CAMPEGGI, Alessandro
Nacque a Bologna il 12 apr. 1504 da Lorenzo, poi cardinale, e Francesca Guastavillani. Ricevette una formazione umanistica dagli insegnanti che il padre assunse a proprie spese per l'educazione dei figli e che portavano i nomi illustri di Lazzaro Bonamico, Antonio Bernardi e Pietro Barzano. Dei suoi anni giovanili non si hanno notizie, se si prescinde dall'oscuro episodio riferito da Luca Gaurico, secondo il quale il 30 apr. 1522 fu ferito da un colpo d'arma da fuoco. Studiò diritto all'università di Padova; fu avviato presto alla carriera ecclesiastica, sulla via della quale trovava una solida tradizione familiare. Il 19 marzo 1526, ottenuta la dispensa per la giovane età, venne eletto al vescovato di Bologna (già del padre) per resignazione del predecessore, restando però riservata al padre l'amministrazione della diocesi. Clemente VII gli concesse di rinviare la consacrazione episcopale fino a quando Lorenzo non gliavesse trasmesso tutti i suoi diritti sulla diocesi.
Proroghe analoghe gli vennero rinnovate di anno in anno anche da Paolo III, fino alla morte del padre ed oltre; questi continui rinvii, se da un lato rientravano in una consuetudine largamente diffusa, dall'altro furono probabilmente dovuti all'intenzione di lasciarsi aperta la strada per assicurare, con un matrimonio, la continuità della famiglia, minacciata dal fatto che il fratello Rodolfo non aveva figli.
Solo il 19 luglio 1541 venne redatta la licenza per ricevere gli ordini sacri e la consacrazione episcopale; ma la consacrazione e l'ingresso solenne del C. in Bologna il 1º ag. 1541 non segnarono l'inizio della sua presenza nella diocesi. Quest'ultima continuò ad essere considerata come un onorevole e sostanzioso appannaggio familiare, da governare tramite intermediari.
Il 19 ott. 1541 il card. Farnese, quale governatore di Avignone, gli conferì i poteri di luogotenente e vicelegato in quella stessa città e territorio. Il C. si mise subito in viaggio e il 10 novembre giunse a Carpentras, dove fu accolto da Iacopo e Paolo Sadoleto.
Intanto ad Avignone si era creato un vuoto di potere a causa della partenza dell'ex vicelegato Filiberto Ferrerio, vescovo d'Ivrea, che non aveva voluto attendere il Campeggi. In questa situazione e per sua causa si verificò un grave incidente: uomini d'arme francesi irruppero nella sede della legazione e fecero prigionieri alcuni gentiluomini spagnoli del seguito di Giorgio d'Austria, che vi si erano rifugiati dopo che quest'ultimo era stato arrestato per ordine di Francesco I. Il colpo di mano di Avignone, voluto con ogni evidenza dallo stesso re di Francia, se significava in generale un aumento della tensione con Carlo V e un'ulteriore spinta alla guerra, agli occhi del C. rappresentava un grave attentato ai diritti papali e all'autorità del vicelegato.
Accolto a Carpentras dalle prime notizie di quanto era accaduto, il C. si affrettò a raggiungere Avignone, dove si fece accompagnare da Paolo Sadoleto; qui prese tutta una serie di misure energiche e tempestive, delle quali informò il card. Farnese in una dettagliata relazione del 13 novembre. Fra l'altro, fece stendere un processo informativo, per il quale richiamò a testimoniare anche il Ferrerio, e richiese a Francesco I la restituzione dei prigionieri spagnoli, facendo intervenire nella questione il nunzio pontificio a Parigi e rifiutando invece la proposta degli Avignonesi di inviare una delegazione cittadina, "non havendo essi da fare col re, ma con la Sede apostolica" (Lettere del card. Iacopo Sadoleto..., p. 21). Il 10 luglio 1542 il card. Farnese poteva così annunciare che i prigionieri spagnoli erano stati consegnati al vicelegato. Il card. Sadoleto consigliò al C. un comportamento più cauto per evitare conflitti con Francesco I, ma inutilmente; del resto, se il re nutrì una qualche antipatia nei confronti del C. essa fu di breve durata. Nel gennaio '43, trattandosi di scegliere il nuovo nunzio in Francia, si fece infatti il suo nome come quello di un personaggio ben visto a corte.
Un motivo di questo favore va forse visto nel modo in cui il C. fece uso della sua autorità di vicelegato nei rapporti con le truppe francesi, presenti fin dal 1539nel territorio di Avignone: le continue requisizioni ed i veri e propri saccheggi di cui furono oggetto gli abitanti del territorio furono infatti tollerati dal C., il quale anzi, lungi dall'alleviare il peso dei consueti gravami, usò la mano pesante suscitando le proteste di Iacopo Sadoleto, vescovo di Carpentras, e di suo nipote Paolo, rettore del contado, che lo accusarono di corruzione e di malgoverno. La stessa tendenza a procedere in maniera dura ed autoritaria fu da lui mostrata nei confronti dei valdesi e, in particolare, delle comunità di Cabrières e di Mérindol. Nel 1542Iacopo Sadoleto, in partenza per Roma, tentò di dissuadere il C. dal muovere con le truppe contro Cabrières; il suo atteggiamento, favorevole ad una maggiore mitezza e alla ricerca di un accordo dottrinale, si scontrò con la volontà del vicelegato di ricorrere alla forza.
Il contrasto fra i due non investiva soltanto il metodo del procedimento, ma l'estensione territoriale e le materie di pertinenza delle rispettive giurisdizioni, dal momento che il Sadoleto, in quanto inquisitore generale, intendeva affermare la propria esclusiva competenza nei rapporti coi valdesi. Nel 1544 il conflitto giunse all'apice con la minaccia del Sadoleto di resignare al nipote la diocesi di Carpentras e si concluse solo col rientro in Italia del Campeggi. Questi si trovava di nuovo a Bologna all'inizio del 1545 e di lì a poco si trasferiva a Roma.
Da allora egli visse in Curia, allontanandosene solo raramente. Nell'estate del 1545 ebbe un grave attacco di febbre terzana, dalla quale si rimise in tempo per l'inizio del concilio di Trento.
Documento significativo del suo atteggiamento nei confronti del concilio è la lettera (1º dic. 1546) al fratello Giovanni Battista, dove così elencava le mosse successive di un gioco la cui posta era la tranquillità della vita curiale: "expettar che li sia comandato [di recarsi a Trento] et poi non curarsene fin tanto che non veda che di Roma ne sia andato qualche buon numero, dippoi quando vedrà che pur la cosa vadi davero, la potrà fare examinare testimonii del suo male et indispositione et mandare a Trento uno excusatore, et con questa via passare qualche mese; dippoi se si farà davero, penso che in quel caso V.S. non vorà manchare di trovarvisi, ma Dio sa che serà circa questo" (Arch. Malvezzi-Campeggi, s. III, f. 8/532).Il concilio si fece "davero", ma la posizione del C. non cambiò durante tutto il primo periodo tridentino, come testimonia anche una lettera del suo vicario bolognese A. Zanetti; questi, scrivendo a Giovanni Battista Campeggi il 2 luglio '46, lo informò delle sue preoccupazioni circa l'obbligo di andare a Trento e di come il C. le aveva dissipate: "Sua Rev.ma Signoria me replicò... ch'io non me ne dessi altro fastidio, che havia parlato a Roma a chi spettava" (ibid.).
Se il vicario non se ne doveva dar fastidio alcuno, lo stesso valeva evidentemente per il C., il cui epistolario di questo periodo è dedicato esclusivamente a questioni di benefici ecclesiastici. Anche con la diocesi bolognese, da tempo affidata a vicari e suffraganei, i rapporti furono sporadici e limitati a problemi amministrativi. Il C. insomma non si mostrò per niente sensibile a quelle esigenze di un rinnovato vigore dell'attività pastorale che si facevano strada in quegli anni; anche con uomini come Gasparo Contarini e Girolamo Morone, che si succedettero in quegli anni nella legazione bolognese, ebbe solo rapporti superficiali.
Una visita della diocesi fu attuata da Agostino Zanetti tra il 1543ed il 1546 di propria iniziativa e non dietro ordine del C.: i verbali che ne sono rimasti documentano lo stato di abbandono e di decadenza delle strutture ecclesiastiche, nonché la diffusione anche tra il clero di opere come la Unio dissidentium del Bodio, molto letta, insieme a tanta altra letteratura ereticale, nella Bologna del tempo. Che dottrine e movimenti ereticali trovassero allora in Bologna un terreno fertile il C. poteva apprenderlo anche da membri della propria famiglia, come il fratello Rodolfo, il quale accenna in varie lettere del 1543al numero sempre più alto di inquisiti per motivi di religione (ibid., s. III, f. 7/531).Ma il suo incontro con la realtà bolognese, anche da questo punto di vista, ebbe luogo durante la seconda fase del concilio, dopo il trasferimento da Trento.
Il 14 maggio 1547 il C. giunse a Bologna, dove si trattenne per tutta la durata dei lavori conciliari. Il suo contributo ai dibattiti non fu di particolare rilievo, anche se prese spesso la parola nelle congregazioni dedicate agli abusi nell'amministrazione dei sacramenti; inoltre, il 28 nov. 1547 fu delegato con altri a trattare coi generali degli Ordini religiosi il problema della riforma dei regolari. Se i suoi interventi furono piuttosto incolori, non c'è dubbio che il periodo bolognese del concilio costituì per lui una importante occasione di prestigio: quale ordinario diocesano e vero e proprio padrone di casa, si vide riconosciuto il diritto di precedenza su tutti gli altri vescovi ed arcivescovi. A lui toccò la celebrazione della liturgia natalizia il 25 dicembre. Inoltre, in questo soggiorno bolognese, dovette anche interessarsi ai problemi della situazione religiosa della sua diocesi per invito degli stessi padri conciliari: così fu nel caso del domenicano G. Battista Cremaschino, le cui prediche sollevarono accuse d'eresia all'inizio del '48.
Era diffusa la richiesta che la sede del concilio, essendo anche una diocesi dello Stato pontificio, dovesse costituire un modello per tutti i vescovi e gli osservatori presenti, mentre erano ormai anni che si lamentava da più parti la libertà di cui godevano a Bologna i "luterani": "ogni straparole vole parglare de la fede et fare le interpretazione a suo modo", scriveva nel 1543 un famigliare del C., Baldassarre Fabri; e non si trattava solo di "plebei", come faceva presente, contemporaneamente, Rodolfo Campeggi (ibid., s. III, f. 7/531). Della azione del C. contro i progressi del movimento ereticale restano poche tracce: sappiamo, per esempio, che il 21 maggio 1549 ebbe un incontro col card. Cervini per trattare di questo problema e che nel giugno dello stesso anno fece inviare a Roma un gruppo di bolognesi imprigionati per le loro opinioni eterodosse. Ma se abbiamo pochi documenti di interventi diretti del C. sia in senso antiereticale, sia in direzione di una riforma morale e disciplinare del clero, tali interventi dovettero avere una qualche consistenza.
L'11 genn. 1550 il C. poteva infatti scrivere in questi termini allo zio Marco Antonio: "della cosa de' monasterii haverò caro qualunche volta V.S. me ne scriva, imperò mi crederà certo che essa mi è tanto a petto che a lei non può esser più, attesa massime la mia cura principale. Et perché non si può mai così presto, né con quanta facilità si vorria, riformar el mondo, le rispondo solo ch'io provvederò opportunamente a quanto sarà mio debito, siccome anco providi contra i progressi che costì faceano i lutherani" (ibid., s. III, f. 10/534). Di un particolare interesse del C. per i monasteri femminili si trova cenno anche in una lettera del 1º febbr. 1549, con la quale egli rifiutò ai conti Manzoli il permesso di far risiedere la loro nipote Claudia nel convento di S. Maria Nuova: "questa cosa de' monasterii mi preme tanto per l'honor di Dio et per scarico della conscientia mia che mai non vorrei essere ricercato di simil cosa: io so di quanta importantia è che donne maritate o che siano state maritate entrino ne' monasterii et quanti disordini ne seguono" (ibid., s. III, f. 9/533).
Resta il fatto che il C. non ritenne necessario risiedere in diocesi, ma continuò a vivere a Roma per curare più da presso gli interessi propri e della famiglia, accumulando benefici e adoperandosi perché quelli già detenuti da parenti non passassero in mani estranee. Abate commendatario dal 28marzo 1530dell'abbazia di S. Pietro in diocesi di Sessa, prelato della Segnamra di giustizia dal 1532, chierico di Camera dal 14 ag. 1544, disponeva inoltre delle ricche rendite della mensa episcopale bolognese; un breve di Giulio III del 20luglio '52 risolse a suo favore in conflitto col governatore di Bologna in materia di provvisione di benefici. Dopo la nomina cardinalizia, un indulto amplissimo del papa gli permise di conservare qualsivoglia beneficio o prebenda. Quanto alla cura degli interessi familiari, si adoperò fin dall'inizio del 1548per assicurare al fratello Giovanni Battista una permuta vantaggiosa fra la diocesi di Maiorca ed un'altra di pari o maggiore importanza.
Poiché il fratello tendeva a muoversi al di fuori della cerchia dei parenti nella ricerca di un successore per Maiorca, il C. il 29 ott. 1552 gli inviò un'aspra lettera per ricordargli che le intenzioni del padre Lorenzo all'epoca del conferimento della diocesi erano state appunto quelle di "accomodar prima lei et di poi col tempo la sua famiglia. Nella quale - continuava - pare a me che si trovi pur buon soggetto da ricever da V.S. tal benefitio" (ibid., s. III, f. 10/534). A questo modello paterno il C. mostrò di sapersi uniformare quando, l'anno successivo, rinunciò alla diocesi di Bologna in favore del cugino Giovanni Campeggi.
La nomina cardinalizia, seguita il 20 nov. 1551, dava pieno diritto al C. di parlare con l'autorità del capo riconosciuto dell'intera casata.
A tale nomina Giulio III era giunto non senza qualche resistenza, come raccontò in una lettera al card. Crescenzi del 16 genn. 1552; le sue perplessità riguardavano l'intera famiglia dei Campeggi, che gli sembravano "altieri et fumosi et poco respettivi verso il suo principe", soprattutto perché intendevano conservare il loro feudo di Dozza contro i desideri del papa (Concilium Tridentinum, XI, pp. 777 s.). Ma, con la promessa di rinunziare al feudo, l'elezione cardinalizia non trovò più ostacoli.
Il C. morì a Roma il 21 sett. 1554.
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