ANTONELLI, Alessandro
Nacque a Ghemme (Novara) il 14 luglio 1798, secondogenito del notaio Costanzo e di Angiola Bozzi. Studiò a Milano nel Liceo Artistico e quindi nell'Accademia di Brera. A Torino frequentò l'università dove fu allievo di F. Buonsignore e si laureò ingegnere architetto nel 1824. Si occupò dapprima negli uffici detti allora degli ingegneri demaniali e fu destinato a sorvegliare i lavori per la costruzione della Curia Massima (oggi Corte d'Appello). Nel 1828 vinse un concorso della Reale Accademia Albertina di Belle Arti per un soggiorno di perfezionamento in Roma dove seguì con particolare interesse i corsi di geometria descrittiva di Carlo Sereni. Frutto di questo soggiorno fu (1831) un grandioso progetto di trasformazione del centro di Torino (che prevedeva tra l'altro la'demolizione e ricostruzione in altro luogo del Palazzo Madama) che gli valse subito una certa notorietà attestata dalla nomina (1836) a professore della stessa Accademia Albertina, incarico che egli mantenne fino all'anno 1857.
L'A. partecipò attivamente alla vita politica: fu deputato al parlamento subalpino nella seconda legislatura (1849) e, quasi senza interruzione, fino alla sua morte, fece parte del consiglio comunale di Torino e del consiglio provinciale di Novara. La sua opera di architetto si inizia con costruzioni di minor rilievo e adattamenti di edifici preesistenti a Ghemme e in centri vicini della campagna novarese. A Novara, nel 1833, costruisce l'altar maggiore del duomo chiamando a collaborare, per la decorazione scultorea, il Thorvaldsen. Sempre a Novara, nel periodo 1840-1845, costruisce la casa in Corso Cavour 17, quella in Corso Alberto 6 e il palazzo Avogadro presso la chiesa di S. Marco. Nel 1841 si iniziano i lavori della cupola di S. Gaudenzio che dureranno fino alla sua morte; nel 1850 quelli per l'ospedale maggiore; nel 1854 la ricostruzione del duomo, rimasta incompiuta. Dal 1860 è la casa in via Pier Lombardo 4.
Le più importanti opere torinesi dell'A. sono la casa in via Giulia di Barolo 9, del 1840, dove egli abitò per molti anni; il palazzo del demanio in via Bogino n. 6 (1843-1845); la casa in via Vanchiglia 3 (1847-48); la sistemazione del palazzo del conte Callori in via dei Mille 16 (1847-50); la casa Antonelli in Corso S. Maurizio (1851); la casa in Corso Oporto 13 detta la "casa delle colonne" (1854); il palazzo per la sede delle Camere in piazza Carlo Alberto (1860); il gruppo di case tra piazza Maria Teresa, via Plana e via della Rocca; la Mole Antonelliana (1863-88; i lavori di rifinitura continuarono poi ancora per dieci anni sotto la direzione dei figlio Costanzo).
La Mole venne commissionata all'A. come Tempio della Comunità israelitica di Torino in seguito a concorso; nel 1877, quando ancora non era stata iniziata la lantema, furono sospesi i lavori in seguito a polemiche sulla sua stabilità. Il municipio di Torino acquistò infine la Mole e ne fece continuare i lavori per porvi la sede del Museo nazionale dell'indipendenza italiana. L'A. fece allora un nuovo progetto per la lanterna che portava l'altezza dell'insieme da 112 metri a 165. "Il rapporto tra pieni e vuoti... era il più favorevole che mai si fosse raggiunto con i metodi costruttivi tradizionali (cioè senza cemento armato e con il ferro adoperato solo per le catene)" (Maltese). Tuttavia rinforzi di cemento armato vennero attuati nel 1930-32 e nel 1934-36; ma nel 1953 un fulmine fece crollare la guglia della Mole che è stata ricostruita nel 1960.
Altre opere dell'A. sono: il santuario di Boca iniziato nel 1830 e parzialmente crollato dopo la sospensione dei lavori; la chiesa parrocchiale di Castagnola nel comune di Valduggia (1834-1837); l'ampliamento della chiesa di Bellurzago (1837-44); la villa Caccia a Romagnano Sesia (1842-48); la chiesa parrocchiale di Oleggio (1853-58); l'ospizio degli orfani di Alessandria (1855-58); la chiesa arrocchiale di borgo Lavezzaro (1855-62); il palazzo municipale di Mortara (1860); i piani regolatori di Ferrara (1862), di Novara (1857), oltre al già citato piano per il centro di Torino.
L'A. morì a Torino il 18 ott. 1888.
Tra i progetti non realizzati dell'A. vanno ricordati quelli per la trasformazione del centro di Torino; per il rinnovamento del santuario di Oropa; per la chiesa di Castellamonte; per il teatro di Novara; per la chiesa dei borgo Vanchiglia a Torino; per la nuova facciata di Santa Maria del Fiore a Firenze.
Le prime opere dell'A. mostrano chiaramente alcune caratteristiche della sua formazione culturale: da una parte l'adesione senza riserve al repertorio grammaticale neoclassico, dall'altra il suo radicamento nella tradizione edilizia piemontese che gli permise, al di là di ogni polemica formalistica, di attingere, per certi aspetti, all'eredità dei maestri del barocco. A mano a mano che l'A. chiarisce la sua vocazione, però, la problematica tecnica permea il suo metodo compositivo sì che le formule ormai consunte del neoclassicismo si sostanziano di una nuova linfa creativa che deriva dall'intuizione di una materia operante, che lavora, resiste, sostiene, e questa sua attività interna rivela attraverso la sua distribuzione funzionale, regolata dall'economia dell'organismo statico. Le trabeazioni, le colonne, le paraste, i fregi del vocabolario antonelliano non sono più solo imitazioni dei modelli soprastorici della classicità, ma anche membrature in tensione le cui dimensioni sono determinate non da una esigenza di proporzione, di armonia metrica, ma da reali oggettive regole di necessità costruttiva. Le conseguenze di questa metodologia agiscono in due direzioni. Da una parte, l'A. rinuncia, più o meno integrabnente, alla regola rinascimentale della gradazione e cioè alla definizione di ogni elemento architettonico in funzione della sua posizione e della sua realtà visiva, componendo per serie di elementi strettamente analoghi tra loro sia in senso orizzontale sia in senso verticale (si osservi ad esempio la "casa delle colonne" in cui si trovano sei ordini sovrapposti di cui cinque molto simili come proporzioni). Dall'altra, operando, per la prima volta dopo secoli, una verifica, nei termini della scienza delle costruzioni, del linguaggio manualistico degli ordini architettonici, offre di tale repertorio una versione nuova che è insieme meccanica e personalizzata. Il fatto di far lavorare ai limiti delle loro possibilità di resistenza le membrature architettoniche classiche dà infatti alle composizioni antonelliane un tiinbro personale che emerge costantemente malgrado i riferimenti palladiani o francesi.
L'approfondimento coerente di tali principi di metodo ha però i suoi limiti nella cultura accademica che l'A.. poté assorbire durante la sua formazione e che non fu mai interamente riscattata dall'origine artigiana e dall'attaccamento fisico al proprio mestiere inteso come una missione e come un'esperienza integrale di vita. Il principio della serie ripetuta, per esempio, è spesso contraddetto da uno scrupolo di correzione prospettica e non conduce inai a una maturazione progranimatica; mentre l'appassionata revisione del meccanismo degli ordini lo spinge - quando il telaio trilitico non basta a risolvere i suoi problemi strutturali, non sentendosi l'A. di rinunciare per il trattamento dei volumi alla grammatica classica - a una completa scissione formale tra involucro esterno e struttura interna.
Le opere di minor rilievo dell'A. sono molto vicine nel linguaggio alla produzione corrente del tempo; la presenza del maestro si coglie a volte solo in qualche soluzione tecnologica particolarmente elegante e nella coerenza di tono con cui le diverse parti sono trattate. La maggior parte delle altre opere, con l'eccezione del santuario di Boca, della cupola di S. Gaudenzio a Novara e della Mole torinese, trovano il loro interesse maggiore nell'attento studio grammaticale, nella limpidezza dell'organismo costruttivo, nell'impiego estremamente sicuro di partiti semplificati che soprattutto in alcuni spazi interni (ad esempio nell'ospedale di Novara) danno luogo a risultati mtensamente caratterizzati. Ma la comprensione di questa parte della sua produzione non può essere piena se non si chiarisce il filo conduttore di natura tipologica che la guida, in particolare per le case di abitazione, sia quelle condominiali sia le palazzine signorili. La correttezza, la modestia, la monotonia persino, dei temi formali va collegata con il nuovo interesse per certi valori distributivi e strutturali che pongono in seconda linea i problemi di facciata. Anziché irnpegnarsi in un rinnovamento esteriore del linguaggio che parta da 'premesse culturalistiche e comunque soggettive, l'A., che giunse a rinunciare all'insegnamento per amore del suo mesúere, preferisce rinnovare dall'intemo la tematica distributiva e servirsi del formulario tradizionale come di un utile punto di convergenza con la cultura tradizionale e con le abitudini visive radicate nella sensibilità dell'uomo della strada. La rinuncia alla creazione di un linguaggio diventa così un atto di fiducia nel valore di patrimonio collettivo e nazionale proprio della tradizione classica e trova la sua giustificazione nel filone più autentico del pensiero risorgimentale.
La cupola di San Gaudenzio a Novara è, con la Mole torinese, uno dei capolavori dell'A.; anche se in esso in modo drammatico ai esprime l'impossibilità di giungere a condensare struttura e forma in un'immagine unitaria. Il discorso dell'estemo, derivato da una formula corrente di lontana derivazione bramantesca, si mantiene durante le varie fasi di progetto, che testimoniano la serrata autocritica dell'autore, praticamente invariato, subendo solo delle rettifiche proporzionali che resero paradossalmente verticale e snella la sagoma generale. Nella soluzione costruttiva dell'intemo invece si sviluppa, con sempre maggiore chiarezza ed eleganza, un complesso di membrature costruttive semplificate, sottratte in realtà alla vista dell'osservatore che si muova nello spazio della chiesa: ma studiate con sottile controllo estetico fino a raggiungere una loro autentica autonomia espressiva. Si intreccia così alla composizione ufficiale un discorso di più intensa suggestione che solo il visitatore attento scoprirà salendo sulla cupola e associando in una complessa immagine dinamica le varie visioni successive. L'organismo intemo, del San Gaudenzio, nella sua complessità e ricchezza, dà la misura del genio dell'autore e insieme della sua incapacità a superare i limiti della sua formazione culturale.
Né si può dire che tali limiti siano veramente travolti nella Mole torinese, in cui pure il divorzio tra la forma dell'involucro e la struttura viene meno. Anche qui agisce come remora l'esitazione tra un comporre per serie di elementi uguali e un'esigenza di unità prospettica. Ne risulta un contrasto non risolto tra la dinamicità dei partiti chiaroscurali - in cui le pareti, applicando il principio della concentrazione dei carichi e della distinzione degli elementi di tamponamento da quelli portanti, si trasformano in membrane - e il profilo generale che risulta statico ed esile, disegnato come ingrandendo un elegante fregio tipografico.
L'eredità dell'A. fu raccolta soprattutto in un ambito locale (si vedano le opere di C. Promis, di C. Caselli e del figlio dell'A., Costanzo); ma l'altezza delle sue intuizioni e di certi suoi raggiungimenti espressivi lo pone tra i pionieri dell'architettura moderna sia per i suoi interessi tipologici che lo portano a elaborare il tipo edilizio della casa ad appartamenti al di fuori delle infinite contaminazioni tra esigenze speculative e riferimenti aulici che dominano la problematica italiana; sia per le esperienze dì metodo che lo portano in certi momenti più felici del suo lavoro a una sintesi unitaria del processo tecnico e dei processo estetico di costruzione della forma.
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