lippi il F. derivò il linearismo nella rappresentazione della figura umana - motivo divenuto poì nella sua pittura tanto più efficace e incisivo - e da lui riprese anche certe tipologie fisionomiche, come i volti ovali dalla fronte spaziosa o i maliziosi angeli adolescenti dai capelli dorati.
Lasciata la bottega del Lippi, il F. subì nuove influenze che lo indussero a trasformare gli eleganti e delicati modi lippeschi in uno stile vigorosamente tridimensionale, scultoreo, nel quale l'armoniosa idealità della forma si contempera con un gentile naturalismo e con la capacità di esprimere gli stati d'animo più profondi. Il cambiamento è stato attribuito all'ascendente del Verrocchio e, meno credibilmente, a quello di Antonio Benci, il Pollaiolo; corrisponde comunque al generale orientamento verificatosi a Firenze negli anni Settanta.
L'Adorazione dei magi della National Gallery a Londra è da tutti considerata la prima opera autografa del Filipepi. Alcune parti di quest'opera sono stilisticamente così vicine al Lippi che si è persino pensato che sia stata iniziata da questo e completata poi dal F. con accenti più vigorosi e naturalistici. Questo nuovo stile è presente nelle due famose tavolette con il Ritorno di Giuditta dal campo nemico e La scoperta del cadavere di Oloferne (Firenze, Uffizi), che sono il recto e il verso di un unico pannello e furono probabilmente precedute dalla Giuditta dell'Art Museum di Cincinnati (Ohio) che reca sul verso un paesaggio di gusto gotico internazionale con cervi e scimmie: è l'unica composizione a noi nota del F. priva di figure umane. Le due tavolette degli Uffizi sono i primi esempi della straordinaria inventiva da lui messa in opera nelle "storie" spaziando dall'espressione dei sentimenti individuali sino all'intensa concentrazione di effetti drammatici.
Ancora, tra le opere giovanili, la Madonna del roseto (Firenze, Uffizi), la Madonna delle Gallerie di Capodimonte a Napoli e la Madonna Chigi (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum) testimoniano l'evoluzione verso uno stile più scultoreo, tridimensionale, ma non ancor del tutto emancipato dall'influenza del Lippi.
Secondo quanto riferisce Leonardo in un famoso brano (Trattato sulla pittura, paragrafo 57) il F. era solito affermare che nei paesaggi non è necessario copiare la natura: una spugna imbevuta di colori diversi e lanciata contro una parete formerebbe una macchia nella quale si può individuare un magnifico paesaggio. In realtà la struttura dei paesaggi del F. non nasce da ispirazioni fortuite, ma appartiene, in sostanza, a un mondo di convenzioni pittoriche: quello del gotico internazionale, come nell'Adorazione dei magi di Londra e nel paesaggio sul retro della Giuditta di Cincinnati, o quello dell'arte fiamminga, che il F. certamente già conosceva intorno al 1469-70 e che sarebbe stata la principale fonte di ispirazione dei suoi paesaggi. Tuttavia singoli motivi della natura - frutti, fiori, vespe - verranno da lui studiati dal vero e, resi con meticolosa attenzione, saranno inseriti in composizioni ispirate a una sensibilità estetica di ispirazione nordica.
Nella Madonna Chigi la montagna azzurra in lontananza denota che il F. aveva già adottato la convenzione della prospettiva aerea di stampo fiammingo. La tecnica dell'Adorazione di Londra è essenzialmente tradizionale, ma in essa il F. riesce già a ottenere, grazie alle velature, una grande varietà di toni con pochi color nelle ultime opere di questo primo periodo, compare già l'uso dell'ocra per dare intensità e ombreggiature alle carni.
La prima menzione del F. come maestro indipendente si trova nel 1470 nelle Memorie di B. Dei (in G. C. Romby, Descrizioni e rappresentazioni della città di Firenze nel XV secolo, Firenze 1976, p. 71), in un elenco di circa venticinque maestri che operavano in quel tempo a Firenze. Il suo primo incarico documentato fu quello per due delle sette Virtù della "spalliera" del tribunale dei Sei della Mercanzia, la cui decorazione era stata assegnata a Piero del Pollaiolo; poiché questi era rimasto indietro nell'esecuzione dell'opera, il suo completamento venne affidato al F. il 18 giugno 1470 su suggerimento di T. Soderini, membro della commissione che sovrintendeva ai lavori. Ma delle due Virtù mancanti il F. dipinse solo la Fortezza (Firenze, Uffizi), che gli fu pagata 20 fiorini il 18 agosto di quello stesso anno.
Quest'opera è espressione ormai matura del primo stile personale del F., in cui è del tutto assorbita e fusa ogni traccia dei modi del Lippi. La posa, forte e pacata allo stesso tempo, denota tutta l'abilità del pittore nel caratterizzare la natura interiore attraverso il vigore della forma fisica; nella foggia dell'abito si manifesta il suo talento nell'inventare abbigliamenti eleganti e fantasiosi, in parte classici e in parte esotici.
Per Antonio Pucci, che era, come il Soderini, fra i maggiori sostenitori dei Medici, il F. dipinse il primo tondo a noi noto, una Adorazione dei magi (Londra, National Gallery). Le difficoltà formali derivanti dalla rappresentazione di una gran quantità di figure su una superficie circolare vengono qui risolte mediante l'impostazione di un rigoroso schema prospettico, con il risultato che i personaggi secondari in primo piano acquistano visivamente una preminenza che va al di là del loro significato narrativo (in opere successive il F. riuscì ad evitare l'inconveniente). L'influenza dei precetti del Della pittura di L. B. Alberti è qui evidente e continuerà a manifestarsi anche nelle successive opere del Filipepi.
A questi stessi anni appartiene la prima pala d'altare del F.: si tratta di una rappresentazione convenzionale della Curia coeli, con la Vergine in trono con s. Francesco, il Battista, s. Caterina, la Maddalena e i ss. Cosma e Damiano (Firenze, Uffizi), ancora molto influenzata dal Lippi nella tipologia dei personaggi. Più vigoroso risulta il S. Sebastiano (Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie), dipinto per essere appeso a un pilastro in S. Maria Maggiore e terminato nel gennaio del 1474. È questa la prima rappresentazione di nudo maschile pienamente ideale del F.: l'attrattiva esercitata dalla figura di s. Sebastiano sulla sensibilità ottocentesca fin de siècle ha fatto sì che fosse travisata la dimensione realistica della sua concezione estetica. In quest'opera è forse ravvisabile qualche influenza del S. Sebastiano di Andrea del Castagno (New York, Metropolitan Museum), ma il paesaggio invernale e le tinte scure rimandano al puntuale interesse del F. per il "decorum" dato che, secondo la tradizione, Sebastiano fu martirizzato in gennaio.
La rapida crescita della fama del F. è testimoniata dalla chiamata a Pisa, nel gennaio del 1474, per collaborare al completamento degli affreschi nel Camposanto, iniziati da Benozzo Gozzoli, che ancora vi stava lavorando. Come prova, l'artista accettò di dipingere a fresco una Assunzione della Vergine nella cappella dell'Incoronata in duomo, ma, secondo il Vasari (p. 322) "non gli piacendo, la lasciò imperfetta" (fu ricoperta da altri dipinti nel 1583).
Solo otto ritratti del F. ci sono noti, di cui cinque eseguiti negli anni Settanta. Il ritratto postumo di Piero de' Medici, che era conservato a Capodimonte, andò distrutto durante la guerra. I quattro restanti sono: l'affascinante Giovane uomo (Firenze, palazzo Pitti), raffigurato su uno sfondo di cielo; il celebre ritratto di Giovane con la medaglia di Cosimo de' Medici (1474-75 circa, Firenze, Uffizi) sullo sfondo di un paesaggio (una innovazione compositiva molto recente dell'arte fiamminga attribuita a H. Memlinc intorno al 1465: anche la posizione di tre quarti è di derivazione fiamminga); una Gentildonna fiorentina (Londra, Victoria and Albert Museum); il ritratto, alquanto più tardo, di Giuliano de' Medici (Washington, National Gallery). Se si esclude il Giovane uomo di palazzo Pitti di gusto ancora lippesco, questi ritratti possiedono l'energia formale tipica del primo stile autonomo del Botticelli.
La committenza di questi ritratti, come anche gli incarichi documentati da parte del Soderini e del Pucci, sono prove evidenti del favore presto goduto dal F. presso i Medici e i principali esponenti del loro partito. In verità non molto si è detto della mancanza, nel primo periodo di attività, di una qualsiasi commissione da parte di Lorenzo il Magnifico, mentre la sua protezione è ben documentata negli anni successivi. L'unico lavoro che il F. eseguì in palazzo Medici per Lorenzo fu una testata di letto decorata con una figura della Fortuna registrata nell'inventario mediceo del 1492. Nella famiglia Medici il principale protettore del F. sarà in realtà Lorenzo di Pierfrancesco, la cui ostilità al ramo del cugino Lorenzo, dissimulata mentre questi era in vita esplose nel 1494, al tempo dell'invasione francese. Fino ad allora, di fatto, il F. ricevette incarichi da entrambi i principali rami della famiglia.
Il più antico incarico documentato per Lorenzo il Magnifico e per suo fratello Giuliano fu lo stendardo, perduto, per Giuliano in occasione della famosa giostra del 28 genn. 1475: la figura principale, Pallade, rappresentava m veste di una dea di inespugnabile castità, Simonetta Cattaneo, moglie di Marco Vespucci da Giuliano platonicamente amata; la simbologia dell'amor cortese nelle ultime ottave delle Stanze del Poliziano fornisce la chiave di lettura per interpretare questo e gli altri dipinti mitologici del Filipepi.
I buoni rapporti del F. con i Medici e i loro sostenitori appaiono evidenti anche nella Adorazione dei magi (Firenze, Uffizi), dipinta probabilmente attorno al 1476, come pala d'altare della cappella funeraria del sensale fiorentino Gaspare Del Lama in S. Maria Novella: i magi hanno infatti le sembianze di Cosimo e dei suoi figli Piero e Giovanni, mentre fra i personaggi del seguito si riconoscono Lorenzo il Magnifico e Giuliano. Per ottenere una così grande somiglianza il F. deve aver avuto la possibilità di studiare i ritratti medicei: è probabile anzi che egli abbia avuto dai Medici l'incarico di eseguire una copia postuma del ritratto di Cosimo, poiché un ritratto di Cosimo il Vecchio a lui attribuito era inventariato nel 1560 negli appartamenti del granduca Cosimo I in palazzo Vecchio. L'Adorazione può essere considerata il culmine della prima maniera del Filipepi.
L'influenza del Lippi è ancora individuabile nell'ambientazione e in alcuni costumi dai tessuti azzurri e bianchi delicatamente impreziositi con fili d'oro; ma alla tenue tavolozza del Lippi si sovrappone il vigoroso splendore dei colori propri del Filipepi. E il suo stile comincia ad acquisire una maggiore finezza naturalistica senza perdere di vigore.
Alcune opere commissionate al F. negli ultimi anni dell'ottavo decennio sono andate perdute. Fra queste era un tondo, ordinato dalla succursale romana della banca di Benedetto di Antonio Salutati per farne omaggio al cardinale Francesco Gonzaga, che il pittore terminò prima del 23 sett. 1477 e per il quale vennero pagati 40 fiorini larghi. Per la Signoria di Firenze eseguì, in palazzo Vecchio, presumibilmente attorno al 1476 (Horne, 1908), una Adorazione dei magi a capo della scala davanti alla porta della Catena. Nel maggio o giugno 1478 venne inoltre incaricato dalla magistratura degli Otto di guardia di dipingere i principali cospiratori della congiura dei Pazzi sul fianco esterno di palazzo Vecchio, in via Gondi, sopra la porta della Dogana: i sette congiurati vennero raffigurati appesi per il collo e l'ottavo, che era fuggito, appeso per un piede; un'iscrizione riportava un verso di scherno composto da Lorenzo de' Medici.
La crescente fama del F. negli anni Settanta è confermata da una menzione nel primo libro della Carliade di Ugolino Verino (1480), dove è indicato come il nuovo Apelle. Fra il 1478 e il 1481 il suo stile raggiunse la piena maturità nell'armoniosa integrazione di scene e personaggi, questi ultimi trattati con straordinaria vitalità e immediatezza. A questo nuovo stile è improntato il S. Agostino affrescato nel 1480 nel coro di Ognissanti a Firenze (oggi rimosso), a riscontro del S. Girolamo del Ghirlandaio. I due affreschi, chiaramente pensati come pendants, intendevano rappresentare la visione di s. Girolamo da parte di s. Agostino.
Il dipinto del F. illustra la visione di s. Agostino in una epistola apocrifa a s. Cirillo di Gerusalemme, senza dubbio conosciuta dall'artista in una delle versioni italiane allora correnti. È la prima opera del F. di cui possiamo identificare la fonte letteraria, e in cui egli dimostra una impareggiabile capacità di adesione ai suggerimenti del testo scritto. Lo stemma dei Vespucci, dipinto sull'architrave nell'affresco, conferma la committenza indicata dal Vasari (p. 311): in particolare si tratta, probabilmente, di ser Nastagio, padre del navigatore Amerigo, e di suo fratello Giorgio Antonio che furono leali protettori del F. per tutta la sua vita.
Nei mesi di aprile e maggio del 1481 il F. dipinse un affresco con l'Annunciazione (staccato: Firenze, Uffizi) sopra la porta della loggia antistante la chiesa di S. Martino della Scala. Anteriori presumibilmente alla partenza dell'artista per Roma, avvenuta nel luglio 1481, sono ancora la squisita e tenera Madonna del libro (Milano, Museo Poldi Pezzoli) e il tondo con la Madonna del Magnificat (Firenze, Uffizi), composto di poche ampie figure ingegnosamente inserite nella superficie circolare. Ma qui il F. non raggiunge la perfetta armonia nella difficile organizzazione spaziale del tondo, come si vede dalla posizione un po' forzata e dal tratto debole del braccio dell'angelo che regge la corona.
I primi disegni del F. per illustrazioni di Dante di cui si ha notizia gli furono commissionati nel 1480 circa per l'edizione della Commedia commentata da C. Landino, pubblicata a Firenze nel 1481 presso Niccolò di Lorenzo della Magna. Le spese vennero sostenute da Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, il quale contribuì forse all'elaborazione del piano illustrativo. Secondo l'Anonimo Magliabechiano, il F. "dipinse e storiò un Dante in cartapecora a L(oren)zo di P(ie)ro Franc(esc)o de Medici, il che fu cosa maravigliosa tenuta" (Horne, 1908, pp. 343-345).
Il manoscritto, talvolta - ma erroneamente - identificato con i fogli del Kupferstichkabinett di Berlino e della Bibl. ap. Vaticana, è ora perduto. La storia delle illustrazioni per il Dante del Landino è complessa e oscura. Il testo venne impaginato in modo da lasciare spazio a una illustrazione per ogni canto, ma vennero realizzati soltanto i disegni per i primi diciannove canti dell'Inferno. Il Vasari nella Vita di Marcantonio Bolognese ([1568], a cura di G. Milanesi, V, Firenze 1880, p. 396) riferisce che "Baccio Baldini [...], non avendo molto disegno, tutto quello che fece fu con invenzione e disegno di Sandro Botticello"; a quest'orafo vengono generalmente attribuite le modeste e poco costose incisioni realizzate per il Dante del Landino, piuttosto riduttive nei confronti delle composizioni del pittore.
Anche le tre tavole incise dal Baldini per il Monte Santo di Dio di Antonio Bettini da Siena (Firenze, Nicolò di Lorenzo 1477) traducono probabilmente disegni del F., ma sono di qualità assai migliore. A detta del Vasari il F. fu disegnatore prolifico e con ogni probabilità forniva disegni di figure per artigiani quali orafi, ricamatori, intagliatori, non sufficientemente abili nel disegnare la figura umana, secondo i canoni pittorici del Rinascimento. Ciò spiega forse perché Federico da Montefeltro abbia commissionato al F. e ad altri artisti i cartoni per le tarsie delle porte e dei pannelli di rivestimento del palazzo ducale di Urbino. Possono essere attribuiti al F. i cartoni per le tarsie con Apollo e Pallade di una porta della sala degli Angeli e per quelle con Fede, Speranza, Carità dei pannelli dello studiolo (1477 circa).
Durante l'ottavo decennio, dunque, il F. fu impegnato con grande successo in quasi tutte le forme di produzione artistica: pale d'altare, Madonne e altre pitture devozionali private, ritratti, affreschi di grandi dimensioni, oltre a disegni per incisori ed artigiani. Non sorprende perciò che nel 1481 egli sia stato chiamato a Roma da Sisto IV - con Cosimo Rosselli e Domenico Ghirlandaio - per unirsi al Perugino nell'affrescare la nuova "cappella magna" in Vaticano, nota poi come cappella Sistina. Secondo un complesso programma iconografico, mirante ad esaltare il primato del Papato sulla Chiesa, su una parete vennero rappresentate scene della Vita di Mosè, assunto a prefigurazione del Cristo, sulla parete opposta scene della Vita di Cristo e nella zona superiore Ritratti dei primi papi (tutti santi e martiri) a figura intera. Lo stato di conservazione di questi ultimi non ne consente una attribuzione sicura, ma le figure di S. Evaristo, S. Igino, S. Sotero, S. Marcello e S. Marcellino quanto meno derivano da cartoni del F., mentre quelle di S. Aniceto, S. Cornelio, S. Lucio e S. Stefano sono probabilmente in parte di sua mano; egli sembra comunque aver avuto un ruolo predominante nel ciclo dei papi, anche se è incerta l'affermazione del Vasari (p. 317), secondo la quale Sisto IV "ordinò che egli ne divenisse capo". I ritratti dei papi vennero portati a termine il 27 ott. 1481 insieme con quattro delle storie sottostanti, poiché a quella data furono commissionate ai quattro artisti le dieci storie rimanenti. L'intero ciclo fu completato nel maggio del 1482, ma il Perugino, il Ghirlandaio e il F. erano già tornati a Firenze, probabilmente assai prima di maggio, cosicché il papa fu costretto a chiamare L. Signorelli per terminare le ultime due storie. Il motivo della partenza dei tre artisti è probabilmente connesso a un mancato pagamento da parte del papa, e in effetti nel dicembre del 1483 il F. doveva ancora ricevere del denaro.
Nella cappella Sistina il F. dipinse tre storie: le Prove di Cristo, le Prove di Mosè e la Punizione dei ribelli.
Le scritte in lingua latina poste sopra i singoli affreschi indicano le corrispondenze analogiche tra le storie di Mosè e quelle di Cristo, ma non spiegano certo tutti i temi rappresentati. Ciascun affresco contiene diversi episodi funzionali al programma iconografico sopra accennato. Gli affreschi si distinguono per l'abilità compositiva con cui i diversi episodi sono correlati nell'ambito di una scena unitaria, per l'incisiva forza drammatica e per l'espressività che dalla grazia delicata delle figlie di Ietro nelle Prove di Mosè passa alla violenza dell'azione nella Punizione dei ribelli.
L'unica altra opera che può forse essere riferita al soggiorno romano del F. è l'Adorazione dei magi, conservata alla National Gallery di Washington, che sviluppa il tema del già citato quadro della cappella Del Lama (Firenze, Uffizi) con un più pervasivo senso drammatico.
Tutte le opere del periodo romano rivelano quello studio dei monumenti e delle sculture della città che è logico aspettarsi in un artista fiorentino del Rinascimento: l'arco di Costantino è la fonte per l'arco raffigurato nella Punizione dei ribelli, ed è evidente l'utilizzazione di sculture classiche come modelli: per esempio, nelle Prove di Cristo il bambino che si volge indietro spaventato da un serpente deriva da una scultura ellenistica raffigurante una fanciulla che calpesta un serpente. Nel F., comunque, l'antico non fu altro che uno stimolo per la sua immaginazione.Tornato a Firenze, il 5 ott. 1482 il F. fu incaricato di decorare la "sala magna" nel palazzo della Signoria, insieme con altri artisti, tra i quali il Ghirlandaio e il Perugino, ma è presumibile che questo lavoro non sia mai stato eseguito. Alla fine di quello stesso anno data, con ogni probabilità, l'incarico, affidatogli dal suo antico committente Antonio Pucci, di dipingere quattro pannelli per illustrare la Novella di Nastagio degli Onesti del Boccaccio (tre si trovano a Madrid, Prado; il quarto in collezione privata: i pannelli dovevano far parte della "spalliera" che decorava la camera nuziale di Giannozzo, figlio del Pucci, in occasione delle sue nozze con Lucrezia di Piero Bini, celebrate nel 1483. Benché nell'esecuzione siano evidenti gli interventi della bottega, appare pur sempre straordinaria la capacità inventiva del F. nell'interpretare con puntuale precisione le indicazioni del testo letterario.
Al nono decennio risalgono i grandi dipinti mitologici: la Primavera, Pallade e il centauro, la Nascita di Venere (tutti agli Uffizi) e Marte e Venere (Londra, National Gallery).
L'interpretazione di queste composizioni è stata oggetto di un appassionato dibattito durato un secolo: la chiave di lettura attualmente più diffusa è quella che cerca di metterle in relazione con la filosofia neoplatonica di Marsilio Ficino.
La Primavera e la Pallade e il centauro furono dipinte ambedue per Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici e sono segnalate nel 1499 nel palazzo cittadino di Lorenzo e di suo fratello Giovanni, in una camera contigua alla camera da letto di Lorenzo. La Primavera era appesa alla parete sopra un "lettuccio" le cui dimensioni corrispondono così perfettamente a quelle del dipinto da far ritenere che i due oggetti fossero stati previsti come un insieme; nel 1503 il quadro è ricordato racchiuso in una grande cornice bianca. Pallade e il centauro era appeso sopra la porta che conduceva a un'anticamera.
La Primavera rappresenta il giardino delle Esperidi, dove Venere indica il gruppo delle tre Grazie danzanti, mentre Cupido scocca un dardo fiammeggiante al cuore di una di esse. Sulla sinistra Mercurio allontana le nubi con il suo caduceo; sulla destra Zefiro afferra la ninfa Clori che, divenuta sua sposa e trasformata in Flora, avanza in primo piano nell'atto di spargere rose. Le allusioni alla nascita dell'amore in un cuore verginale, il tratto gentile di paragonare la sposa a una delle tre Grazie, il mutarsi della vergine ninfa, attraverso il matrimonio, nella dea dei fiori, intendono, a nostro parere, celebrare le nozze di Lorenzo di Pierfrancesco con Semiramide di Iacopo (III) Appiani; queste avrebbero dovuto celebrarsi nel maggio del 1482 ma a causa della morte di Lucrezia, madre di Lorenzo il Magnifico, avvenuta il 25 marzo, furono rinviate al 19 luglio. La simbologia della primavera allude probabilmente alla data originariamente stabilita per il matrimonio. La tematica deriva in parte da passi di poeti dell'antichità, in particolare Lucrezio (De rerum natura, V, 735-740) e Ovidio (Fasti, V, 190-214), ed è quasi certo che il programma iconografico sia stato concepito dal Poliziano, profondamente legato a Lorenzo di Pierfrancesco e protetto da Lorenzo il Magnifico, che aveva combinato le nozze.
La figura femminile della cosiddetta Pallade e il centauro, identificata appunto con Pallade alla fine del sec. XIX, nel 1499 era invece identificata con Camilla e, infatti imbraccia un'alabarda e non la lancia, che è l'attributo di Pallade. In realtà, come suggeriscono i rami di olivo di cui è coperta, deve trattarsi di una ninfa al seguito della casta Pallade, mentre l'"impresa" dei Medici in forma di anello con diamanti che orna la sua veste la associa ad una gentildonna medicea. Il centauro, personificazione della lussuria, e fermato dalla donna proprio mentre si accinge a scoccare una freccia; anche questo dipinto può, comunque, essere collegato al tema del matrimonio (con riferimento alle nozze di Lorenzo di Pierfrancesco); la virtù femminile della castità trionfa sulla cieca brutalità della lussuria. Pallade e il centauro nel XVI secolo venne spostata in palazzo Vecchio; la Primavera fu trasferita nella villa di Castello, dove è registrata intorno al 1530-40 e dove fu vista dal Vasari insieme con la Nascita di Venere (che è dipinta su tela come la Pallade, mentre la Primavera è su tavola, e quindi molto più costosa).
La Nascita di Venere non compare in nessuno degli antichi inventari medicei a noi noti, e quindi non è dato sapere in che modo fosse connessa con il ramo minore dei Medici. Eseguita qualche anno più tardi della Primavera e della Pallade, raffigura la dea che, sospinta da Zefiro e da una ninfa, approda sulla spiaggia accolta dall'Ora della primavera, in una iconografia ispirata alla descrizione datane dal Poliziano nelle Stanze. Anche in questo caso il dipinto può essere collegato alla celebrazione di un matrimonio, simboleggiando la nascita dell'amore: "Venere che nasce, e quelle aure e venti che la fanno venire in terra con gli Amori" (Vasari, p. 312).
Certamente associato al tema nuziale è il dipinto Marte e Venere (Londra, National Gallery), eseguito per un qualche sconosciuto committente fiorentino. La fonte letteraria è questa volta un passo dell'Herodotus di Luciano, che descrive la pittura di Aezione raffigurante le Nozze di Alessandro e Rossane, con gli amorini in atto di giocare con le armi di Alessandro. Il soggetto di Marte e Venere era già un motivo affermato di "galanteria" coniugale: esso appare per esempio nella cornice in stucco di uno specchio fiorentino conservato al Victoria and Albert Museum a Londra.
La simbologia amorosa compare anche in uno degli affreschi che il F. dipinse attorno al 1486-87 in una camera della villa Tornabuoni (poi Lemmi) ad Arcetri per Giovanni Tornabuoni (zio di Lorenzo il Magnifico), in occasione del matrimonio del figlio Lorenzo con Giovanna degli Albizzi, celebrato nel 1486. Si conservano solo due di questi affreschi (Parigi, Louvre): uno rappresenta Lorenzo Tornabuoni davanti alle Arti liberali, l'altro Giovanna degli Albizzi che riceve fiori in dono da Venere accompagnata dalle tre Grazie. Un terzo dipinto, le cui tracce erano ancora visibili nell'ottavo decennio dell'Ottocento, rappresentava Giovanni Tornabuoni nell'atto di abbracciare la figlioletta Ludovica.
Gli unici altri affreschi del F. a noi noti di argomento profano furono eseguiti per conto di Lorenzo il Magnifico attorno al 1490-91, accanto al Ghirlandaio, nella sala grande della villa medicea dello Spedaletto nei pressi di Volterra; l'affresco del F., a riscontro della Fucina di Vulcano del Ghirlandaio, era presumibilmente anch'esso di soggetto mitologico.
Al suo ritorno da Roma al F. furono commissionate, un certo numero di pale d'altare. Una delle più belle e meglio conservate è quella per la cappella privata, in S. Spirito, di Giovanni d'Agnolo de' Bardi - uno dei due soci che gestivano la banca dei Medici a Londra - terminata prima del 7 febbr. 1485: conservata a Berlino (Staatliche Museen, Gemäldegalerie), raffigura la Madonna col Bambino in trono tra i due ss. Giovanni ed è "con diligenza lavorata e a buon fine condotta; dove sono alcune olive e palme lavorate con sommo amore" (Vasari, p. 310). La pala per l'altare maggiore di S. Barnaba, dei canonici agostiniani, con Madonna in trono tra angeli e santi, fu ordinata al F. dopo il 1482 forse grazie ai buoni uffici di Lorenzo il Magnifico. Un elemento compositivo nuovo è costituito dai due medaglioni con l'Angelo Gabriele e l'Annunciata, che decorano l'abside in cui il gruppo è collocato: queste finte sculture diverranno più tardi una caratteristica ricorrente nelle ambientazioni architettoniche del Filipepi. Un incipiente manierismo, che si accentuerà a partire dalla fine del nono decennio, suggerisce di datare quest'opera verso il 1487. La celebre Annunciazione (Firenze, Uffizi), commissionata nel 1489 da Benedetto di ser Francesco Guardi per la propria cappella nella chiesa di Cestello (S. Maria Maddalena de' Pazzi), appartenente allora ai cisterciensi, è notevole per la tensione e l'efficacia espressiva. Più formale è invece la pala della Incoronazione della Vergine con i ss. Giovanni Evangelista, Agostino, Gerolamo ed Eligio (Firenze, Uffizi), commissionata nel 1490 circa dall'arte degli orefici per la cappella di s. Eligio in S. Marco; il formato verticale centinato corrisponde qui al modulo architettonico della cappella. Il bel motivo dell'incoronazione, nella metà superiore del dipinto, è pervaso dalla stessa intensità lirica della Nascita di Venere. Le cinque scene della predella, oggi smembrata (Firenze, Uffizi), sono per contro animate da informale spontaneità. La pala dipinta intorno agli anni 1491-93 per l'altar maggiore della chiesa del convento di S. Elisabetta delle Convertite raffigura la Trinità con il Battista e s. Maria Maddalena, protettrice di quell'Ordine di prostitute convertite (Londra, Courtauld Institute): è l'unica delle opere importanti del F. in cui è evidente l'intervento su larga scala della bottega. Al contrario, i quattro pannelli della predella (Filadelfia, Museum of Art, Johnson Collection) spettano senza alcun dubbio al F. stesso.
Alla prima metà dell'ultimo decennio del secolo risalgono una Pietà (proveniente dalla chiesa di S. Paolino) e una più tarda dello stesso soggetto (Milano, Museo Poldi Pezzoli) del 1495 circa, vista dal Vasari (p. 312) in S. Maria Maggiore. Le due opere sono molto diverse fra loro: la prima freddamente elaborata, la seconda molto più intensa nell'espressione. Il loro confronto è significativo della profonda evoluzione del sentimento religioso vissuta dal F. nel corso degli anni Novanta: da una tranquilla devozione a un'emozione ardente, tormentosamente esasperata, così evidente nei dipinti eseguiti sotto l'influsso del Savonarola e negli ultimi disegni per la Commedia.
Il manierismo, già visibile nelle opere degli ultimi anni del Quattrocento, dapprima indebolì, ma poi rese più intensa l'efficacia espressiva dell'arte del Filipepi. È esemplare in questo senso il confronto tra i due unici ritratti superstiti degli anni Ottanta: il più tardo, quello di un Giovane che appoggia la mano al petto in segno di fedeltà (Washington, National Gallery), è in evidente contrasto con quello più antico, pure di un Giovane (Londra, National Gallery), ispirato a un classico naturalismo. Indizi di mutamenti stilistici si avvertono nella Madonna della melagrana (Firenze, Uffizi), da identificarsi probabilmente con il tondo ordinato al F. dal magistrato dei Massai di Camera nel 1487 (Milanesi, in Vasari [1568], 1878, p. 322, n. 3). In questa come in altre opere dell'ultimo decennio, lo stile del F. tende a enfatizzare l'espressività psicologica a scapito della forma naturale.
Nel 1491, probabilmente per iniziativa di Lorenzo il Magnifico, il F. intraprese la decorazione a mosaico di quattro vele della volta nella cappella maggiore (di S. Zanobi) del duomo in collaborazione con il miniaturista Gerardo di Giovanni di Miniato. Forse le difficoltà tecniche del mosaico lo scoraggiarono, dato che a partire dal 18 dic. 1492 il suo nome non compare più nei documenti relativi al progetto. Certamente si cimentò in nuove tecniche, forse a causa della fama di cui godeva come disegnatore per tessiture e in altri campi dell'artigianato. Il Vasari (p. 323) afferma che "fu egli de' primi che trovasse di lavorare gli stendardi ed altre drapperie, come si dice, di commesso, perché i colori non si istinghino e mostrino da ogni banda il colore del drappo", e come esempio ricorda il "baldacchino" (perduto) di Orsamnichele.
È più che probabile che il F. abbia continuato a dipingere piccoli quadri a soggetto come la Giuditta degli Uffizi, ma quelli che ci rimangono risalgono tutti agli anni Novanta. Raffinate esercitazioni su un tema al F. assai caro sono due Annunciazioni (New York, Metropolitan Museum, Lehman Collection; Glen Falls, N.Y., Hyde Collection), dalla composizione abilmente articolata. In una tavoletta con S. Giovannino che prega Gesù Bambino (in coll. priv.) la scena si svolge davanti ad una loggia la cui balaustra è in forma di rilievo classico: particolare che dimostra una conoscenza approfondita della scultura antica. Un capolavoro in questo gruppo di opere è il S. Agostino nella cella (Firenze, Uffizi), dipinto dall'artista con il virtuosismo di una natura morta, specie nella tenda che sembrerebbe voler emulare i famosi effetti di trompe-l'oeil degli antichi pittori greci Zeusi e Parrasio. Il dipinto fu probabilmente eseguito per un eremitano, dato che il santo indossa il piviale da vescovo sull'abito dell'Ordine.
La resa puntuale dell'isolamento di una cella conventuale si ritrova nella semplicità eremitica della capanna nella quale è ambientata l'Ultima comunione di s. Gerolamo (New York, Metropolitan Museum) particolarmente ammirata nel sec. XVI come "opera singulare" e conosciuta in varie repliche. Il soggetto deriva dall'epistola apocrifa di Eusebio De morte Hieronimi ad Damasum. La versione conservata a New York è probabilmente il quadro che nel 1503 apparteneva a Francesco del Pugliese, agiato mercante di lana e fervente "piagnone". Questi potrebbe anche essere stato il proprietario dei due sportelli con l'Annunciazione oggi a Mosca (Museo Puškin), dato che sempre nel 1503 possedeva anche un Giudizio universale dell'Angelico chiuso da due sportelli dipinti dal Filipepi.
Il F., come altri artisti del Quattrocento, fu elogiato dagli umanisti come un secondo Apelle e la Calunnia (Firenze, Uffizi), probabilmente del 1495 circa, va verosimilmente interpretata come espressione del suo convincimento di aver veramente emulato il più grande pittore della Grecia antica.
Il soggetto è quello di un dipinto di Apelle, noto nel Rinascimento attraverso la descrizione datane da Luciano nel dialogo De Calumnia e dalla versione di questo inserita da L. B. Alberti nel trattato De pictura. Il F. ha interpretato con vivacità ed acutezza il tema della Calunnia che accusa un giovane innocente davanti a un re e la Verità che lo difende. La sala in cui si svolge la scena è decorata con statue e rilievi, alcuni dei quali riproducono composizioni del F., come le tavolette di Nastagio e il Ritorno di Giuditta. Il quadro, che il F. con ogni probabilità dipinse per sé, fu in seguito da lui donato all'amico Antonio Segna Guidi, amico anche di Leonardo. Nella Calunnia si notano alcuni mutamenti significativi dello stile tardo del F.: le figure sono più sottili e allungate, quasi manieristiche, sì da accentuare i gesti e le espressioni dei sentimenti.
Motivi stilistici propri degli anni Novanta si trovano anche nella Madonna con Bambino ed angeli dell'Ambrosiana a Milano, che è forse il "picciol tondo[...] che si vede nella camera del priore degli Angeli di Firenze, di figure piccole, ma graziose molto e fatte con bella considerazione" (Vasari, pp. 323 s.).
In quest'opera singolare il grande padiglione che ospita i personaggi è in stile gotico, mentre la testa della Vergine è sproporzionatamente grande rispetto al corpo e così pure tutta la sua figura rispetto alle altre. Deformazioni di questo genere, adottate in funzione di enfasi devozionale, derivano probabilmente da una religiosità profondamente tormentata piuttosto che da una ripresa di gusto neogotico come è stato da alcuni sostenuto.
Questa tendenza a forzare l'espressività, denotata anche dalla nervosa tensione lineare e dal panneggio esasperato, si intensifica ulteriormente nelle opere successive, molte delle quali rispecchiano il clima di tensione religiosa e politica dominante a Firenze dopo il 1494 con l'invasione francese, la caduta dei Medici, l'ascesa del Savonarola. La Crocifissione con la Maddalena penitente e un angelo (Cambridge, Mass., Fogg Art Museum) rappresenta simbolicamente Firenze come una città pentita dei suoi vizi - violenza, avarizia, frode - e perciò meritevole della protezione divina che discende sotto forma di angeli che imbracciano scudi con gli stemmi del popolo di Firenze, chiaro riferimento al "governo popolare", inaugurato nel 1497 sotto l'egida del Savonarola. La Natività mistica (Londra, National Gallery) reca un'iscrizione in greco allusiva agli sconvolgimenti di quegli anni.
Datata all'inizio del 1501, quest'opera - nell'immagine squisitamente poetica della Vergine che adora il Bambino, mentre gli angeli osannano in cielo e sulla terra abbracciano gli uomini di buona volontà, e i diavoli vengono affossati - allude alla rinascita della Chiesa dopo il passaggio della seconda calamità dell'Apocalisse (cui allude l'iscrizione), probabilmente identificata dal F. con il rinnovato pericolo di invasione francese e con la minaccia di Cesare Borgia sulla Toscana. La profezia di rinnovamento della Chiesa era il motivo dominante dell'insegnamento del Savonarola, "della setta del quale - afferma il Vasari (pp. 317 s.) - fu in guisa partigiano, che ciò fu causa che egli abbandonando il dipingere, e non avendo entrate da vivere, precipitò in disordine grandissimo". In realtà il F. non smise certo di dipingere per le sue convinzioni religiose, e tuttavia non è pensabile che il Vasari lo abbia confuso con il fratello Simone, che fu sicuramente un appassionato "piagnone", come asseriscono coloro che non accettano l'adesione del F. al Savonarola. Con ogni probabilità egli non seguì apertamente i "piagnoni" in quanto setta, ma prudentemente dissimulò le sue simpatie ed ecco il perché dell'inserzione, nella Natività mistica, della scritta in greco, lingua per molti non facilmente decifrabile.
Le Storie di Lucrezia (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum) e le Storie di Virginia (Bergamo, Accademia Carrara) contengono evidenti allusioni alla tirannia dei Medici e del partito oligarchico attraverso eventi della storia romana. Perciò non è credibile che questi siano i pannelli che secondo il Vasari (p. 312) il F. dipinse per casa Vespucci, giacché Guidantonio Vespucci era il capo degli "arrabbiati" del partito oligarchico. I disegni preparatori per queste due tavole erano stati fatti evidentemente molti anni prima (Filippino Lippi se ne era servito per due pannelli di cassone), ma in questa tarda realizzazione i temi prendono nuova vita - drammatica, cupa e potente - per impulso della passione politica. Le due tavole probabilmente facevano parte di una "spalliera", così come una delle ultime opere del F., i quattro pannelli con Storie di s. Zanobi, ora divisi tra vari musei: due a Londra (National Gallery), uno a New York (Metropolitan Museum) e uno a Dresda (Gemäldegalerie).
La fonte dei soggetti rappresentati può essere identificata nella vita del santo scritta nel 1475 dal prete Clemente Mazza per Filippo di Zanobi de' Girolami. Poiché bisognava eseguire solo quattro pannelli, vennero scelti gli episodi legati a Firenze: diversi tra questi sono raggruppati in vivaci narrazioni animate dall'espressività drammatica dell'ultimo stile dell'artista. Un elemento interessante è costituito dalla presenza di grottesche nel pannello di Dresda (Ultimi fatti di s. Zanobi): il F. aveva certamente studiato le grottesche antiche durante il suo soggiorno romano del 1481-82, poco dopo il loro ritrovamento nella Domus Aurea, ma se ne servì solo in questo pannello, il che fa pensare che egli sia tornato a Roma prima di dipingere le Storie di san Zanobi, forse per il giubileo del 1500.L'ultimo pannello da arredo dipinto dal F. è una incompiuta Adorazione dei magi (Firenze, Uffizi), dove i motivi cortesi delle sue prime prove su questo soggetto sono animati da un'ardente devozione che scardina l'antica simmetria. Degli anni Novanta ci rimangono anche due ritratti; quello più antico (Barcellona, Coll. Cambó) rappresenta l'umanista e poeta Michele Marullo Tarcaniota, che fu a Firenze dal 1489 al 1494, protetto da Lorenzo di Pierfrancesco, ed è databile ai primi anni dell'ultimo decennio. Del 1498-1500 è invece il ritratto di Lorenzo di ser Piero dei Lorenzi (Filadelfia, Museum of Art, Johnson Collection), un umanista medico e filosofo che divenne seguace del Savonarola.
Numerosi piccoli dipinti a soggetto sono inoltre da collocare alla fine del Quattrocento per il loro stile o per l'intensità del sentimento religioso: una Giuditta (Amsterdam, Rijksmuseum); l'Orazione nell'orto (Granada, Capilla Real), la Trasfigurazione (Roma, Coll. Pallavicini) e le due tavolette conservate all'Ermitage a San Pietroburgo con S. Girolamo penitente e S. Domenico che predica. All'epoca il F. dipingeva ancora per Lorenzo di Pierfrancesco: in una lettera del 25 nov. 1495, la moglie di Lorenzo, Semiramide, scrive che il pittore era atteso alla villa del Trebbio, "per dipingere certe cose a Lorenzo" (Mesnil, 1938, p. 210), e nell'estate del 1497 il F. mandò alcuni suoi aiuti alla villa di Castello per eseguire alcune decorazioni per le quali, il 3 luglio, era stato pagato un acconto dall'amministratore.
Vi sono inoltre documenti relativi a un affresco con S. Francesco, dipinto dal F. nel 1496 nel dormitorio del monastero delle clarisse di S. Maria di Monticelli fuori Porta Romana (distrutto nel 1529) e ad affreschi con Storie di Dionigi l'areopagita e di s. Paolo, commissionatigli da Giorgio Antonio Vespucci nel testamento del 23 marzo 1499 per la cappella di famiglia in Ognissanti. Queste commissioni e gli elogi di L. Pacioli e di U. Verino autorizzano a ritenere che negli ultimi anni del secolo il F. fosse ancora in piena attività e tenuto in alta considerazione, tanto che, nel settembre del 1502, fu segnalato come eccellente maestro "che serve volontera" a un agente di Isabella d'Este. Secondo il Vasari (p. 321), il F. nei suoi ultimi anni, "condottosi vecchio e disutile, e caminando con due mazze, perché non si reggeva ritto, si morì, essendo infermo e decrepito"; se qualcosa di vero c'è in quel che dice il Vasari, può riguardare solo gli anni dopo il 1505, poiché fino a quella data l'artista pagava ancora le quote alla Compagnia di S. Luca. Il Vasari (ibid.) afferma anche che il F. "guadagnò assai, ma tutto, per aver poco governo e per trascurataggine mandò male". Ma i pochi fatti a noi noti della sua vita negli ultimi anni del Quattrocento dimostrano che la sua famiglia era benestante. Il più anziano dei fratelli, Giovanni "Botticello", morì il 30 marzo 1494; da allora il F. risulta abitante con i nipoti, Benincasa e Lorenzo, che avevano ereditato la casa di famiglia in via Nuova. Il 19 apr. 1494, per conto della famiglia, acquistò una villa sulla collina che sale a Bellosguardo dallo Spedale di S. Maria Nuova. Il 15 nov. 1499 fu immatricolato nell'arte dei medici e speziali che nel Quattrocento comprendeva anche i pittori. Il 16nov. 1502 fu denunciato per sodomia nei confronti di un suo aiutante, ma dal momento che, a quanto risulta, la denuncia non ebbe seguito, si trattò probabilmente soltanto di una calunnia.
Secondo il Vasari il F., "per essere persona sofistica, comentò una parte di Dante, e figurò lo Inferno, e lo mise in stampa; dietro al quale consumò di molto tempo: per il che, non lavorando, fu cagione d'infiniti disordini alla vita sua" (p. 317). Lo storico evidentemente confonde i disegni già citati che il F. iniziò per il Dante del Landino, del 1481, con la famosa serie di disegni per la Commedia, ora divisi tra il Kupferstichkabinett di Berlino e la Bibl. ap. Vaticana.
Questi disegni sono disposti in orizzontale su singoli fogli di pergamena: una volta rilegati, il disegno nella parte superiore avrebbe illustrato il canto scritto nella parte inferiore. Evidentemente il F. intendeva fornire una serie completa di illustrazioni che servissero come interpretazione visiva del poema. Sopravvivono novantatré disegni, compresa una grande pianta introduttiva dell'Inferno e un secondo disegno di Lucifero. Molti di essi sono incompiuti, o solamente abbozzati, e benché quattro siano quasi completamente colorati, nessuno ha il carattere di miniatura a colori, del tutto rifinita, come la poteva indendere il Filipepi. È chiaro che l'esecuzione dei disegni andò avanti per anni, più volte interrotta e ripresa, e ciò suggerisce che fossero stati realizzati dall'artista per proprio personale piacere. Gli ultimi disegni del Paradiso denotano una caduta di forza espressiva. Il carattere privato dell'opera risulta chiaro dal disegno che illustra il canto XXVIII, nel quale un angelo reca l'iscrizione "Sandro di Mariano": commovente impetrazione di misericordia per la propria anima. Nel loro insieme i disegni dimostrano la capacità eccezionale del F. di penetrare un testo e di illuminarne visivamente e incisivamente il significato.
Pochi altri disegni ci restano del F.: alcuni sono riferibili a dipinti, come la celebre Allegoria dell'Abbondanza (Londra, British Museum), ovvero a bozzetti per tessiture, come la Pallade dell'Ashmolean Museum di Oxford. Una pianeta conservata nel Bruckenthal Museum di Sibiu in Romania e il cappuccio di piviale al museo Poldi Pezzoli di Milano databile tra il 1485 e il 1495, hanno ricami derivati da disegni del F.; gli sono poi stati attribuiti i disegni per i ricami di una pianeta e di due dalmatiche per il duomo di Orvieto (ora conservati nel Museo civico della città). Benché Vasari dica che molti disegni del F. vennero incisi, la critica moderna prende in considerazione solo due stampe come da loro derivate: una Madonna con Bambino tra s. Elena e s. Michele del 1490 circa e una Assunzione della Vergine del 1495 circa; altre sono quasi certamente perdute.
La popolarità goduta dall'arte del F. a Firenze è dimostrata dal gran numero di dipinti provenienti dalla sua bottega, di gran lunga superiore rispetto alla bottega di qualsiasi altro pittore del Quattrocento. Egli si servì di allievi e di aiuti fin dal 1472, quando Filippino Lippi è documentato come suo "garzone"; molti vengono man mano citati nei documenti, ma ve ne dovettero essere altri non ricordati. Fra i dipinti di produzione della bottega, i più belli, e forse in gran parte autografi, sono una Madonna nel Museo civico di Piacenza e la Madonna Raczynski (Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie). Particolarmente interessanti sono le pitture di soggetti non trattati nelle opere autografe superstiti del F.: i ritratti ideali di ninfe o di belle donne (esempi ibid., e Londra, National Gallery); le tre Veneri di formato verticale (Ginevra, Coll. privata, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie, Torino, Galleria Sabauda: le "femmine ignude assai" ricordate dal Vasari a p. 312).
Poco sappiamo della personalità del F., tranne che da vero fiorentino aveva il gusto per gli scherzi e i tiri mancini: alcuni di questi sono raccontati dal Vasari, che lo ricorda come "persona molto piacevole" (p. 319) e burlona, ma anche intellettualmente assai vivace, che "amò fuor di modo coloro che egli conobbe studiosi dell'arte" (p. 321).
Fino alla fine del sec. XIX la critica non riconobbe, oltre alle caratteristiche di stile che egli condivise con gli altri grandi artisti fiorentini della sua epoca, quella sua singolare combinazione di altissima qualità tecnica fatta di segno incisivo e di sapiente resa delle forme, di profonda capacità inventiva e di efficacia narrativa. Ma anche in seguito l'estetismo fin de siècle fece sì che alcune sue qualità non fossero riconosciute, diffondendo della sua arte una visione distorta non ancora del tutto dissipata. Più idoneo, allora, il giudizio di chi vede in lui un artista assai rappresentativo della cultura umanistica della Firenze medicea per la sua aspirazione a far rivivere la pittura antica e a conferire ai dipinti qualcosa della capacità immaginativa della poesia.
Il F. morì nel 1510 e fu sepolto il 17 maggio nella tomba di famiglia nella chiesa di Ognissanti.
Fonti e Bibl.: Per un regesto dei documenti vedi H. P. Horne, A. F. commonly called Sandro Botticelli, London 1908 (con bibl.), e J. Mesnil, Botticelli, Paris 1938. Altri documenti sono pubbl. in I. B. Supino, Sandro Botticelli, Firenze 1900, pp. 82 s.; D. A. Covi, Botticelli and pope Sixtus IV, in The Burlington Magazine, CXI(1969), pp. 616 s.; Id., in Scritti di storia dell'arte in onore di Ugo Procacci, I,Milano 1977, pp. 270-272; si veda inoltre R. W. Lightbown, Sandro Botticelli, London 1978, in cui sono raccolti tutti i documenti: la bibliografia è aggiornata nella traduzione italiana del 1988 (Milano).
La fonte più importante è G. Vasari, Le vite...[1568] a cura di G. Milanesi, III, Firenze 1878, pp. 309-331; vedi inoltre R. Borghini, Il Riposo, Firenze 1584, pp. 13, 144, 346, 350-353, e F. Bocchi, Le bellezze della città di Fiorenza, Firenze 1591, passim.
Il primo tentativo di studiare analiticamente l'opera del F. è stato fatto da J. A. Crowe-G. B. Cavalcaselle nelle varie edizioni di ANew History of Painting in Italy, II,London 1864, pp. 414-430; VI, ibid. 1894, pp. 203-210; IV, ibid. 1911, pp. 249-272. La prima monografia sul F. è di H. Ullmann, SandroBotticelli, München 1893, ancora imprescindibile per un'attenta classificazione stilistica dell'opera del Filipepi. Fondamentali rimangono i due studi gia citati: quello di Horne del 1908, ripubbl. nel 1980 e quello di Mesnil del 1938. La bibliografia completa sulle singole opere del F. si trova in Lightbown, 1978. Gli studi e le monografie più significative da un punto di vista stilistico sono: C. N. Plunkett, Sandro Botticelli, London 1900; W. von Bode, Sandro Botticelli, Berlin 1921; Id., Botticelli: des Meisters Werke, Berlin 1926; A. Venturi, Botticelli, Roma 1925; Y. Yashiro, Sandro Botticelli, London 1925; R. van Marle, The development of the Italian Schools of Painting, XII,The Hague 1931; C. Gamba, Botticelli, Milano 1936; S. Bettini, Botticelli, Bergamo 1942; L. Vertova, Botticelli, s.l. 1947. Importanti in quanto primi tentativi di un catalogo ragionato delle opere del F.: R. Salvini, Tutta la pittura del Botticelli, Milano 1958, e G. Mandel, Botticelli: tutta la pittura, Milano 1967. Successive al 1967 sono le monografie di L. D. e H. S. Ettlinger, Botticelli, London 1976; S. Legouix, Botticelli, London 1977; U. Baldini, Botticelli, Firenze 1988; N. Pons, Catalogo completo. Botticelli, Milano 1989.
Gli studi sulle interpretazioni iconografiche sono quasi esclusivamente legati ai dipinti mitologici. Fondamentale per l'identificazione delle fonti letterarie relative è A. Warburg, La "Nascita di Venere" e la "Primavera" di Sandro Botticelli... (1893), in La rinascita del paganesimo antico, Firenze 1970, pp. 1-58. Per la diffusione dell'interpretazione neoplatonica di questi dipinti si veda E. H. Gombrich, Botticelli's Mythologies, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, VIII(1945), pp. 7-60. Interessante soprattutto per l'analisi relativa a Flora e per la data del matrimonio di Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici è lo studio di M. Levi d'Ancona, Botticelli's Primavera: a Botanical Interpretation Including Astrology Alchemy and the Medici, Firenze 1983. Vedi ancora Id., Due quadri del Botticelli eseguiti per nascite in casa Medici, Firenze 1992, e C. Dempsey, The Portrayal of Love. Botticelli's Primavera and Humanist culture at the Time of Lorenzo the Magnificent, Princeton-Oxford 1922; J. Snow Smith, The Primavera of Sandro Botticelli, New York - San Francisco 1993. Per studi iconografici su altre singole opere del F. si veda R. A. Hatfield, Botticelli's Uffizi "Adoration": a Study in Pictorial Content, Princeton 1976; S. Meltzoff, Botticelli, Signorelli and Savonarola, Firenze 1987 (uno studio sulla Calunnia di Apelle).
Sulla tecnica del F. vedi U. Baldini, Per Sandro Botticelli, in Scritti di storia dell'arte in onore di R. Salvini, Firenze 1984, pp. 363-387 (sulla Madonna del Magnificat); Id., La Primavera del Botticelli: storia di un quadro e di un restauro, Milano 1984; Id., La Nascita di Venere e l'Annunciazione del Botticelli restaurate, in Studi e ricerche, IV,Firenze 1987; M. Ciatti, L'Incoronazione della Vergine del Botticelli: restauri e ricerche, Firenze 1990.
I disegni per la Divina Commedia furono pubblicati per la prima volta in facsimile da F. Lippmann, Zeichnungen von Sandro Botticelli zu Dantes Goettlicher Komoedie, Berlin 1884-87. Per gli studi critici relativi ai disegni del F. si veda: A. Venturi, Il Botticelli interprete di Dante, Firenze 1921; Y. Batard, Les dessins de Sandro Botticelli pour la Divine Comédie, Paris 1952; K. Clark, The Drawings for Dante's Divine Comedy by Sandro Botticelli, London 1976. E inoltre: P. Dreyer, Botticelli's Series of Engravings "of 1481", in Print Quaterly, I (1984), pp. 111-115; Botticelli e Dante (catal.), a cura di C. Gizzi, Milano 1990 (con ult. bibl.).
Su Botticelli e l'incisione oltre ai testi generali, quali, ad esempio, A. M. Hind, Early Italian Engraving, London 1938-48; J. A. Levenson-K. Oberhuber-J. Shelian, Early Italian Engravings from the National Gallery of Art, Washington 1973, vedi J. Balogh, Botticelli. Zeichnungen...,in Acta historiae artium Academiae scientiarum Hungaricae, VI(1959), pp. 299-308; A. Mendes, Il cappuccio di piviale al Museo Poldi-Pezzoli..., in Commentari, XIV(1963), pp. 227-245; A. Garzelli, Ilricamo nella attività artistica di Pollaiuolo, Botticelli, Bartolomeo di Giovanni, Firenze 1973.