ALESSANDRISTI
Furono così chiamati, principalmente nei primi tempi del Rinascimento, i seguaci delle interpretazioni aristoteliche di Alessandro di Afrodisia, specialmente riguardo alla dottrina dell'unità e dell'immortalita dell'intelletto (νοῦς). Alessandro aveva recisamente acuito la non chiara distinzione posia da Aristotele fra l'intelletto passivo, preesistente in ogni anima individuale, e l'intelletto attivo, forma e radice universale della funzione razionale, attribuendo la suprema attività e l'immortalità soltanto a quest'ultimo e negandola quindi all'anima singola. In quest'ultima negazione conveniva anche il maggiore interprete arabo di Aristotele, Averroè, che tuttavia cercava di tenere una via di mezzo fra l'estrema concezione di Alessandro e l'interpretazione opposta di Temistio, il quale, concedendo l'immortalità anche all'anima individuale, si accordava con l'interpretazione cattolica e tomistica dell'aristotelismo. Averroisti e alessandristi furono quindi condannati nel 1512 da un concilio lateranense, che respinse anche la concezione della doppia verità, secondo la quale essi protestavano il loro ossequio alla verità teologica, pur ritenendosi liberi di ammettere una diversa verità filosofica. Il più grandi degli alessandristi fu Pietro Pomponazzi (1462-1525), che combatté l'averroismo e riconobbe giusti gli argomenti di S. Tommaso contro di esso, ma lasciò S. Tommaso per Alessandro nella dottrina della mortalità delle anime singole (cfr. specialmente il suo De immortalitate animae).
Bibl.: v. le indicazioni alle voci alessandro d'Afrodisia, averroè, pomponazzi.