ALESSANDRO Farnese, duca di Parma, Piacenza e Castro
Nacque il 27 agosto 1545 a Roma, da Ottavio, allora prefetto della città, e da Margherita d'Austria, figlia naturale di Carlo V. Trascorse l'infanzia a Parma, dove il padre era tornato nel 1547 per prendere possesso del ducato. Giovanni Aldovrandi e Giuliano Ardinghelli curarono la prima educazione di A., che mostrò subito un grande interesse per lo studio delle matematiche e dell'arte militare, nelle quali gli furono maestri il famoso ingegnere urbinate Francesco Paciotto e il siciliano Francesco Salomone, uno dei tredici di Barletta; altri suoi precettori furono l'umanista udinese Francesco Luisino e Meichior Sneck, che gli insegnò la lingua tedesca. Nel 1556 A. accompagnò Margherita d'Austria a Bruxelles, per ringraziare Filippo II della restituzione, stabilita col trattato di Gand, della signoria di Piacenza ai Farnese, e rimase poi sino ai venti anni alla corte dello zio, come implicito pegno della fedeltà del duca di Parma alla corona spagnola: tra il 1556 e il 1559 fu a Bruxelles, salvo un viaggio al seguito di Filippo in Inghilterra, presso Maria Tudor; quindi in Spagna, dove insieme con il cugino don Carlos ed allo zio don Juan d'Austria, suoi coetanei, completò gli studi presso l'università di Alcalá. L'11 nov. 1565 sposò a Bruxelles Maria di Portogallo, nipote del re Giovanni III, e con lei tornò a Parma, dove rimase sino al 1570. In quest'anno, malgrado l'opposizione del duca Ottavio, che non vedeva volentieri il figlio servire in posizione subordinata un sovrano straniero, egli si mise a disposizione di don Juan d'Austria per la campagna contro i Turchi. A Lepanto, il 7 ott. 1571, ebbe dal principe il comando, insieme ad Ettore Spinola, di tre galere al centro dello schieramento dei collegati e si distinse abbordando due navi nemiche, tra cui quella di Mustafà Esdey, nella quale era custodito il tesoro della flotta turca. Nel seguito delle operazioni nel Mediterraneo orientale don Juan gli affidò la conquista di Navarino, ma dopo soli cinque giorni di assedio, per la rinunzia del governo di Madrid a continuare la campagna, dovette abbandonare l'impresa e tornare a Parma.
Nel 1577 Filippo II, cedendo alle insistenti richieste di don Juan d'Austria, da poco nominato governatore dei Paesi Bassi, decise di affidare ad A. il comando dei reggimenti spagnoli di stanza in Italia che venivano mandati nelle Fiandre: era l'effettiva designazione di A. a luogotenente ed anche a eventuale successore di don Juan nel governo del paese in rivolta, e il re di Spagna aveva a lungo esitato prima di destinare ad un compito di così grande importanza politica l'erede di una dinastia di ancora recente fedeltà. In un tempo assai breve A. ebbe però modo di dimostrare l'accortezza della scelta: allorché egli raggiunse don Juan nel Lussemburgo, il 18 dic. 1577, solo questa delle diciassette province dei Paesi Bassi era completamente controllata dall'esercito regio; poco più di un mese dopo, a Gembloux (31 genn. 1578),la cavalleria fiamminga non resse all'urto dei reggimenti spagnoli guidati da A. e tutta la contea di Namur fu riconquistata; nel giugno furono nuovamente in mano spagnola Diest, Sichem e Lovanio, nel Brabante, Limburgo e tutta la sua provincia; l'iniziativa era tornata alle armi regie e A. aveva dato un probante saggio delle sue qualità di condottiero. La lucida ferocia con cui punì l'ostinata resistenza dei calvinisti di Sichem e di Dalhem, così come la clemenza usata ai vinti di Lovanio e di Limburgo, furono le prime efficaci manifestazioni di quella politica di divisione del fronte della "generalità",che fu una caratteristica fondamentale dell'opera di A. nei Paesi Bassi. Don Juan, mortalmente malato, poté designare come suo successore, finché il re non provvedesse, il principe italiano, senza che i capi militari spagnoli opponessero le resistenze abituali verso gli stranieri.
Il 2 ott. 1578,alla morte di don Juan, A. assunse la carica di governatore dei Paesi Bassi, che gli venne confermata poco dopo da Filippo II. Il 10 dello stesso mese rivolse un appello alle province vallone, offrendo la conferma dei tradizionali privilegi delle città in cambio del giuramento di fedeltà al re e del ritorno alla religione cattolica, e subito dopo, mentre Ottavio Gonzaga, alle frontiere dell'Hainaut e dell'Artois, impediva il passaggio degli aiuti inviati dalla Francia ai ribelli, chiudeva il corso della Mosa ai soccorsi dei luterani tedeschi con una violenta offensiva contro Maestricht: i valloni erano così completamente isolati. Proseguendo nelle conquiste militari, e contemporaneamente nelle trattative, facendo abilmente leva sulle rivalità e le ambizioni dei capi dei ribelli, sul particolarismo delle città e sulle differenze religiose, A. otteneva nel volgere di pochi mesi il più importante successo che i regi avessero conseguito dagli inizi della rivolta: piegati non meno dalla finezza diplomatica di A. che dai suoi clamorosi successi bellici, i capi delle province vallone convenivano nel maggio del 1579 ad Arras per denunciare l'Unione di Gand e giurare fedeltà al re nelle mani del generale vittorioso. Iniziava così il processo di definitiva separazione del meridione cattolico dalle province settentrionali dei Paesi Bassi, che fu il risultato più rilevante ottenuto dal Farnese. Nel giugno successivo, dopo un assedio rimasto memorabile per il larghissimo uso di artiglierie, che raggiunsero la rapidità di tiro, eccezionale per i tempi, di quattromila colpi in un solo giorno, Maestricht veniva conquistata e sottoposta ad uno spaventoso saccheggio; nell'ottobre si arrendevano Malines e Villebruck: la strada delle Fiandre e del Brabante era aperta.
Ma l'attacco che A. stava preparando contro le province settentrionali fu ritardato dal concorrere di molteplici fattori indipendenti dalla sua volontà: mentre le Province unite costituivano ora un corpo: omogeneo nel quale la pur abile diplomazia del condottiero italiano ben difficilmente avrebbe potuto operare una frattura, anche un'offensiva militare su larga scala era al momento preclusa dalla mancanza di soccorsi in denaro da parte di Madrid; del resto l'esercito regio aveva molto perduto della sua forza con l'allontanamento, che i valloni avevano preteso ad Arras, delle fanterie spagnole ed italiane, e lo scarso spirito combattivo delle milizie nazionali, peraltro anche numericamente insufficienti, costrinse A. ad una posizione di attesa. Gli stessi suoi successi, inoltre, finirono assurdamente per creare ad A. nuove, impreviste difficoltà, giacché niente era temuto alla corte di Madrid quanto un'eccessiva autorità dei governatori ed A. aveva enormemente accresciuto la sua con le vittorie conseguite: la diffidenza di Filippo II verso il suo migliore generale si manifestò apertamente nel 1580 con la decisione di lasciare ad A. il solo comando militare, affidando nuovamente a Margherita d'Austria il governo dei Paesi Bassi. A questo provvedimento A. si oppose così energicamente che la stessa Margherita rinunziò al mandato ed egli finì per essere confermato nella duplice carica; è indubbio, tuttavia, che la mancanza della completa fiducia della corte contribuì ad arrestare lo slancio offensivo dell'esercito delle Fiandre.
A. poté consolidare le sue posizioni vincendo la resistenza degli ultimi irriducibili valloni a Tournai (1581) e strappando ai fiamminghi Audenarde (1582), ma non riuscì ad impedire che il duca d'Alençon conquistasse Cambrai (1581)e dovette airestarsi di fronte alla resistenza organizzata da Francesco d'Angiò nella provincia di Anversa. Solo nel 1583,ottenuta infine dagli Stati valloni l'autorizzazione ad impiegare nuovamente le truppe italiane, spagnole e borgognone, poté riprendere l'offensiva contro le città fiamminghe, ad occidente e ad oriente, conquistando Nieuport, Ypres, Dunkerque e Bruges. La morte quasi contemporanea del duca di Alençon e di Guglielmo il Taciturno (1584)dette nuova vigoria all'offensiva di A., che cinse Anversa di un assedio rimasto celebre nella storia militare e ne ricevette la resa il 17 ag. 1585. La caduta di Gand e di Bruxelles coronò questa impresa, che tra i contemporanei guadagnò ad A. una fama superiore a quella di qualsiasi altro condottiero del tempo.
L'anno successivo, alla morte del padre, A. assunse il titolo di duca di Parma, Piacenza e Castro; il desiderio di rivedere i suoi domini, l'idropisia di cui cominciava a soffrire, la diffidenza che avvertiva nel re e nei ministri lo indussero a chiedere a Filippo II di essere lasciato libero di tornare a Parma; ma il re rifiutò ed A. dovette affidare al primogenito Ranuccio la reggenza del ducato. A. non ebbe limiti nel richiedere al suo piccolo stato il denaro necessario alle sue abitudini di fasto e anche alla condotta della guerra e invano Ranuccio gli ricordava incessantemente i pressanti bisogni del ducato. Tuttavia è merito di A. verso i suoi domini aver riottenuto da Filippo II, nel 1585 la restituzione della cittadella di Piacenza ed essersi sempre assiduamente interessato al governo del suo stato lontano, pretendendo dal figlio di essere informato delle più minute questioni delle varie amministrazioni ed impartendo meticolose direttive su ogni cosa.
Nei Paesi Bassi A. spingeva sempre più a settentrione l'offensiva, assediando ed espugnando tra il 1586 ed il 1588 Grave, l'Ecluse e Wachtendonck (in quest'assedio il Farnese fece uso - probabilmente per primo - di proietti cavi scoppianti), impossessandosi di tutto il corso della Mosa e arrivando sino al Reno, dove conquistò Raimberga e Nuitz. Ma nel 1588 la sua avanzata fu fermata dalla preparazione della spedizione contro l'Inghilterra. Invano egli cercò di dissuadere il sovrano dal progetto, insistendo sulla necessità di rafforzare le posizioni regie nelle Fiandre prima di allargare il teatro della guerra, di non esporre nell'avventurosa impresa il grosso dell'esercito delle Fiandre, che, egli ne era ben consapevole, costituiva il maggiore sostegno della potenza spagnola in Europa; non furono accolti nemmeno i suoi consigli per l'appronta-mento di porti sufficienti alla grande armata navale. In realtà si pensava a Madrid che A. non intendesse allontanarsi dalle Fiandre per non compromettere la posizione di grande autorità che vi aveva raggiunto e gli si ordinò di raccogliere un esercito di ventiseimila uomini da impiegare nella spedizione.
Dopo il disastro della "Invencible Armada" la corte non risparmiò le accuse ad A., ritenuto responsabile di non aver sostenuto l'impresa col necessario entusiasmo. In effetti tali accuse non avevano alcun fondamento, ma trovarono facilmente credito in un ambiente pieno di diffidenza e di gelosia per il Farnese. Persino la possibilità che egli perseguisse il progetto di una signoria personale nei Paesi Bassi era considerata a corte con sempre maggiore preoccupazione. Questo sospetto nasceva dal prestigio militare e politico di cui godeva A. in tutta Europa e dalla devozione che gli dimostrava l'esercito, eccezionalmente disciplinato per i tempi, e trovava alimento nella moderazione con la quale, tanto diversamente dai governatori che lo avevano preceduto, A. si conduceva con le popolazioni che gli erano state affidate: le responsabilità amministrative e militari che egli volentieri affidava alla nobiltà fiamminga e vallona, il suo rispetto per le franchigie locali e l'abitudine di convocare periodicamente gli Stati generali, la sua inclinazione a trattare con i ribelli, il rispetto scrupoloso dei patti, la tolleranza usata in qualche occasione verso gli eretici - che indusse l'Inquisizione ad aprire contro di lui addirittura un processo segreto, abbandonato poi per mancanza di prove - sembravano segni evidenti della volontà di A. di guadagnarsi la simpatia della popolazione per esserne appoggiato nei segreti disegni.
Tanto inusitato era, in effetti, il comportamento di A., che tali sospetti trovarono credito anche tra gli avversari della Spagna, che fecero anche un tentativo per avvantaggiarsi delle supposte ambizioni di lui: nel settembre 1588 il genovese Orazio Pallavicini, confidente di Elisabetta, forse su ispirazione della stessa regina, giunse a fare cauti sondaggi presso A., assicurando l'appoggio dell'Inghilterra ad un suo eventuale progetto personale sui Paesi Bassi, in cambio della concessione di alcune fortezze sul litorale. A. respinse senza esitazioni tali sondaggi e informò immediatamente Filippo II della cosa, ma non per questo la diffidenza del re diminuì, ché anzi solo la morte risparmiò ad A. l'umiliazione di essere esonerato dalla sua carica, quando il sovrano aveva già disposto che fosse sostituito provvisoriamente dal conte di Fuentes, il quale poi avrebbe dovuto lasciare la reggenza ad Alberto d'Austria.
Ma nell'estate del 1589, mentre in Francia le sorti della Lega cattolica volgevano al peggio ed Enrico di Navarra poneva l'assedio a Parigi, Filippo non poteva ancora rinunziare al suo più valente generale e lo incaricò di intervenire a sostegno dei cattolici francesi; A., benché sofferente per l'idropisia, con un esercito di ventottomila fanti e settemila cavalli, condusse in Francia una delle sue migliori campagne e il 30 agosto liberava Parigi dall'assedio di Enrico e riusciva a riportare tutto intero il suo esercito nei Paesi Bassi, eludendo abilmente la battaglia che il navarrese insistentemente gli proponeva. Nel dicembre 1591 fu nuovamente chiamato in Francia, al soccorso del marchese di Villars assediato in Rouen da Enrico IV. Nel febbraio 1592 A., riuscito ad unire in Piccardia le sue forze a quelle del duca di Mayenne, accettò battaglia da Enrico IV e lo sconfisse ad Aumale, liberò Rouen (21 aprile) e conquistò Caudebec.
La lontananza di A. permetteva intanto a Maurizio di Nassau un grande ritorno offensivo, che i luogotenenti di A. non riuscirono a contenere: caddero Breda, Nimega e numerose piazzeforti in Frisia, nell'Overijssel, in Gheldria. A. si affrettò a tornare nei Paesi Bassi, ma un nuovo ordine di Filippo II, cui forse non era estraneo il proposito di tenerlo lontano dalle Fiandre, mentre già il Fuentes, designato suo successore, era in viaggio .per comunicargli la destinazione, lo costrinse a rimettersi in viaggio per la Francia, malgrado fosse gravemente afflitto dall'idropisia e dai postumi di una ferita ricevuta a Caudebec.
Giunto ad Arras vi morì il 2 dic. 1596.
Quando, nel 1578, successe allo zio don Juan d'Austria nella carica di governatore generale dei Paesi Bassi A. aveva raggiunto i trentaquattro anni. Fisicamente impersonava bene il tipo del condottiero italiano, legatogli dagli avi. Di statura media, muscoloso e forte, la capigliatura scura pettinata all'indietro, il viso abbronzato e dai lineamenti fini, il naso aquilino e la fronte larga e alta, gli occhi neri fiammeggianti ed estremamente mobili, egli era certo la persona più bella di tutta la sua razza. Né è difficile risalire alle fonti dei suoi tratti ereditari. Del padre Ottavio non sembra essergli rimasta alcuna caratteristica, se non forse la costituzione vigorosa e l'amore per la guerra, ma non èdato trovare in A. alcun segno di quella avarizia sordida di cui Ottavio aveva date molte prove. Al contrario occorre insistere sulla sua generosità e il gusto per lo spendere, che gli veniva senza dubbio dalla madre, autentica fiamminga di Audenarde, che amava sfarzo e lusso. Ma da lei gli venne anche il solido buon senso, la riluttanza agli entusiasmi facili e la pondederazione, qualità rivelatesi soprattutto quando, in veste di governatore generale dei Paesi Bassi, egli seppe vincere l'impulsività della sua gioventù per fronteggiare responsabilità pesanti. ti dato anche trovare in A. l'intelligenza brillante e la profondità di vedute del bisnonno Paolo III, benché non vada escluso ch'egli le abbia ereditate anche dal nonno Carlo V. È probabile ch'entrambi gli abbiano trasmesso la perspicacia politica, l'abilità e la finezza diplomatica. Una caratteristica ereditata certo da Carlo V è il gusto per la corrispondenza abbondante, il desiderio di annotare ciò che non gli sembrasse trascurabile, la cura nel riordinare i suoi ricordi. D'altronde, anche Margherita d'Austria fu per tutta la vita una corrispondente attiva e mostrò sempre grande zelo nel conservare le sue carte.
Ciò che soprattutto i Farnese hanno lasciato in eredità ad A. è la grande resistenza fisica, il gusto per gli esercizi violenti, la perfezione delle qualità guerriere: in questo egli appare il vero discendente dei suoi antenati, a cominciare da Ranuccio il Vecchio, che fu capitano generale della Repubblica di Siena e aiuto prezioso del papa Eugenio IV nelle sue lotte contro i Colonna. Fu in tale ambiente familiare che si formò ed ebbe nutrimento il gusto per gli esercizi militari e per gli sport. È significativo che A., già sposato a Maria di Portogallo, ma ancora libero da responsabilità importanti, sentisse il bisogno di sfuggire al vecchio palazzo di Parma, dove menava una esistenza piatta e priva di avventure, e di percorrere di notte le strade della città, travestito, spada alla mano come un bravaccio, sfidando i passanti che si fossero attardati e invitandoli a un duello. A tali episodi si possono collegare le lamentele dei maestri circa lo scarso interesse dimostrato dall'alunno per gli studi umanistici e letterari, mentre l'insegnamento delle matematiche e dell'arte militare lo trovava attentissimo.
A., per la sua forza fisica accuratamente esercitata dall'infanzia, fu sempre un avversario temibile. Eccellente cavaliere, sentiva il bisogno di andare veloce e spesso lasciava dietro di sé e senza fiato la sua scorta. Era sempre in prima linea quando il pericolo urgeva, passava le intere notti tra i corpi di guardia e le trincee, vegliando sotto la pioggia, nel vento, nella neve, incoraggiando i soldati e spartendo con loro tutte le privaziom. Nel corso di un assedio non esitava mai a intraprendere personalmente ricognizioni notturne nei fossati delle piazze assediate, con l'acqua fino alla cintola, per sorprendere i segreti dell'avversario e disporre minuziosamente l'attacco. All'approssimarsi della battaglia, appena scorgeva le bandiere nemiche, un solo desiderio si impadroniva di lui: ordinare l'assalto e venire alle mani. Tuttavia, col passare degli anni e il crescere dell'esperienza, ilsuo spirito battagliero si temperò di prudenza e di abilità tattica: durante la sua bella carriera militare si possono ammirare ritirate saggiamente condotte quanto attacchi vittoriosi e decisivi. Il principe di Parma era adorato dai soldati, di cui sapeva guadagnare la fiducia e che soggiogava sia col suo temperamento di capo, sia col suo gran cuore e i sentimenti paterni. Per lui, i soldati che formavano l'esercito di Filippo II nelle Fiandre, spagnoli, italiani, valloni, gente che veniva di Germania, dalla Franca Contea o dalla Lorena, eseguivano senza protesta marce forzate in climi umidi, attraverso campagne allagate o per sentieri quasi impraticabili, e guadavano sensa esitare fiumi in piena. Nel cuore dell'inverno, nei rifugi o nei baraccamenti inondati, vedevano venire il loro capo a confortarli, a discorrere amichevolmente, a chiamarli per nome -giacché il Farnese aveva una notevole memoria - ricordando loro lo stato di servizio e promettendo bottino e ricompense. In cambio dell'affetto che dimostrava loro, A. esigeva dai suoi uomini la più rigorosa obbedienza e una disciplina di ferro. Duro con se stesso, trattava senza pietà le teste calde, i ribelli e i codardi. Non tollerava insolenze, rapine e brigantaggio. Era soprattutto intransigente sul rispetto dovuto alle donne: guai a chi avesse osato attentare al loro onore per quanto modesta fosse stata la vittima. Quando una sedizione o una rivolta scoppiava o per lo meno se ne manifestava una minaccia, A. non aveva esitazioni nell'affrontare da solo, a rischio della propria vita, i ribelli, e con coraggio sereno e parole sentite ed appropriate o, se necessario, con sanzioni implacabili, li riconduceva al dovere.
Aveva ereditato dalla madre fiamminga il bisogno del fasto, sicché vestiva con un gusto raffinato sia in guerra sia in pace, usando tutti gli artifici per far maggiormente risaltare i doni che la natura gli aveva così generosamente elargiti. Conosceva l'importanza di una "politica di prestigio" e non ignorava che la massa ama nei propri capi i segni esteriori di potenza. La generosità del Farnese si manifestava nelle forme più simpatiche verso i poveri dei Paesi Bassi, verso i paggi, i suoi servitori, i soldati malati soprattutto, che potevano sempre contare sulle sue cure premurose e aspettarsi grandi liberalità. Nei confronti dei funzionari della sua casa e degli uffici amministrativi era esigente. Pretendeva una perfetta correttezza per il pagamento dei salari e delle pensioni dei suoi dipendenti. Per converso il suo credito presso mercanti e banchieri era incrollabile. Tali mercanti, che erano per lui indispensabili prestatori di danaro, sapevano che egli onorava sempre i propri impegni e che la sua lealtà era sicura: sulla semplice parola, o su una firma, gli prestavano in una volta 200.000 o 300.000 scudi per le esigenze della guerra, quando a Filippo II o ai suoi ministri non avevano fatto credito nemmeno di un real.Ciò spiega come, malgrado i ritardi che il re frapponeva nell'invio dei soccorsi necessari in Fiandra, A. riuscì spesso a tirarsi di impaccio o a fronteggiare situazioni che apparivano inestricabili.
Ecco il ritratto fisico e morale d'A., quale ci si palesa nelle sue corrispondenze o nelle memorie di chi l'accompagnò in Italia, in Spagna o nei Paesi Bassi durante la sua carriera.
Quanto alla figura di A. statista, egli concentrò in sé la maggior parte delle qualità che individuano l'uomo di stato superiore. Era uno spirito lucidissimo e pratico al contempo: se ne ha la prova nelle discussioni e nei contrasti ch'egli ebbe, a proposito della propria funzione nei Paesi Bassi, col padre Ottavio e con la madre Margherita d'Austria. Al duca Ottavio, che faceva colpa al figlio d'aver accettato nella flotta del re di Spagna, al tempo della guerra contro i Turchi nel Mediterraneo (1570-71), una situazione inferiore al proprio rango e di servire un principe straniero, A. fece notare che, per ottenere dal re la restituzione della cittadella di Piacenza occupata da una guarnigione spagnola, occorreva rendere a Filippo II dei servizi importanti, provando così la fedeltà dei Farnese al sovrano. Quando, dopo la riconciliazione delle province vallone, il Re decise di inviare nuovamente in Fiandra Margherita d'Austria, affidandole la direzione degli affari politici e lasciando ad A. solo quelli guerreschi, egli non volle ammettere tale divisione di poteri, né si preoccupò della pena che il suo rifiuto avrebbe causato alla madre. Fece comprendere al re che un tal progetto avrebbe abbandonato i Paesi Bassi alla anarchia, distruggendo tutti i risultati conseguiti. Nella questione - ove l'interesse pubblico si confondeva con quello personale di A. - egli fu irremovibile, dichiarò: "travaglio per crescere e non per diminuire",e osò scrivere a Filippo II che "i grandi principi guardano solo all'interesse proprio, senza preoccuparsi in alcun modo dei meriti e dei servizi dei loro subalterni ".
La chiarezza del suo giudizio non si è mai lasciata velare da legami d'amicizia, né da sentimenti di riconoscenza. È allo zio don Juan ch'egli dovette d'essere venuto in Fiandra. Dal tempo in cui avevano studiato insieme all'università di Alcalá e avevano condiviso i pericoli della battaglia di Lepanto, essi si amavano come fratelli. Ma tale circostanza non impedì ad A. di comunicare francamente a sua madre le critiche, ch'egli riteneva necessarie, alla linea di condotta seguita in Fiandra da dan Juan, il quale si piegava molto difficilmente alla politica di pacificazione imposta dal sovrano. Ma una volta trasmesse a Margherita queste critiche in lettere cifrate, A. gli prestò ogni soccorso nelle operazioni militari e l'esortò a un accordo con Madrid sulla linea politica da adottare. Nei confronti di Filippo II l'indipendenza di giudizio di A. può forse meravigliare, ma essa offre il metro delle sue qualità d'uomo di stato. Egli dichiara risolutamente la propria opposizione al metodo preconizzato e seguito nell'impresa dell'"Invencible Armada"e al progetto d'invadere l'Inghilterra, come tenta altresì di mostrare la follia dell'intervento in Francia, quando le Fiandre esigevano la massima concentrazione di truppe spagnole. Il 22 luglio 1590 osò scrivere al re: "Mi pesa nell'animo, mi punge il cuore vedere come Vostra Maiestà commandi cose impossibili, perché Dio solo può far prodigi".
L'aspetto geniale del suo intuito politico si svela principalmente dopo la morte di don Juan avvenuta nell'ottobre del 1578. Il Farnese si trovava allora al campo di Bouge, presso Namur, assediato dalle truppe degli Stati generali, in una situazione che egli stesso definisce "terribile". Ma ecco un barlume di speranza: gli eccessi delle bande del palatino Casimiro, la repulsione che questi ispirava ai capi delle truppe vallone ancora al servizio degli Stati generali, il furore antireligioso e il terrore instaurato dal regime calvinista a Gand dovevano finire per seminare la discordia nei ranghi dei partigiani del principe d'Orange. Da ciò può venire la salvezza. Mentre Filippo II spera una pacificazione generale delle diciassette province dei Paesi Bassi per l'intervento dell'imperatore, il principe di Parma si rende conto che questa è un'utopia, finché il popolo subirà il fascino del Taciturno, temibile avversario. Il punto debole del nemico esiste e A. lo scopre subito: sono le province vallone. Per ricondurle rapidamente all'obbedienza, occorre che il partito del re si palesi il più forte; onde la necessità di inferire un gran colpo sul piano militare. Ecco l'assedio e la conquista di Maestricht (1579),strumento per attivare i negoziati con le province vallone e per tentare quindi il ritorno di tutto il paese all'obbedienza. A Bouge, dunque, il Farnese attende con pazienza il disgregarsi delle forze avversarie: appena questo avviene e le truppe degli Stati si ritirano, egli intraprende una marcia folgorante su Maestricht, continua nello stesso tempo i negoziati coi Valloni, e consegue la vittoria al contempo militare e diplomatica che sfocia nel trattato di Arras (1579) e provoca la scissione nel blocco dei nemici. È la conseguenza logica della lettera che già il 10 ott. 1578, solo nove giorni dopo la morte di don Juan, egli aveva indirizzata agli Stati provinciali di Hainaut, Lilla, Douai, Orchies e di Tournai, come alle principali città di queste terre, per offrir loro, purché conservassero la religione cattolica e l'obbedienza al re, la conferma di privilegi, usi e costumi, l'oblio del passato, la partenza delle truppe straniere e "un governo come quello dei tempi dell'Imperatore Carlo V"
Dopo la conclusione del trattato di Arras, il principe di Parma mantenne rigorosamente la parola data agli avversari. Il cardinale de Granvelle ha offerto su questo punto una testimonianza capitale, scrivendo il 24 febbr. 1583 a Margherita d'Austria: "Il principe ha ottenuto gran credito nei Paesi Bassi per aver rigidamente osservato quanto aveva promesso all'avversario, e se così avessero sempre agito i suoi predecessori nel governo, gli affari si sarebbero svolti in condizioni ben migliori".
Uomo di tale statura, A. si mostrava insensibile alle lusinghe e ai tranelli che si cercò di tendere al suo indiscutibile amore per la gloria. Paolo Rinaldi, nel suo Liber relationum (f. 251 v.) narra che molto spesso, e in luoghi diversi, noti uomini di lettere offrirono di scrivere la sua vita e lo supplicarono di comunicar loro lettere, discorsi e documenti segreti, necessari per redigere il racconto delle sue imprese: ma A. si contentò sempre dì ringraziarli, e non volle dar seguito alle offerte e ai solleciti. Natura equilibrata e forte, temperamento sano, il principe - vera eccezione nel mondo dei suoi contemporanei - disprezzava l'importanza attribuita ai presagi, ai sogni, ai "prodigi", e non vi prestava alcuna attenzione. I suoi successi politici furono facilitati anche dal fatto ch'egli era un vero poliglotta pei suoi tempi. Oltre alla lingua materna, conosceva latino, tedesco, francese, fiammingo e parlava bene lo spagnolo, aiutato d'altronde da una memoria vasta e tenace. Probabilmente proprio per questa conoscenza delle lingue egli scelse i suoi collaboratori senza manifestare preferenze e senza pregiudizi: a fianco di ufficiali spagnoli e italiani, ammetteva nei suoi consigli personalità locali, nobili fiamminghi o valloni, e li consultava regolarmente sugli argomenti che riconosceva di loro competenza.
È difficile distinguere nel Farnese l'uomo di stato in senso proprio dal diplomatico, da colui che manovra gli uomini e li fa servire ai propri scopi. La finezza diplomatica A. l'aveva certamente ereditata da Paolo III e da suo padre Ottavio Farnese i quali, l'uno nell'assimilazione delle nuove correnti politico-religiose in favore della Chiesa, l'altro nella questione del recupero di Parma e Piacenza, gli avevano lasciato buoni esempi. L'abilità di A. si manifesta soprattutto nel modo con cui egli seppe servirsi della nobiltà delle province vallone per raggiungere i suoi fini. Conosceva la psicologia dei nobili dei Paesi Bassi, che aveva imparato a osservare da vicino al tempo del suo matrimonio a Bruxelles, nel 1565. Li sapeva polemici, ambiziosi, intraprendenti, avidi di onori e di profitti, gelosi gli uni degli altri. Riuscì tuttavia a farli rientrare nel suo giuoco quando preparava la riconciliazione delle province vallone: uomini come il visconte di Gand, il barone di Montigny, il marchese di Richebourg non erano facili da trattare. Seppe prenderli per le loro convinzioni cattoliche, dimostrar loro la malafede del Taciturno e dei suoi partigiani, ispirar loro fiducia nello spirito di giustizia del re e nel suo desiderio di perdono, attirarli con la promessa di belle ricompense, di posti di rilievo, lasciar loro sperare di svolgere un ruolo importante nella politica dei Paesi Bassi. Non dimenticò affatto come alcuni di essi fossero dominati dalle mogli e fino a che punto queste intendessero avere un certo peso negli affari politici: seppe captare la benevolenza di queste donne o neutralizzare la loro ostilità a forza di galanteria e di doni.
A.aveva anche notato subito quanta impressione potesse fare sul popolo, sull'abitante delle città e delle campagne di queste province vallone, il tema della salvaguardia della religione cattolica e le promesse d'un ritorno ai metodi di governo usati da Carlo V. Ottenne che questo popolo esercitasse una pressione sulla nobiltà tanto da farla tornare alla fedeltà verso il sovrano.
Altro segno della finezza diplomatica del principe di Parma si scorge nei delicatissimi negoziati intrapresi per ottenere il ritorno nei Paesi Bassi delle truppe spagnole e italiane, che avevano dovuto lasciare il paese per certe clausole del trattato di Arras. Nell'agosto del 1581, il duca di Alençon, intervenuto nei Paesi Bassi con un esercito allestito da lui stesso, riuscì a impossessarsi di Cambrai. Il Farnese, non disponendo di truppe sufficienti e abbastanza agguerrite, si trovò nell'impossibilità di opporsi. Ne approfittò subito per dimostrare ai nobili valloni che senza l'appoggio dei soldati stranieri, spagnoli e italiani, sarebbe stato impossibile far fronte agli avversari. Il marchese di Richebourg e il barone di Montigny si lasciarono convincere e ottennero che gli Stati delle province vallone autorizzassero il Farnese a richiamare truppe tedesche. Ma ciò che soprattutto il principe di Parma desiderava era il ritorno dei tercios spagnoli. L'assedio di Tournai nel 1581 gli fornì l'occasione di tornare alla carica: questo assedio rischiò di fallire per la mancanza di mordente nelle truppe vallone e per la loro ripugnanza a combattere contro compatrioti, anche se eretici. A furia di diplomazia il principe di Parma riuscì finalmente a vincere l'opposizione dell'influente conte di Lalaing e ottenne, nel febbraio del 1582, un voto dell'assemblea delle province vallone che gli concedeva il richiamo di soldati stranieri.
Il punto ove il principe fa convergere mirabilmente diplomazia e guerra è la conquista, sin dall'offensiva del 1583 contro i ribelli, di città che l'una dopo l'altra capitolano nelle sue mani, e città importanti come Ypres, Bruges, Gand, Bruxelles e Anversa. Il Farnese sapeva che se le grandi città fiamminghe e del Brabante erano rimaste fino allora sorde agli appelli per una riconciliazione, lo si doveva al fatto che i cattolici ancora numerosi erano dominati da una intraprendente minoranza calvinista, appoggiata da mercenari stranieri che sottomettevano i partigiani del re a un regime di terrore. A. capì che se egli riusciva a persuadere i calvinisti dell'inutilità d'una ulteriore resistenza alle sue geniali campagne militari, e se offriva condizioni di resa estremamente generose, avrebbe finito col minare il fronte dei suoi avversari. Sicché, pur accerchiando tali città e riducendole alla fame, offrì ai calvinisti la possibilità di andarsene ottenendo la salvezza e lasciando i propri beni sotto l'amministrazione di cattolici onesti, che avrebbero dovuto render conto della loro gestione.
È tale politica abile che finì col ridurre la resistenza di queste grandi città e, senza conquiste con la forza al prezzo di perdite sanguinose, le fece cadere come frutti maturi nelle mani del vincitore: e la conquista dei Paesi Bassi gli si rese più facile. Occorre tuttavia osservare che i successi del Farnese non furono dovuti unicamente al suo valore militare e alla diplomazia, ma altresì agli errori dei nemici. Questi non avevano abbandonato niai un proprio patriottismo regionale, ereditato dall'età di mezzo; ogni provincia - e, si potrebbe aggiungere, quasi ogni città - dimenticava il bene comune dei Paesi Bassi allorché l'avversario era lontano, ma implorava soccorso ai primi segni di pericolo. Intuendo quanto tale particolarismo intralciasse la creazione di un fronte comune nella lotta contro gli Spagnoli, il principe d'Orange non aveva mai smesso di ammonire i suoi compatrioti, ma quasi sempre senza risultato.
Altra circostanza esterna che facilitò il compito al duca A. fu l'atteggiamento dei calvinisti di Gand, i quali, contrariamente ai termini della pacificazione di Gand e nonostante le reiterate suppliche del Taciturno, inaugurarono una politica violentemente anticattolica, confiscando le chiese e i beni del clero, imprigionando gli avversari, commettendo assassini ed esecuzioni, spedendo i mercenari scozzesi alla conquista delle città di Fiandra rimaste fedeli al re. Essi provocarono così la reazione dei "Malcontenti", ossia dei capi delle truppe vallone, e furono la causa prima della scissione del fronte unito della "generalità".
È venuto ora il momento di studiare A. come uomo di guerra. Fin dalla sua gioventù a Parma il principe si era legato d'amicizia con Francesco di Marchi, celebre ingegnere militare e autore del famoso Trattato d'arte militare; l'insegnamento poi di Francesco Paciotto, gloria di Urbino, non meno influì sui suoi perfetti metodi d'assedio. Ma in tutte le sue iniziative tattiche e strategiche il Farnese aggiunse del suo e stupì gli avversari per la tempestività delle sue reazioni e la preparazione minuziosa dei suoi piani. A dar fede a quel testimonio ben informato che è Paolo Rinaldi, nell'allestire le sue imprese guerresche, il principe non si riteneva dispensato dal seguire consigli altrui, né si fidava solo della propria esperienza. Non trascurava alcuna fonte di informazione: al consiglio di guerra ascoltava tutti con pazienza e si mostrava attento all'opinione di ciascuno. Esposta una tesi personale, non si ostinava mai a difenderla se gli appariva che l'idea di altri era migliore. In aperta campagna, come nelle trincee, discorreva coi semplici soldati e ascoltava le loro riflessioni, affermando che ognuno poteva dire qualcosa di sensato e che aveva udite più di una volta dalla bocca di umili gregari osservazioni pari a quelle dei guerrieri più sperimentati. Allorché concepì il piano straordinario di sbarrare l'accesso di Anversa alle flotte olando-zelandesi - sopraggiunte in aiuto della città nel 1584 - costruendo da una riva all'altra della Schelda il ponte rimasto famoso nella storia militare, tutti i suoi ufficiali, e anzitutto i fiamminghi, che conoscevano la spinta della marea sul fiume e i pericoli dei banchi di ghiaccio nell'inverno, avevano qualificato tale impresa come utopistica. A. persistette nel suo progetto ed ebbe la vittoria: Anversa capitolò il 17 ag. 1585.Non altrimenti avvenne, più tardi, quando A.decise di assediare L'Ecluse (Sluis) contro l'opinione dei suoi ufficiali, per destinare tale porto ben situato alla foce della Schelda a rifugio dell'"Invencible Armada ". Paolo Rinaldi qualifica il principe di "volonteroso" e "risicato". E infatti, nel corso della sua carriera di capitano generale dell'esercito di Fiandra, A. conservò qualcosa di quel temperamento di "condottiere" che aveva ispirato la sua gioventù. Con sovrano disprezzo del pericolo, tale che non conviene a un generale in capo, egli si espose spesso in prima linea, desideroso di esaminare personalmente la situazione, rimanendo nelle trincee aperte, sulla traiettoria del tiro nemico, persino dei proiettili che i difensori di una città gettavano dalle mura. Così egli aveva esposto la vita a Lepanto, disobbedito agli ordini di don Juan alla battaglia di Gembloux (1578), e rischiato la morte all'assedio di Audenarde, a quelli di Grave, di Tournai, di Termonde, dell'Ecluse. Pagò di persona nelle terribili mischie sulla diga di Couwenstein, durante l'assedio di Anversa. E, proprio perché una volta di più egli si era troppo esposto, riportò a Caudebec, durante la seconda spedizione effettuata in Francia in soccorso della Lega, una grave ferita, che affrettò la sua fine poco dopo. Sdegnoso egli stesso del pericolo, il Farnese era spietato coi negligenti o coi vili. Durante l'assedio di Anversa il nemico riuscì a impadronirsi del forte di Liefkenshoek: il capitano che per trascuratezza non aveva saputo difendere la posizione fu privato del coniando ed espulso dall'esercito. Al forte di Sant'Antonio la mancata esecuzione dei lavori prescritti da A.costò agli Spagnoli la perdita del ridotto sulla Schelda. Per ordine del principe il capitano colpevole fu decapitato.
D'altra parte, il principe di Parma sapeva come sollevare il morale dei soldati e ne diede notevoli esempi in molte circostanze: specialmente dopo lo scacco del primo assalto contro Maestricht nel 1579, che costò la vita a numerosi soldati e ufficiali. Molto spesso; a causa della malavoglia o della incapacità dei contadini, era impossibile trovare zappatori o scavatori per riattare le strade, scavare fossati o aprire trincee in vista di un assedio. I soldati - soprattutto gli spagnoli - rifuggivano da tale bisogna, che consideravano indegna di loro: il più delle volte occorreva rivolgersi ai minatori di Boemia o del paese di Liegi. Ma in parecchie occasioni il duca A., indirizzando ai suoi uomini le parole giuste, riuscì a indurli ad eseguire il lavoro con gioia e coraggio. Fu il caso di Maestricht, di Tournai, di Audenarde. Dove il genio militare di A. si rivelò in modo specialissimo ènella grande offensiva del 1583,dopo il ritorno dei tercios spagnoli e italiani in Fiandra. Prima di poter attaccare Anversa, che il cardinale di Granvelle chiamava "il ricettacolo di tutte le cattive lane", il principe di Parma doveva impadronirsi di altre considerevoli città come Ypres, Gand, Bruges, Termonde, Malines, Bruxelles. Ma, poiché A. non disponeva dei mezzi per conquistare con la forza quei grandi centri ben fortificati, egli decise di piegarli con la fame, avvalendosi di una tattica che ben a ragione si è chiamata "guerra d'ingegneri". Tagliò ogni comunicazione tra di essi, sbarrando i fiumi e i corsi d'acqua con ponti muniti di artiglieria e soldati, interruppe il passaggio lungo le strade con ridotti forniti di buone guarnigioni, fece brillare delle mine per rendere impossibile il transito ai corrieri e ai carri di rifornimento. Devastò le campagne nel periodo delle messi o si affrettò a far compiere il raccolto dai soldati, prima che i contadini potessero introdurlo entro le mura. Fu un piano eseguito minuziosamente. Applicato a Ypres nell'agosto del 1583 permise al Farnese, giusto due anni dopo, di ricevere nel suo campo di Beveren, a occidente di Anversa, Marnix de Sainte-Aldegonde, che veniva ad offrirgli la resa della grande metropoli commerciale dei Paesi Bassi. Questo 17 ag. 1585 segna nella carriera di A. il culmine della gloria. Gli valse l'ordine del Toson d'Oro da Filippo II e la restituzione della cittadella di Piacenza, tanto importante per la sicurezza degli stati farnesiani in Italia, conservata dal re per lungo tempo come pegno della fedeltà dei Farnese alla causa spagnola.
Occorre adesso mettere in rilievo la qualità di gentiluomo, la natura cavalleresca del principe di Parma. Egli ha sempre mostrato compassione per quelle popolazioni dei Paesi Bassi che tanto ebbero a soffrire della guerra di religione scatenatasi a casa loro. Ed ecco, infatti, quanto diceva il principe al figlio Ranuccio in quello che può chiamarsi il suo "testamento politico",redatto nel novembre del 1592, poco tempo avanti la sua morte: "Prima voi li (al Re) dichiararete l'estremo dispiacere che nell'animo nostro sentiamo di non poter dargli meglior et più grata nova di detto paese, per esser con questa longa et disastrosa guerra ridotto a tal estremità che i propri inimici suoi non possino se non haverli compassione, et si deve reputare a singular favor di Dio che questo povero populo, tanto afflitto et abbattuto, non si sia, come disperato, precipitato a qualche periculosa et pregiudicabile resolutione ". Son parole che si cercherebbero invano nella corrispondenza o negli scritti dei precedenti governatori dei Paesi sassi. Premuto da responsabilità varie e pesanti, il principe di Parma non dimenticava di tenere a freno, minacciando sanzioni, quegli ufficiali le cui soldatesche sfruttavano troppo o maltrattavano gli abitanti. Per quanto era possibile in quell'epoca e in quelle particolari circostanze, A. usò condurre la guerra umanamente, tentando di evitare quegli orrori che troppo spesso le si collegavano.
Gli si può, è vero, rimproverare il massacro di Sichem, nel Brabante, e le barbare esecuzioni di Neuss. Nel primo caso egli è inescusabile, ma nel secondo si trattava di soldati e di borghesi colpevoli di persecuzioni ai danni dei cattolici e di sacrilegi, e che avevano rifiutato una resa a condizioni moderate. Quanto al saccheggio e alle crudeltà di Maestricht nel 1579, non è A. che può esserne reso responsabile, perché in quei giorni egli giaceva delirante nella sua tenda, colpito da un flemmone, ed era quindi nell'impossibilità d'intervenire per metter fine a tali eccessi. Egli stesso chiamò d'altronde la campagna dei Paesi Bassi "guerra di religione": ed è, questa, la forma più terribile di guerra. Ma evitò che le sue operazioni militari ne assumessero l'aspetto, "finché la Maestà divina e la Maestà umana non avessero ricevuto schemi troppo odiosi". Anche nei casi estremi, quando una città, rifiutata la resa, era stata presa d'assalto - con le ineluttabili conseguenze di saccheggi, massacri e incendi - il principe di Parma prendeva sempre misure tempestive perché donne e bambini fossero rapidamente condotti dai suoi ufficiali di ordinanza in chiese o luoghi sacri, al riparo così dal furore e dalle violenze dei soldati. Si verificò più volte in quella guerra che donne di alta condizione prendessero parte attiva alla difesa di una città, talvolta addirittura dirigendola nell'assenza dei mariti. Fu il caso della principessa d'Epinoy, all'assedio di Tournai, e di madame de Balagny all'assedio di Cambrai. Quando tali città capitolarono, il Farnese lasciò uscire quelle donne coraggiose con l'onore delle armi, andò a salutarle e concesse la propria Carrozza o ipropri cavalli per facilitare loro la partenza con tutti i bagagli. Lo stesso atteggiamento cavalleresco egli tenne nei confronti della moglie del "condottiere" Schenck, dopo la presa di Venlo.
È necessario ricordare anche quelle qualità d'uomo di stato cristiano di cui il duca A. diede prova. È un aspetto della sua vita già messo in luce nel nostro studio Alexandre Farnèse homme d'Etat chrétien, apparso nella Miscellanea Vermeersch, (II, Roma 1935). Caratteristica è la scena che avvenne nella chiesa di Notre-Dame di Hal, in Belgio, l'11 sett. 1592, quando per la terza volta A. obbediva all'ordine di Filippo II di andare in aiuto della Lega in Francia. A quel momento egli era già gravemente infermo e il suo confessore, il padre gesuita Thomas Sailly, l'aveva accompagnato al santuario di Hal raccomandandogli di offrire a Dio ogni sofferenza fisica e morale. Il Farnese rispose ch'era giunto il momento di soffrire, che egli aveva meritata questa croce e sapeva di non aver più molto da vivere: presto il suo corpo sarebbe Stato nella terra. Egli pregava Dio di salvare la sua anima e si inchinava alla Sua volontà; addolorato di non potersi appartare in un ritiro modesto in preparazione alla morte, il principe dichiarava a Sailly di essere consapevole d'aver combattuto una "guerra di religione" e affermava che, nutrito nella fede cattolica, vi sarebbe rimasto fino all'ultimo respiro, sperando nella misericordia del Signore al momento del trapasso.
Il capitano spagnolo Alonzo Vasquez narra nelle sue memorie d'aver visto partire il Farnese, con la sua corte, da Bruxelles per Arras con un tempo rigido e un vento glaciale di dicembre. Non portava il mantello invernale e dava l'impressione di non essere mai stato tanto vigoroso: in realtà, la sua volontà di ferro domava la sofferenza. Chi l'osservò da vicino si rese conto ch'egli si teneva in sella alla men peggio, e sarebbe stato disarcionato più volte se due domestici non l'avessero sostenuto di continuo. "Andava a combattere la morte - scrive Vasquez - e non gli eretici di Francia.. E, infatti, il 2 dicembre successivo (1592), l'idropisia di cui A. soffriva da sei anni, raggiunse il cuore. Egli morì ad Arras all'età di quarantasette anni.
Principe italiano, egli aveva illuminato d'una luce immortale la sua patria. Sebbene, nella sua giovinezza, la corte di Madrid avesse tentato di farne uno spagnolo di educazione e di mentalità, non vi riuscì affatto: tutta la sua vita egli rimase un Italiano autentico. Fu questo suo carattere a suscitargli tante inimicizie alla corte di Spagna, tanti sospetti e, nonostante gli ineguagliabili servizi resi, tanta diffidenza da parte del re. Quando questi decise di far cadere in disgrazia il gran capitano, il segretario di stato don Juan de Idiaquez criticò la gestione del Farnese in Fiandra, e particolarmente l'impiego di truppe italiane al posto di quelle spagnole: poi aggiunse: "il carattere dominatore del duca di Parma e in sua qualità di Italiano creano un problema che dovrebbe essere studiato da vicino".
È con ragione che papa Clemente VIII, ricevendo notizia della morte del' duca A., si espresse in questi termini: "Mala nuova abbiamo havendo perduto un grand'huomo, di sangue romano, splendor d'Italia". Nello stesso momento a Bruxelles, nella cappella del palazzo dei duchi del Brabante, innanzi al letto di morte ove riposava il corpo del defunto governatore generale, una folla anonima e silenziosa non cessava di sfilare, accostandosi alla salma con venerazione. Oggi le spoglie del grande capitano giacciono nella cripta della bella chiesa della Madonna della Steccata a Parma.
L'Italia non è sola a conservare il ricordo di A. Farnese. Egli occupa un posto importante anche nella Storia del Belgio. Fu qui ch'egli dovette, per ordine del suo re, far guerra alla parte calvinista e ribelle d'una popolazione alla quale si sentì nondimeno legato, occupandosi dei suoi bisogni, provvedendo a rifornirla mediante l'instaurazione d'un regime di licenze per il commercio col nemico, distribuendo doni ed elemosine ai poveri, sostenendo materialmente gli Ordini religiosi e le comunità ecclesiastiche, ripristinando il normale funzionamento delle istituzioni, accogliendo nei suoi consigli rappresentanti della nobiltà nazionale, dando di che vivere alla classe media coi numerosi acquisti fatti per sé e per la corte, aiutando nei limiti dei suoi mezzi uomini di scienza e artisti, accordando protezione all'università di Lovanio e a quella di Douai. Ma, soprattutto, con la riconquista dei Paesi Bassi meridionali e con le offensive spinte fino ai grandi fiumi che proteggevano le regioni settentrionali, egli ha fatto del Sud un'entità autonoma, ed è quindi il creatore del Belgio moderno. Ristabilendovi il culto cattolico e reintroducendovi l'obbedienza al "principe naturale" del paese, A. ha dato al Belgio i due caratteri ch'esso ha poi sempre conservati e che l'hanno definitivamente scisso dalla repubblica calvinista del Nord: le convinzioni cattoliche e il regime monarchico.
La si deplori o la si celebri, una tale parte avuta da A. Farnese è scritta per sempre nella storia.
Fonti e Bibl.: Correspondance d'A. F. ... avec Philippe II dans les années 1378-1581, a cura di M. Gachard, Bruxelles 1853; A. Cauchie-L. van der Essen, Inventaire des Archives Farnésiennes de Naples au point de vue de l'histoire des anciens Pays-Bas catholiques,Bruxelles 1911; L. van der Essen, Les Archives farnésiennes de Parme au point de vuedes anciens Pays-Bas, Bruxelles 1913; P. Fea, A. F. duca di Parma, Roma 1886; P. Fea, Il duca A. F. e le cartte dell'Arch. napoletano, Parma 1914; A. Barilli, Nuovi documenti su A. F., Parma 1938; N. Follini, A. F. III Duca di Parma e Piacenza, 1545-1592, Bobbio 1932; L. van der Essen, A. F., prince de Parme, gouverneur général des Pays-Bas (1545-1592), 5 voll. Bruxelles 1933-1937; G. Drei, Le tombe di A. F. e dei principi di Parma, in Aurea Parma, XXI(1937), pp. 190-194; L. van der Essen, A. F. et les origines de la Belgique moderne. 1545-1592, Bruxelles 1943.