ANGUISSOLA, Alessandro
Nato a Piacenza intorno al 1560, compì come il padre, Fabrizio, studi giuridici e dal 1587 risulta iscritto all'albo dei dottori e giudici di Piacenza. Avvocato fiscale, difese i diritti farnesiani alla successione dei feudi Pallavicini dopo la morte di Sforza Pallavicino di Fiorenzuola (1585). Nel 1591 era nominato commissario dei confini. Dal 1596 al 1600 fu ambasciatore del duca Ranuccio Farnese a Milano. Nel 1061 lo troviamo improvvisamente a Torino come "consiliarius" di Carlo Emanuele I.
Come sia passato alla corte sabauda e quale sia stata la sua attività nei primi anni di permanenza a Torino non è noto. Forse ebbe qualche incarico di carattere militare, non però così pesante da impedirgli di dedicarsi alla riflessione e agli studi: nel 1611 e nel 1612 offriva infatti al duca due capitoli di un'opera politica cui da tempo attendeva.
Nel 1614 Carlo Emanuele lo nominò governatore di Mondovì. L'anno successivo, nella guerra del Monferrato, compare come comandante di un reggimento sabaudo, ma in seguito a una vertenza cavalleresca col conte Aldobrandini, governatore generale delle milizie ducali, e forse anche per un cambiamento della politica sabauda - ora avversa alla Spagna, cui l'A. inclinava - fu esonerato dal governo di Mondovì: preferì allora allontanarsi da Torino e passò al servizio di Venezia, portando anche una compagnia di suoi uomini.
Nell'esercito veneto, col grado di colonnello, combatté nel 1616 ai confini orientali dello stato, distinguendosi nell'assedio del forte di Fara presso Gradisca. Una notizia del 1617 lo dà malato, poi non se ne sa più nulla: ma nel 1621 sicuramente era già morto.
Dell'opera dell'A., Del buon governo del Principe, per molto tempo furono noti solo i due capitoli, Della dissimulazione e Il principe amato e temuto, presentati dall'A. al duca di Savoia. Il resto dell'opera, incompiuta e ancora inedita nella Biblioteca nazionale di Torino, è stato fatto conoscere solo recentemente, senza peraltro che ne siano derivati contributi sostanziali alla letteratura sulla ragion di stato. Dei venti capitoli che dovevano comporla, non se ne hanno che cinque; nella partizione della materia e nella soluzione dei problemi l'A. si ispira generalmente alla scuola del Botero.
Tra le forme di governo, personalmente inclina alla repubblica aristocratica (coerentemente alla sua ammirazione per Venezia e nella tradizione nobiliare piacentina espressa nella congiura del 1547), ma, in ossequio all'ospite, si risolve per una monarchia non tirannica. Definisce la ragion di stato "arte di governare", ma in contrasto con i trattatisti della Controriforma afferma che lo stato ha un valore eccezionale, superindividuale, e può prescindere talora, nella realizzazione di certi suoi compiti, dalle finalità religiose: anche per lui, però, la religione resta il limite alla ragion di stato.
La politica deve diffidare della teoria; essa si serve piuttosto di espedienti tecnici: la dissimulazione è uno di questi. Nessun significato deteriore però essa ha per l'A.: la dissimulazione è resa necessaria dalla malizia degli uomini e dalla incostanza delle cose umane e consiste nella segretezza, nell'accortezza, nel dominio delle passioni. Il fondamento dello stato si riassume, in sostanza, secondo l'A., nel concetto di "fidelitas": e rapporto di fiducia che si stabilisce tra il principe e i suoi sudditi.
Bibl.: G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1753, pp. 791 s.; L. Mensi, Diz. biogr. Piacentino, Piacenza 1899, p. 21; P. M. Arcari, La ragion di Stato in un manoscritto inedito di A. A., Roma 1935, cui si rimanda anche per la bibl. precedente; E. Nasalli Rocca, A. A. ignoto scrittore politico del Seicento, in Strenna piacentina, Piacenza 1940, pp. 66 s.