CITOLINI (Cittolini, Citolino), Alessandro
Figlio di Teofilo, nacque intorno al 1500 a Serravalle (a ridosso dell'odierna Vittorio Veneto, in provincia di Treviso) da famiglia agiata, che gli consentì di acquisire una buona formazione culturale, forse frequentando le lezioni di quel Marcantonio Amalteo che nell'ottobre del '26 scriveva a Pordenone al nipote Paolo, in risposta a una lettera di quest'ultimo recapitatagli tramite il Citolini.
Nella primavera del 1530 viveva ancora nella sua cittadina, ove rilasciava certificati di sanità ai viaggiatori in transito ed era ascritto tra i consiglieri, carica per la quale era richiesta l'età minima di ventidue anni. Fu in questo periodo che il C. poté diventare discepolo del celebre Giulio Camillo Delminio, al cui insegnamento si ispirò e fu debitore dei suoi più significativi orientamenti culturali. Non è escluso che il C. abbia avuto modo di seguire il maestro in qualcuno dei suoi continui viaggi in Italia, mentre certamente lo accompagnò in Francia, dove sostò per qualche tempo, come egli stesso attesterà nella sua Lettera in difesa della lingua volgare (1540), in cui potrà asserire una diffusa conoscenza dell'italiano fra i transalpini sulla, base di una diretta esperienza personale. Nel 1539 era comunque a Roma, dove tre sue odi, a C. Tolomei, a L. Alamanni e Della sua donna, erano pubblicate in un volume di poesie in volgare curato dal Tolomei per offrire un saggio della nuova forma metrica da lui proposta (Versi e regole della nuova poesia toscana, Roma 1539, cc. 35r. 35v, 36r). Sempre a Roma, il 10 sett. 1540, firmava la sua Lettera ora ricordata, che fu stampata a Venezia da F. Marcolini nel dicembre di quell'anno.
Nel breve opuscolo, edito all'insaputa dell'autore (come risulta da una lettera del tipografo all'Aretino stampata sul verso del frontespizio di alcuni esemplari del libro), il C. entrava nel merito della discussione sull'uso del latino o del volgare prendendo netta posizione tra i fautori di quest'ultimo. Dopo aver negato che il problema potesse essere affrontato in base a concetti generici quali l'antichità o la purezza delle lingue, non pertinenti in relazione a uno strumento espressivo in costante evoluzione, il C. si schierava a favore del volgare per la sua capacità di adattarsi alle esigenze del presente, per la sua aderenza a oggetti e situazioni sconosciuti nel passato e non descrivibili con il latino se non a prezzo di inaccettabili forzature. In questo senso - scriveva il C. - lingua latina e lingua volgare non sono comparabili, poiché la prima "è morta e sepolta ne' libri", mentre la seconda "è viva e tiene hora in Italia quel medesimo luogo che tenne la latina mentre visse" e, in quanto fondata sulla quotidiana concretezza della "vivente favella", sempre "crescie, genera, crea, produce, partorisce e sempre si fa più ricca e più abondante". In tale prospettiva di fondo, il C. si discostava tuttavia dalle posizioni del Toscani e del Fiorentini di stretta osservanza, negando che la lingua volgare dovesse Vidursi "a la sola e semplice toscana" e affermando invece l'opportunità di "lasciar tutti i diffetti de la toscana e pigliar tutte le buone parti de l'altre sue provincie". Esplicito era il giudizio in questo senso del C. che, pur richiamandosi al modello petrarchesco, inteso tuttavia in forma non rigidamente vincolante, scriveva: "Io voglio starmi ne la toscana non come in una prigione, ma come in una bella e spatiosa piazza, dove tutti i nobili spiriti d'Italia si riducono". Nel rifiuto del latino e di immobili archetipi letterari del passato, così come nel respingere l'egemonia linguistica dell'area toscana, il veneto C. si ispirava al principio della "bella libertà", per condannare le "opinioni fondate in ostinatione, non in ragione" e opporsi a ogni criterio di supina imitazione.
Ma, al di là del suo contenuto e dei suoi obiettivi polemici, la Lettera presenta altri elementi di particolare interesse, soprattutto in relazione alle opinioni religiose del C., il cui successivo esilio per motivi religiosi (1565) si pone al termine di un'esperienza assai complessa, nella quale è possibile scorgere circa un trentennio di nicodemitica professione di dottrine eterodosse. Cosimo Pallavicini, cui lo scritto del C. è indirizzato, era fratello di quel Giovanni Battista, predicatore carmelitano che, dopo travagliate vicende religiose e inquisitoriali, fu nuovamente arrestato a Roma nel giugno del '40, cioè appena due mesi prima della stesura di quel testo. Cosimo stesso, che in questa occasione riuscì a evitare l'arresto solo fuggendo dalla città, in passato era stato in Francia insieme con il fratello e Giulio Camillo nonché - come tutto induce a ritenere - il C., che al Pallavicini nella Lettera ricordava il comune soggiorno oltr'Alpi. È noto, d'altra parte, che un chierico Ludovico Mantovano da Serravalle, incarcerato a Verona nel gennaio del '39 e sottoposto a processo in quanto sospetto di eresia, riferì che nell'estate del 1538 nella sua cittadina alcuni giovani si riunivano intorno al C., "venuto de Franza" e attivo propagandista di "opinione Lutherane", in relazione col suo concittadino Marcantonio Flaminio. Ma più o meno evidenti sfumature, che in questa luce acquisiscono un evidente significato eterodosso, sono facilmente individuabili anche nella Lettera, ove il C., per esempio, sosteneva la possibilità di tradurre fedelmente dal latino in volgare il testo della "santa legge", tacciava d'ignoranza "questi leggiadri preti che vanno limosinando col breviario aperto in mano per mostrar che sono dotti" e ribadiva tale atteggiamento scopertamente anticlericale anche nel pur scontato riferimento al Boccaccio, difeso dall'accusa di empietà ("Chi fu manco religioso! o i sacerdoti a fare il male o il Boccaccio a dirlo?") e di oscenità, e anzi lodato per aver mirabilmente descritto e stigmatizzato "la corrotta et abominevol vita de' preti, le incredibili et infinite sceleragini de' frati, la disfionesta e sporca castità de le monache". Ancor più esplicita in tal senso è anche la coeva testimonianza del medico e letterato friulano Orazio Brunetti, uomo assai vicino alle dottrine riformate, corrispondente del Vergerio e vissuto per qualche tempo presso Renata di Francia. A quest'ultima è appunto dedicata una sua raccolta di Lettore, tra le quali ne figura anche una indirizzata al C. (Venezia 1548, cc. 243v-244v), non datata ma certo risalente a questi anni, nella quale il ricorrere di temi religiosi e dottrinali quali la grazia, il beneficio di Cristo, la predestinazione sembra andare al di là di una generica risonanza di motivi riformati, per acquisire una più precisa specificità di chiara matrice calvinista. E non è escluso che appunto in questi anni si diffondessero voci circa l'eterodossia religiosa del C., come risulta forse da una lettera inviatagli dal Tolomei, presumibilmente nel '47, in cui questi accennava a "certe male nuove de' fatti vostri" che gli erano giunte alle orecchie e consigliava l'amico di liberarsi prontamente "da cotali fastidi".
Relativamente fitto è in questi anni, 1545-47, specie intorno a problemi linguistici e ortografici, il carteggio tra il letterato senese e il C., che in futuro parlerà del "gran Claudio Tolomei, mio osservandissimo precettore", certo frequentato a Roma nel 1539-40. Del resto, la stima di cui egli fu fatto oggetto da parte del Tolomei trova conferma nel giudizio espresso da G. B. Giraldi Cinzio, che lo ricorderà come colui che, insieme con il Bembo, aveva "abbondevolmente sciolto" il dubbio se "sia meglio a' nostri tempi scrivere latino che vulgare" (Discorsi intorno al comporre dei romanzi, Venezia 1554, pp. 3-4).
Sulla base delle lettere del Tolomei è anche possibile ricostruire sommariamente i frequenti spostamenti del C. che, dopo il soggiorno a Roma, risulta a Genova nel gennaio del '45 (forse qui stabilitosi già da qualche anno), a Piacenza intorno al '47 per una breve visita all'amico, a Venezia nel '46-'47, dove frequentava L. Dolce e F. Badoer e, sempre secondo le parole del senese, era "amicissimo" dell'Aretino. Prima del 1541 il C. fu anche a Urbino, dove vennepresentato al duca Guidubaldo, con il quale ebbe modo di conversare tutta una sera per mostrargli "i luoghi e gli apparecchi" da lui elaborati. Tali parole si leggono in apertura di un breve opuscoletto di sedici pagine del C.", I luoghi, pubblicato in una disadorna stampa a Venezia nell'aprile del 1541, che costituisce la prima rara edizione di questo scritto, generalmente noto nella più tarda ristampa del '51 (una terza edizione postuma dell'opera, in forma di lettera a Guidubaldo Della Rovere, fu curata da B. Zucchi, L'idea del segretario, III, Venezia 1614, pp. 425-32).
Il riferimento a tali "apparecchi", del resto, compare anche nella Lettera, dove l'autore ricordava "gli apparecchi ch'io mi ho fatti di queste lingue, havendole ridotte a capi e luoghi propri" e che utilizzava per tradurre dal latino in volgare e viceversa. Di tali apparecchi I luoghi costituiscono appunto una sorta di schema teorico, che il C. intendeva ora divulgare "per non tener più sepolto in me solo quel dono che per utilità di molti Dio per sua bontà m'ha conceduto", offrendo un breve saggio dei criteri cui si ispirava quello che voleva essere un suo modello mnemotecnico. Nell'ambito di questa tematica, evidentemente suggeritagli dalle celebri ricerche del suo maestro, Giulio Camillo, del resto a quella data ancora vivente, il C. si proponeva l'obiettivo di elaborare quegli appropriati accorgimenti che consentissero di superare la labilità della memoria, intesa come fondamento della sapienza. I "luoghi" erano volti per l'appunto a tal fine, in qualità di "bastanti e propri ricetti di tutte le cose corporee e incorporee, visibili e invisibili, e finalmente di tutto quello che si può esprimere con lingua humana", utili in funzione di ordine razionale in cui organizzare e distribuire i contenuti della memoria in modo da poterli agevolmente recuperare. Brevità e facilità erano per il C. i due criteri fondamentali cui ispirarsi nell'impostare la struttura di ogni modello mnemotecnico, giacché bolo così esso poteva esplicare tutte le sue potenzialità costruttive senza diventare "un labirinto". In base a questi principi il C. proponeva di ridurre tutti i possibili "luoghi" a uno soltanto (per brevità), identificato nel mondo, e di organizzarlo internamente (per facilità) in una sorta di ordine logico, o meglio fisico-naturale, che si articolava per successive e organiche suddivisioni fondate sulla filosofia aristotelica. Procedendo in questo modo il C. era convinto di poter mostrare tutte le cose "distintamente ne' loro particolari e propri luoghi, non dico tirandole con l'argane né cacciandole col bastone da un luogo a un altro, ma lasciandole là ove Iddio di sua man le pose". Definito quindi il mondo come il luogo per eccellenza, l'unico e onnicomprensivo, in quanto tutto ciò che esiste è nel mondo, il C. scomponeva poi "questo grandissimo e generalissimo capo nelle sue parti differenti, le quali tutte l'una dall'altra, come la specie dal genere, si derivano e l'una l'altra si dimostrano", dividendo anzitutto il mondo in intellegibile e materiale, relativo il primo alla metafisica e il secondo a tutte le scienze fisiche. Il mondo materiale si articolava a sua volta in celeste ed "elementato", quest'ultimo in elementi puri e misti, e così via, per successive scansioni, fino ai diversi tipi di metalli, di pietre, di piante, di animali e alle diverse parti di cui le singole cose si compongono. In sostanza, all'organizzazione fisica del reale il C. faceva corrispondere un'analoga organizzazione teorica di ogni possibile oggetto di conoscenza e di memoria. Inutile sarebbe voler dar conto del complesso frastagliarsi e ricomporsi, all'interno di uno schema unitario, dello strumento mnemotecnico elaborato dal C. che, d'altra parte, in questo breve opuscolo intendeva solo dar conto del suo modello, affinché si vedesse "la possibilità del suo esser capace del tutto, in fino a tanto che con più lunga narratione l'havremo pienamente dimostrato".
Tale "più lunga narratione" costituirà il frutto più importante di queste ricerche del C., la sua Tipocosmia, pubblicata a Venezia dal Valgrisi nel 1561 e dedicata al vescovo di Arras Carlo Perrenot. Il libro, che il C. asseriva di aver ultimato già dieci anni primae di aver deciso di stampare solamente ora, sotto la impressione di una lunga malattia che, con il rischio di perdere la vita, gli aveva fatto intravedere la possibilità che andasse perduto anche il frutto delle sue ardue ricerche, si proponeva di offrire a tutti lo strumento con cui poter ovviare alle carenze della "mai sicura memoria", conservando quel sapere che "con acerbissima fatica s'acquista".
Il lavoro, per il quale il C. si lamentava di non aver trovato nessuno che gli avesse prestato "punto d'aiuto" e ricordava la tanto "lunga, dura ed acerba fatica" sostenuta, si articola in un dialogo di sette giornate, sul modello della creazione del mondo, del tutto coerente con il criterio da lui assunto nell'organizzazione e distribuzione dello scibile, "accommodandomi in tutte le cose a le meravigliose operazion de la natura". Senza voler essere esaustivo, tale modello consentiva a ciascuno di "un altro simile fabricarsene" e ricalcava puntualmente lo schema già illustrato nei Luoghi, arricchendolo di nuove specificazioni e soprattutto completandolo con un affastellato catalogo di nomi, di oggetti, di piante, di pietre, di isole, di fiumi, di città, di scienze, di mestieri e così via, in cui la volontà di classificazione enciclopedica dello scibile finiva con il concretarsi in una sorta di interminabile elencazione lessicale. Si spiega così la definizione di vocabolario, di "vocabulorum artis cuiusque massa et acervus", come dirà Bacone (De dignitate et augmentis scientiarum, VI, 2, Parisiis 1624, p. 320), che è stata spesso attribuita alla Tipocosmia, il cui fine essenziale, nella volontà dell'autore, restava pur sempre quello di offrire un modello di organica strutturazione del sapere a fini mnemonici e retorici. Evidente è il nesso di questo lavoro del C. con le ricerche che furono al centro dell'attività del suo maestro Giulio Camillo, autore della notissima Idea del theatro, come già nel 1544metteva in evidenza G. Betussi, sottolineando un'analogia che a suo parere rivelava "la conformità della conversazione lungo tempo avuta" (Il Raverta, Venezia 1544, in Trattati d'amore del Cinquecento, a cura di G. Zonta, Bari 1912, p. 57). Il problema dei rapporti tra il modello elaborato dal C. e gli studi del maestro si presenta tuttavia in modo complesso anche in considerazione delle accuse di plagio che furono rivolte in passato contro l'autore della Tipocosmia (Fontanini, Zeno, Liruti), suggerite in parte dalla divisione del dialogo in sette giornate, cioè in base a quel ritmo settenario che scandiva l'organizzazione e le corrispondenze del Teatro del Delminio, ma forse motivate anche dall'esplicita eterodossia religiosa del C. clamorosamente rivelatasi nel 1565. Già B. Partenio pubblicando la traduzione latina del suo De poeticaimitatione (Venezia 1565, c. 47r), pur senza menzionare il C., non esitava a mettere in bocca al Trissino una severa denuncia contro alcuni dei seguaci di Giulio Camillo, che ne avrebbero trafugato o copiato gli scritti per farsene indebitamente merito. D'altra parte, se è vero che il nome del Delminio non compare nelle sue opere, resta il fatto che, pur rispondendo alle medesime esigenze intellettuali e conoscitive, la ricerca del C. si muove in una prospettiva in parte autonoma, specie in relazione a quegli interessi simbolici, ermetici, cabalistici e magici che costituiscono un elemento essenziale dell'opera di Giulio Camillo e ne offrono la più efficace chiave interpretativa. I. Sturm, del resto, in passato amico del Delminio ed egli stesso celebre studioso di problemi mnemotecnici e retorici, potrà in seguito lodare calorosamente il C., senza la minima consapevolezza di un rapporto men che corretto tra questo e il maestro. Occorre sottolineare, infine, a conferma del dissenso religioso del C., la presenza nella Tipocosmia (cfr, pp. 301-305) di tracce evidenti "di un atteggiamento profondamente critico velso le istituzioni e le idee cattoliche, esposte a tutti gli effetti ironici e corrosivi di un confronto col modello di una ideale chiesa primitiva" (Prosperi).
L'eterodossia religiosa del C., a lungo mascherata da prudenti coperture nicodemitiche, emerse del resto chiaramente di lì a poco, nel 1565, quando egli dovette abbandonare definitivamente l'Italia per sfuggire al tribunale del S. Uffizio e a un processo per eresia avviato contro di lui. Assai scarse, peraltro, sono le notizie che possediamo relative agli ultimi anni trascorsi in patria dal Citolini. Una nuova edizione tanto della Lettera quanto dei Luoghi apparve a Venezia, per i tipi di A. Arrivabene, nell'anno 1551, in un volumetto curato da G. Ruscelli e comprendente anche una sua Lettera al Mutio in difesa dell'uso delle signorie. Anche tale stampa avvenne all'insaputa dell'autore, recatosi in quei giorni a Firenze, come dichiarava lo stesso Ruscelli nella breve prefazione, datata il 5 settembre. Da essa, oltre al notevole successo incontrato dalla Lettera, risulta anche confermata l'attiva partecipazione del C. alle discussioni dei circoli letterari veneziani, come suggeriva poco dopo anche il Vergerio, che non esitava a inserire il suo nome in un elenco dei maggiori letterati italiani del tempo (De idolo Lauretano, [Tübingen?] 1554, p. 59). Non si dispone di altre notizie sul C. fino al 1564, quando pubblicava a Venezia, premettendovi una lettera a L. Cornaro datata il 10 luglio, l'opera di Marco Valerio Marcellino, Il Diamerone... ove con vive ragioni si mostra la Morte non esser quel male che 'l senso si persuade. Con una dotta e giudiciosa lettera over discorso intorno alla lingua volgare (ristampato anche nel '65). L'anno dopo una sua canzone petrarchesca, dedicata a Bona Sforza in occasione del suo ritorno in Italia e databile quindi al 1556, era compresa in una raccolta curata dall'Atanagi (Delle rime di diversi nobili poeti toscani, Venezia 1565, II, cc. 95v-96v; cfr. anche p. Iiv dell'app.). Certo risalente a questi anni è anche la poesia a lui dedicata da un altro riformato italiano, P. Bizzarri, residente a Venezia come informatore del governo inglese, pubblicata sempre nel 1565 nei Poematum libri duo di quest'ultimo (in Varia opuscula, Venezia 1565, cc. 142r-143v). Se da questi versi si può dedurre che il C. viveva allora ritirato in campagna, dove curava le sue terre e approfondiva i suoi studi, nel legame con il Bizzarri è forse possibile intravedere una delle vie che di lì a poco indirizzarono il suo esilio verso la lontana Inghilterra.
La decisione del C. di abbandonare Venezia fu certo imposta dall'avvio di un procedimento inquisitoriale, del quale non si conosce tuttavia la documentazione. Acclusa agli atti di un altro processo (contro la nobildonna Isabella Frattina) si è conservata soltanto una copia della sentenza di condanna, che fu pronunciata il 28 luglio 1565 in assenza dell'imputato, "haereticum contumacem et fugitivum ac impenitentem". Non è escluso che anche in anni precedenti il C. fosse stato sottoposto ai rigori di un tribunale inquisitoriale, come sembra suggerire un memoriale inviato al S. Uffizio di Venezia poco dopo la ricordata sentenza, il 16 settembre 1565, dall'inquisitore di Conegliano, che definiva l'autore della Tipocosmia come un personaggio ben noto, "già molt'anni bandito per heretico, et habita fra heretici in Geneva et Chiavenna", chiedendo l'autorizzazione a confiscame i beni. Dalle sue parole sembra che il C. avesse convinto delle sue opinioni ereticali anche la moglie, "Dorotea di Lavini da Venetia", e i tre figli, Paolo Emilio, Marcantonio e Teofilo. Nella stessa estate del 1565, del resto, un processo de haeresi era in corso, sempre presso il S. Uffizio veneziano, a carico del figlio Paolo Emilio, "abiurato et hora relapso", come scriveva l'inquisitore di Conegliano. Quest'ultimo precisava infine che anche Teofilo in un recente passato era vissuto "undeci mesi in heretici col patre", ma aveva poi fatto ritorno in patria, dove, "pentito di soi errori, s'è abiurato". Èprobabile, peraltro, che questa conversione non fosse sincera e che Teofilo fosse tornato in Italia poco dopo la definitiva fuga del padre soltanto per cercare di rientrare in possesso dei beni familiari, come lascia intendere il fatto che nel 1567 si trovava nuovamente a Ginevra. Il nome del C., infine, ricorre ripetutamente negli atti del già menzionato processo a carico di Isabella Frattina e dell'eretico e visionario lacopo Brocardo, svoltosi a Venezia nel 1568-69. Il C. era infatti amico da "gran tempo" del Brocardo, che aveva conosciuto e frequentato nella cerchia dei discepoli di Giulio Camillo, e successivamente a Venezia negli anni '60. Dall'ampia documentazione di questo processo è possibile desumere anche qualche notizia sui precedenti oscuri anni della vita del C., che intorno al 1553-54 era stato precettore. della Frattina, allora dodicenne, e dei suoi fratelli, a Padova, dove "teneva casa" e dove viveva ancora alla fine del decennio, "sguerzo da un occhio", come lo ricordava un testimone nel processo contro la nobildonna. In seguito, nel 1563-64, il Caveva spesso frequentato la casa veneziana della sua ex allieva, che diceva di gradire la sua compagnia "perché l'era huomo facetto et burlevole" e in un caso si servì del suo aiuto per trattare alcuni affari in terra tedesca. Qualcun altro sosteneva invece di averli visti appartarsi per leggere "insieme cose latine"; c'era anche chi riteneva il C. attivo propagandista di dottrine religiose eterodosse e chi lo giudicava "poco catholico" in quanto non mancava di esortare a leggere "lo evangelio et perché diceva che li piaceva che si dicesse il pater noster volgare et altre cose simili".
Fuggito da Venezia, nell'estate del 1565 il C. era già giunto a Ginevra, dopo aver lasciato di passaggio nei Grigioni quei versi che sette anni dopo vi avrebbe trovato un altro esule italiano, M. Squarcialupi. Da Ginevra si trasferì subito a Strasburgo, presso lo Sturm, forse da lui già conosciuto a Parigi negli anni '30, che intervenne in suo favore per raccomandarlo ad alcuni amici inglesi. All'inizio dell'ottobre, infatti, il professore strasburghese scriveva tre lettere, rispettivamente ad Anthony Cooke, già tutore di Edoardo VI ed esule nella città alsaziana durante il regno di Maria, a William Cecil e alla stessa regina Elisabetta, per presentare l'esule italiano, "acque mihi atque germanus frater gratus", in procinto di trasferirsi in Inghilterra. Lo Sturm pregava i suoi corrispondenti di mostrarsi generosi nei confronti del C. e di incoraggiare e sovvenire i suoi studi, ai quali accennava con parole di grande ammirazione, specie nella lettera alla regina, riferendosi all'opera che egli recava con sé in Inghilterra, e cioè alla Tipocosmia o forse a una rielaborazione o un'ampliamento della stessa, che non esitava a definire come uno strumento prezioso, in virtù del quale risultava agevole "in arcem sapientiae certa via et ratione conscendere". Accompagnato da una così benevola presentazione il C. raggiungeva immediaiamente l'Inghilterra, donde pregava lo Sturin di intervenire nuovamente in suo favore per chiarire un piccolo equivoco, come questi faceva scrivendo ancora al Cooke il 13 dicembre di quell'anno, precisando ulteriormente le motivazioni religiose dell'esilio del C., costretto a separarsi dalla moglie e dai figli e a lasciare il suo paese, dove aveva goduto di fama e di benessere non trascurabili. Nello stesso giorno, probabilmente da Londra, il C. indirizzava una medesima lettera in italiano al duca di Leicester e in latino al Cecil, dicendosi "atto a le fatiche dei viaggi" e offrendo di porsi al servizio della regina per seguire a vantaggio del governo inglese l'imminente Dieta di Augusta. La sua richiesta fu subito accolta, dal momento che già nel gennaio del '66 era a Strasburgo, donde informava il Cecil dello svolgimento della missione che gli era stata affidata e scriveva alla regina, ringraziandola per la fiducia accordatagli ma anche rinnovando l'istanza per ottenere "una ferma provigione", che gli avrebbe consentito di "cavar la mia dolcissima consorte e famiglia fuor di Babilonia e tenerla meco ove si dia il pio e vero culto al nostro Dio". Poco dopo, passando per Basilea, si trasferiva ad Augusta, donde per tutto il mese d'aprile teneva al corrente il ministro inglese dello svolgimento della Dieta. Non risulta documentata un'ulteriore attività del C. in questo senso e, probabilmente, anche gli aiuti che aveva sperato di ottenere in Inghilterra per portare a compimento il suo lavoro dovettero venirgli meno o risultare assai inferiori al previsto, se il 1º ott. 1568, dopo un'altra visita personale dell'amico, lo Sturm gli consegnava nuovamente lettere di raccomandazione, indirizzate questa volta a R. Ascham e J. Hales. In particolare, lo Sturm pregava i suoi amici inglesi di insistere presso la regina, affinché "hominem exulem et virum. innocentem suo patrocinio tueatur - scriveva - et stipendio adsit, quo id quod septem sermonibus delineavit, id totum coaedificare et omni suppellectile consummare possit". Sembra dunque che il C. desiderasse ampliare e completare la sua Tipocosmia o forse, come già Giulio Camillo per il Theatro, intendesse giungere alla costruzione di una sorta di macchina o di edificio che ne realizzasse materialmente il modello, anche se in conclusione del suo lavoro aveva giudicato simili artifici "cose più tosto da fanciulli che da desiosi di sapere". È evidente, in ogni caso, che tutti i progetti dell'esule italiano dovettero rimanere tali e in ambiente inglese nessuno si dimostrò particolarmente pronto a venire incontro ai suoi "studiis et inventis", come lo Sturm aveva auspicato.
Né le cose dovettero sostanzialmente mutare negli anni seguenti, che il C. trascorse probabilmente a Londra, pur recandosi forse ancora una volta a Strasburgo, nell'estate del 1570. Precaria appare la sua situazione economica e acuta la delusione sofferta, come suggerisce una lettera inviata il 14 ag. 1573 alla regina, in cui l'esule italiano faceva l'inventario di tutti i beni che gli erano rimasti, elencando con amara ironia "un gran forziere pieno di calde promesse, un gran cassone pieno di buone speranze, una gran borsa piena di niente". L'esule italiano recriminava su una prebenda un tempo promessagli e poi concessa dal Cecil a un altro e ricordava la sua "vecchiezza vuota d'ogni comodo e piena d'ogni bisogno", promettendo, nel caso che la sua richiesta venisse accolta, di riprendere a scrivere versi in lode della regina, cui si era rivolto nella speranza "di muover il Suo real core a compassione del povero Citolini, il quale - scriveva argutamente, dicendosi "inglese da la bira in fuori" - desidero che le sia raccomandato come me medesimo". Maancora una volta la sua richiesta d'aiuto non dovette sortire l'effetto sperato, se il 16 gennaio dell'anno successivo si vedeva costretto a rinnovare un'analoga istanza nei confronti del Cecil. Già dall'aprile del '73, del resto, quest'ultimo era intervenuto in suo favore presso l'arcivescovo M. Parker, che gli aveva proposto addirittura di stabilirsi nella sua casa ed era riuscito a ottenere per lui l'offerta di una prebenda da parte del vescovo di Ely. Tuttavia, sebbene il C. potesse contare anche sulla protezione del conte di Bedford, non sembra che si riuscisse a trovare una soluzione per lui soddisfacente. È assai verosimile che in questo periodo il C. si sia guadagnato da vivere come maestro di italiano negli ambienti dell'aristocrazia inglese, secondo quanto sembra indicare il fatto che nel 1574 il suo nome venne proposto dall'ambasciatore inglese in Scozia, qualora si fosse ritenuto necessario assegnare un insegnante di italiano al giovanissimo re Giacomo VI Stuart. Probabilmente nello stesso anno il C. dedicava una sua manoscritta Grammatica de la lingua italiana (British Library, Arundel 258) a C. Hatton, forse con il proposito di entrare al servizio dell'alto dignitario di Elisabetta, cui si era inutilmente rivolto anche in passato.
Già noto nel 1575, il lavoro dell'esule italiano verrà largamente utilizzato e spesso letteralmente tradotto da John Florio nella parte grammaticale annessa ai suoi Firste Fruites (London 1578), pur senza-citaremai il nome Citolini. Il Florio ricorderà invece esplicitamente lo straordinario repertorio lessicale costituito dalla Tipocosmia nella prefazione del suo celebre dizionario anglo-italiano (A Worlde of Wordes, London 1598, c.a[4]r; vedi anche F. A. Yates, John Florio. The Life of an Italian in Shakespeare's England, Cambridge 1934, pp. 189, 341). Quasi certamente la Grammatica del C., particolarmente attenta a quei problemi fonetici e ortografici che già in passato erano stati al centro delle sue discussioni con il Tolomei, era stata redatta ancora in Italia e coincide con quel "trattato" nel quale si era proposto di dimostrare "quanto così fatta maniera di ortografia sia non pur utile, ma necessaria a questa lingua" e che non era riuscito a far stampare per sopraggiunte difficoltà tipografiche, di cui si legge in un brano della Tipocosmia.
Una breve poesia in italiano del C. fu inserita in apertura della traduzione del Galateo curata da Robert Peterson e pubblicata a Londra nel 1576 (ripubblicata ancora a Londra nel 1892), mentre l'ultima testimonianza nota relativa all'esule italiano risale a pochi anni dopo, al 1581 quando G. Bruno nella sua Cena de le ceneri, ricordava "un povero M. Alessandro Citolini", cui alcuni mesi prima era stato "rotto e fracassato un braccio" dalla violenta plebe londinese. Nella lezione definitiva del testo bruniano il nome del C. verrà espunto e al suo posto sarà inserita la generica menzione di "un povero gentilhuomo italiano", al quale era stata "rotta e fracassata una gamba".
Non è escluso che la correzione sia stata apportata dal Bruno in considerazione dell'ormai sopravvenuta scomparsa dell'ottantenne esule italiano, dopo quasi vent'anni di esilio in Inghilterra.
Vale la pena di ricordare, infine, che nei documenti inglesi di questi anni figura anche il nome di un Paolo Citolini, forse il già ricordato figlio Paolo Emilio, che nel 1570inviava una petizione relativa a una proprietà fondiaria e nel 1582svolgeva missioni assai delicate presso l'ambasciata inglese a Parigi, nel corso delle quali, l'estate dell'anno successivo, gli occorse di essere assalito e rapinato da un soldato normanno (Calendar of State Papers,Domestic series,1581-90, London 1865, p. 119; Foreign series,May-December 1582, London 1909, p. 291).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Sant'Uffizio,Processi, busta 25; Calendar of State Papers,Foreign series, 1564-65, London 1870; 1566-68, London 1871; 1569-71, London 1874, ad Indices; Calendar of State Papers relating to Scotland 1547-1603, IV, London 1905, p. 158; C. Tolomei, Lettere, Venetia 1585, cc. 145v, 154r-155v, 240r, 243v-244r, 247v, 253v-254r, 269v, 270r, 272rv, 274r, 275v, 286rv; C. Gesner, Bibliotheca, a cura di I. Simler, Tiguri 1574, p. 26; R. Ascham, Epistolarum libri quatuor. Accessit I. Sturmii,aliorumque ad Aschamum Anglosque alios eruditos epistol. liber unus, Oxoniae 1703, pp. 414-418, 421 s.; I. G. Schelhorn, Dissertatio epistolaris de Mino Celso Senensi, Ulmae 1748, pp. 66-72; G. Fontanini, Biblioteca dell'eloquenza italiana, con le note di A. Zeno, I, Venezia 1753, p. 38 (vedi A. Zeno, Lettere, Venezia 1785, IV, pp. 425 s., 447-450); D. Gerdes, Specimen Italiae reformatae, Lugduni Batavorum 1765, pp. 227-230; G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da' letterati del Friuli, III, Udine 1780, pp. 130-34, 137-46; J. Strype, The Life and Acts of Matthew Parker,the first Archbishop of Canterbury,in the Reign of Queen Elizabeth, II, Oxford 1821, pp. 231-33; J. Bernardi, A. C., Torino 1867; C. Cantù, Gli eretici d'Italia, III, Torino 1868, p. 149; J. B. G. Galiffe, Le refuge italien de Genève aux XVIme et XVIIme siècles, Genève 1881, p. 172; F. Di Manzano, Cenni biografici dei letterati ed artisti friulani, Udine 1887, p. 61; S. Bongi, Annali di Gabriel Giolito de' Ferrari, II, Roma 1895, pp. 202 s.; H. Bullinger, Korrespondenz mit den Graubündnern, III, Basel 1906, pp. 301 s.; C. Trabalza, Storia della grammatica ital., Milano 1908, pp. 112, 134, 154, 282; V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno, I, Messina 1921, pp. 367 s.; Id., G. Florio. Un amico del Bruno in Inghilterra, in La Critica, XXI (1923), pp. 122, 313 s.; XXII (1924), p. 58, L. Fessia, A. C. esule ital. in Inghilterra. in Rend. del R. Istituto lombardo di scienze e lettere, classe di lett. e sc. mor. e stor., LXXXIII (1939-40), pp. 213-243; C. Naselli, A. C. e la sua inedita grammatica italiana, in Lingua nostra, IV (1942), pp. 51-56, 83; K. T. Butler, G. Castelvetro 1546-1616, in Italian Studies, V (1950), p. 7; G. Aquilecchia, La lezione definitiva della "Cena de le ceneri" di G. Bruno, in Memorie della Acc. naz. dei Lincei, classe di scienze morali, stor. e filol., serie 8, III (1950), 4, pp. 222 s., 237 s. (vedi anche G. Bruno, La cena de le ceneri, a cura di G. Aquilecchia, Torino 1955, p. 138; Dialoghi italiani, a cura di G. Gentile, 3 ediz. a cura di G. Aquilecchia, Firenze 1958, pp. 52, 77); S. Casali, Gli annali della tipografia venez. di F. Marcolini, Bologna 1953, pp. 130-133; R. Glyn Faithfull, The Concept of "Living Language" in Cinquecento Vernacular Philology, in The ModernLanguage Review, XLVIII (1953), pp. 278-292; F. Secret, Les cheminements de la Kabbale à laRenaissance. Le "Théâtre du monde" de G. C. Delminio et son influence, in Riv. critica di storiadella filos., IV (1959), p. 424; V. J. K. Brook, A Life of Archbishop Parker, Oxford 1962, p. 339; M. G. Bellorini, "La Grammatica de lalingua italiana" di A. C., in English Miscellany, XVI (1965), pp. 281-296; F. A. Yates, TheArt of Memory, Torino 1972, pp. 121 ss., 221; A. Prosperi, Tra evangelismo e controriforma. G. M. Giberti (1495-1593), Roma 1969, pp. 268-270; Id., Un processo per eresia a Veronaverso la metà del Cinquecento, in Quaderni storici (1970), n. 15, pp. 773-94; G. Presa, A. C., V. Marcellino e V. Marostica nella vicenda d'unalettera in difesa del volgare (sec. XVI), in Studiin on. di A. Chiari, II, Brescia 1973, pp. 1001-1024; S. Seidel Menchi, Sulla fortuna di Erasmoin Italia. Ortensio Lando e altri eterodossi dellaprima metà del Cinquecento, in SchweizerischeZeitschrift für Geschichte, XXIV (1974), pp. 616 ss.; C. Vasoli, Il "luterano" G. B. Pallavicinie due orazioni di G. C. Delminio, in Nuova Riv. stor., LVIII (1974), pp. 64-70, poi ampliato e ripreso, con il titolo di Noterelle intorno a G. C. Delminio, nella raccolta di saggi dello stesso Vasoli, I miti e gli astri, Napoli 1977, pp. 219-45; Id., Tra retorica,arte della memoria ed eresia: ipotesi su Giulio Camillo Delminio ed i suoi discepoli, in Boll. della Società di studi valdesi, n. 96, 1975, pp. 81-95.