ALESSANDRIA (A. T., 24-25-26)
Città del Piemonre, nel tavoliere compreso tra le colline delle Langhe e del Monferrato, sul Tanaro, poco a monte della confluenza con la Bormida. È il più popoloso centro abitato del Piemonte, dopo Torino, grazie alla sua posizione nel luogo ove si incrociano parecchie: strade di comunicazione fra la Liguria e la Valle Padana, fra l'Emilia e la Lombardia e il Piemonte meridionale. Così oggi Alessandria è divenuto uno dei più importanti centri ferroviarî dell'Italia settentrionale, essendo toccata da ben nove linee ferroviarie, e da parecchie tramviarie.
La città. - La sua importanza si spiega con la felice posizione geografica rispetto all'intera pianura padana; posta nella pianura di Marengo, un po' fuori dal centro ma in modo da poter egualmente dominare la valle della Scrivia, da cui scende la strada che varca il passo dei Giovi e congiunge il Piemonte col mare, la città domina il punto di divergenza di questa strada, che si biforca in due rami verso i due maggiori centri della pianura padana, Milano e Torino. Ma poiché anche il solco tra la catena delle Langhe e il Monferrato è uno dei passaggi più frequentati tra Milano e Torino, così Alessandria guarda contemporaneamente i passi dalle Alpi al Mar Ligure e i passaggi dalla pianura orientale a Torino. Questo ci spiega come Alessandria abbia avuto importanza militare grandissima, e come alla cinta murata sia stato connesso, fino a pochi anni or sono, lo sviluppo di essa. Contenuta dalle opere difensive, che, distrutte in gran parte durante l'impero napoleonico, erano state ripristinate durante le guerre per l'indipendenza, solo di recente sono cessate le proibizioni militari, e la città ha potuto estendersi fuori dei bastioni.
L'esistenza di un contado abbastanza vasto (il comune ha una superficie di 22.419 kmq.) e intensamente coltivato, e l'impossibilità per Alessandria di espandersi notevolmente, ci spiegano come dei 77.768 abitanti che abitavano nel comune nel 1921, solo 38.067 appartenessero ad Alessandria città; gli altri vivevano in 18 sobborghi (di cui uno, il Cristo, supera i 6000 abitanti e sette hanno più di 2000 ab.) e in case sparse. Gli abitanti del comune erano 11.619 nel 1734 e salirono a 22.084 nel 1741, per diminuire a 18.581 nel 1774. Il primo censimento del secolo successivo (1839) ne contò 39.374; nel 1881 (dopo l'abolizione dei vincoli militari) salirono a 62.000, nel 1901 a 71.298, nel 1911 a 73.821.
Alessandria è ormai un grande centro commerciale ed industriale. Tra le industrie, occupano il primo posto gli stabilimenti Borsalino, le officine ferroviarie e meccaniche; le fabbriche di letti in ferro e di concimi; le filature e tessiture di cotone, ecc. Attivissimo è il commercio di prodotti agricoli e specialmente dei vini.
La Biblioteca civica, fondata nel 1801, ha circa 70.000 volumi, 100 manoscritti, 250 incunaboli.
Storia. La fondazione di Alessandria si fa risalire al 1168 circa, per opera della Lega Lombarda, auspice papa Alessandro III. È da ritenere che essa si ricolleghi con la politica di espansione in Piemonte del marchese di Monferrato, Guglielmo il Vecchio, il quale, seguendo il Barbarossa e le insegne imperiali, stimò utile, dopo l'annientamento della vicina Tortona e la distruzione di Milano, di assicurarsi il possesso del paese sulla destra del Tanaro, ove convergono le strade che dal Monferrato si dirigono su Acqui-Savona, su Ovada-Voltri, su Tortona-Milano. D'accordo col marchese del Bosco, signore del luogo, Guglielmo raccolse attorno al Castello di Rovereto "uomini" dei vicini comuni imperialisti, costruendo, tra il 1164 e il 1167, le prime opere di materiale difesa. Così sorse il "consorzio degli uomini" dei primi quattro comuni: Rovereto, Bergoglio, Marengo e Gamondio, che prese il nome di Civitas Nova o Palea (nome proprio della regione) o Cesaria (in omaggio all'imperatore). Ma, allorché la politica generale dei comuni si orientò d'un tratto sulla Lega Lombarda, un gruppo di altre famiglie anti-imperiali, capitanate da Uberto di Foro, convenne con programma anti-monferrino nella nuova città, portandovi una maggioranza contro Pavia e l'Impero, in favore di Milano. I nuovi "uomini" provenienti da Villa del Foro, Solero, Oviglio e Quargnento, si aggiunsero ai primi quartieri accresciuti rapidamente da una quantità di bassa gente e di servi fuggiti dai contadi vicini nella fiducia di diventar "popolo" ed imposero alla città il nome di Alessandria, dal capo della Lega, che poteva in certo modo legalizzare col prestigio del papato il nuovo corpo politico che l'impero rifiutava di riconoscere. Tolta l'impresa della Lega, croce rossa in campo bianco, Alessandria compì, unita con Asti, la missione storica piemontese d'impedire per sempre la unione del basso con l'alto Monferrato, sulla via del fiume Tanaro, e la unificazione del Piemonte aleramico.
Nel 1174-75 Alessandria sostenne vittoriosamente l'assalto famoso di Federico I e di Guglielmo il Vecchio, con un assedio di sei mesi, dopo i quali la città, un po' abbandonata a sé stessa dalla Lega col compromesso di Montebello (1175), difesa più a parole che a fatti dal papa, cercò la sua salvezza in una pace a qualunque costo, anche con la sottomissione all'impero, pur di sfuggire al Monferrato. Il Barbarossa, prima ancora della pace generale di Costanza, le impose il nome di Cesaria (1183): nome che le fu di salvaguardia per quindici anni e che essa portò sino alla fine del secolo, quando poté riprendere il programma guelfo, e, chiamata di nuovo Alessandria, pose termine al comune consorziato per dar luogo al comune unito. Dal 1198 al 1348, il libero comune fu continuamente in lotta contro i vicini Casale o Genova, dilaniato sempre dalle fazioni dei Guelfi (Guaschi e Dal Pozzo) e dei Ghibellini (Lanzavecchia ed Inviziati), le quali portarono la città ad essere dapprima preda di Guglielmo VII di Monferrato (1260), poscia di Carlo d'Angiò (1268). Appunto gli Alessandrini nel 1290, compirono il destino tragico degli Aleramici con la prigionia e la morte di Gugliemo VII; ma le discordie, continue nel Trecento, chiamarono successivamente ora Roberto d'Angiò, ora i Visconti, legando le sorti della città alla signoria di Milano.
Nel periodo che segue, sotto i Visconti, gli Sforza e gli Spagnuoli (1348-1708), la storia di Alessandria non ha fatti notevoli, tranne la vittoria di Jacopo dal Verme contro i Francesi del D'Armagnac nel 1391, il sacco del 1500, dovuto alle armi di Luigi XI, l'assedio infruttuoso postole dai Francesi e dal duca di Modena nel 1657. Ceduta poi al duca Vittorio Amedeo II nel 1707. Alessandria cadde più tardi nelle mani di Napoleone. Ritornata a Casa Savoia, fu il centro dei moti liberali del 1821 con l'Ansaldi, il Rattazzi, il Santarosa; fu il principale teatro della cospirazione militare mazziniana del 1833, che portò al martirio il Vochieri; espiò, nel 1849, gli errori della prima guerra d'indipendenza nazionale, sopportando per quattro mesi il presidio austriaco.
La piazzaforte. - Alessandria, posta, come si è visto, nel punto strategicamente più delicato di tutta l'Italia settentrionale d'occidente, è stata considerata, fino a buona parte della seconda metà dell'Ottocento, come una delle più importanti, dal punto di vista militare, tra le piazzeforti della penisola.
Sin dalla sua fondazione, fu circondata da cinta terrapienata, con fosso acqueo e torri di guardia staccate: in tali condizioni sostenne l'assedio del Barbarossa. Nel 1200 si cominciò a rivestire di muro la cinta, aggiungendo agli angoli torrioni circolari e, lungo le facce, torri minori (garettoni) e si circondò anche Borgo Bergoglio con cinta turrita. Questo era unito alla città da un ponte sul Tanaro, difeso da una torre e una rocchetta. Nel 1362 Luchino dal Verme rinforzò la cinta con baluardi (torri terrapienate sporgenti), e così Alessandria sostenne parecchi assedî, con varia fortuna. Nel 1550 fu costruito il primo bastione detto bastione novo, poi della cittadella, secondo il sistema italiano; successivamente la cinta fu trasformata in bastionata, lavorandovi gli ingegneri Gio. Maria Olgiati e Martino Bassi, e si eresse anche la vecchia cittadella, rettangolare e turrita, presso Porta Marengo. Alla metà del sec. XVII la cinta di riva destra comprendeva due torrioni e sei bastioni, che nella prima metà del sec. XVIII erano dodici, ampî e regolari: il fosso era acqueo con immissione di acqua dalla Bormida. Sotto la dominazione spagnuola (1643-1714), furono aggiunte anche otto mezzelune esterne e altre opere dall'ingegnere Pompeo Robutti, alessandrino. Assediata nel 1657, Alessandria si difese valorosamente: in tale occasione si formò una compagnia armata di 300 donne, comandata dalla contessa Trotti, la quale respinse eroicamente gli assalti al bastione, che da ciò venne detto delle danne. Nel 1728 re Vittorio Amedeo II volle dare alla fortezza uno sviluppo in relazione all'importanza della sua posizione sulla frontiera verso i dominî austriaci, e perciò, fatto demolire Borgo Bergoglio, vi fece costruire la nuova grandiosa cittadella a pianta esagonale bastionata, su progetto dell'ingegnere Ignazio Bertola, ultimata poi dall'ingegnere Pinto.
Napoleone I divisò di fare della fortezza un grande campo trincerato, baluardo avanzato di Francia nella pianura padana, con vasti magazzini e caserme; il generale del genio Chasseloup-Laubat eseguì i progetti e vi lavorò dal 1803 al 1814, spendendo 30 milioni dei 55 previsti. La cinta bastionata fu rinforzata, vi si aggiunsero grandi lunette esterne, denti ed opere a corona; i fossi furono ampliati; la manovra d'acqua dei fossi migliorata. Il trattato di Parigi del 1815 decretò la demolizione di queste fortificazioni, ma il governo sardo la iniziò con molta lentezza e l'eseguì solo saltuariamente e parzialmente, tanto che nel 1837, sotto la direzione del generale Chiodo, si diede principio alla riparazione, intensificata dopo la guerra di Crimea. Re Carlo Alberto già nel 1831 aveva fatto costruire il forte Valenza, e nel 1837 vi fece aggiungere il forte Acqui, il forte della ferrovia, e il forte Bormida, tutti di pianta pentagonale, formati da un muro staccato con feritoie e caponiere di fiancheggiamento, distanti da 1000 a 2000 m. dalla cinta. Con sottoscrizione nazionale, nel 1848 fu raccolta la somma occorrente per la fusione di 100 cannoni necessarî al suo armamento. Oggi la fortezza non è più rispondente alla potenza dei mezzi di attacco, e le gloriose mura vanno scomparendo per le imperiose necessità edilizie.
Opere d'arte. La funzione d'importante piazzaforte non ha consentito alla città, costretta entro la cerchia delle sue mura, l'erezione di edifici monumentali, mentre d'altra parte, quando le esigenze militari lo richiedevano, si sono abbattute, senza pietà, costruzioni sacre e civili, d'importanza artistica e storica. Basti ricordare che sui primi del sec. XVIII, per la formazione dell'attuale cittadella, in regione Bergoglio oltre Tanaro, si demolì addirittura un intero quartiere. I signori in conseguenza costruirono le loro case di qua dal fiume, e il popolo si raggruppò in tre nuovi borghi: San Bartolomeo, Valmadonna e gli Altini. Così nel 1805 il governo francese ordinava la demolizione dell'antica cattedrale di S. Pietro (secoli XII-XIII) per formare una vasta piazza d'armi, la presente piazza Vittorio Emanuele II. La chiesa di S. Maria di Castello rimonta al sec. XIII e sorse su una chiesa, già esistente nel borgo Rovereto fin dal 1107. L'edificio d'oggi è il risultato di continui rimaneggiamenti e ampliamenti, che ne hanno alterato l'originario aspetto lombardo. Lavori di consolidamento e di ripristino, oggi in corso, assicurata la stabilità dell'edificio, gli stanno ridando l'aspetto originario. Così la facciata, liberata da un moderno intonaco, mostra di nuovo il mattone in vista, e una povera trifora aperta sul sommo della facciata è stata sostituita con l'occhio quattrocentesco originario. L'interno a tre navate, con vòlte a botte, costruite al posto delle primitive a crociera, è ora intonacato e dipinto con una decorazione pseudogotica.
Nella prima cappella di destra è una pietra tombale di Federico Dal Pozzo (1380); in quella successiva, dedicata a S. Onofrio, un affresco, che fino a poco tempo fa recava la data 1471 e che rappresentava la Vergine col Bambino e S. Giovanni Battista, tra S. Onofrio e S. Crispino. Nel transetto di destra, una Deposizione in terracotta policromata del sec. XVI, di bella modellazione. Di buona scultura settecentesca sono il pulpito, gli armadî della sacrestia e la bussola, o porta interna della chiesa. Nella sala capitolare dell'annesso convento, adattato prima a caserma e ora ad ospizio, è un affresco di scuola vercellese, datato 1520, col Cristo in croce tra la Madonna e S. Andrea, S. Giovanni e S. Ubaldo.
La chiesa del Carmine, coeva di quella di S. Maria di Castello, ma frutto di un rifacimento quattrocentesco, è anch'essa in cattive condizioni di conservazione. È a pianta basilicale, con le vòlte a sesto acuto, ma il pavimento, ora soprelevato, ne toglie l'originaria altezza che meglio si gode dai cortili delle case vicine. Vi si conserva un pregevole polittico del sec. XV. Nel petiodo napoleonico la chiesa venne trasformata in tempio massonico.
La cattedrale fu costruita sull'area dell'antica chiesa di San Marco e dell'annesso convento domenicano, quando nel 1805 il governo francese demolì l'antica cattedrale di S. Pietro. La sua facciata, dovuta all'architetto Leopoldo Valizzone, alessandrino, fu quasi interamente rifatta fra il 1870 e l'80 dall'architetto Mella. Le lunette del Sancta Sanctorum sono affrescate da Enrico Gamba, e la cupola reca ventiquattro statue in pietra, rappresentanti le città che parteciparono alla Lega Lombarda. Il campanile è stato alzato e munito di alta cuspide in questi ultimi tempi dall'architetto Boidi-Trotti. Nell'interno: pietre tombali del vescovo Momo Decapitani (1478) e di Pier Antonio Soleri (1484), e frammenti di sculture provenienti dalla demolita cattedrale. All'esterno, incastrata nel muro della Canonica, una lunetta in pietra con una scultura del sec. XIII sul miracolo francescano del lupo; e all'angolo della facciata della chiesa una colonna di marmo, che la tradizione riannoda alla predicazione di S. Siro.
La chiesa di S. Rocco occupa anch'essa l'area di una chiesa più antica, S. Giovanni del Cappaccio, del sec. XII, e rimonta solo alla fine del 1700, rifacimento di un'altra chiesa, edificata nel 1462 dagli Umiliati e passata poi nel 1621 ai minimi di S. Francesco da Paola. Alessandria fu centro importante degli umiliati, tanto industriale, per la lavorazione della lana e delle porpora, quanto d'affari, pel commercio e trasporto dei loro prodotti; essi possedevano pel traffico un proprio piccolo porto fluviale sul Tanaro. Interessante è il campanile, che nella parte inferiore è coevo della demolita chiesa del 1100, mentre i muri della cella campanaria, con ampie trifore a sesto acuto e con un'elegante e svelta cuspide in mattoni, appaiono della fine del'300 o dei primi del'400.
D'altri antichi edifici sacri si conservano i resti: e cioè della chiesa di S. Francesco (secoli XIII-XIV) che, sebbene ingrandita e trasformata in ospedale militare, mostra l'antica struttura lombarda e la ricchezza del materiale con cui fu decorata; del convento degli umiliati, (sec. XIV), in fondo al cortile della casa di via Lumelli 5. Più recenti la chiesa di S. Stefano (primi del'700), quella di S. Lorenzo o Madonna della Neve, o Madonna della Piazza, affrescata dai fratelli Pozzi alla fine del sec. XVIII, quella di S. Alessandro, a croce greca, anch'essa di quel secolo.
Tra gli edifici civili è da ricordare il palazzo vescovile, l'unico esempio in Alessandria di casa signorile del'400. Costtuito verso la fine del secolo dalla famiglia Inviziati, e acquistato per sede del vescovado nel 1572, dal vescovo Guarniero Tratti, ha, per restauri e aggiunte posteriori, perduto il suo primo aspetto. La bella facciata di mattoni in vista è stata recentemente intonacata; le stanze del piano terreno suddivise con tramezzi e dimezzati i soffitti di stucco. Ma di recente è stata rimessa in pristino la sala a sinistra entrando nel portico, detta dei vescovi, che recava nel fregio la serie dei ritratti di quindici vescovi alessandrini, da Arduino (1175) ad Ottavio Parravicini (1596). I ritratti sono tornati in luce, ma i più sono perduti. Le altre quattro sale restaurate hanno i soffitti a travi e travetti cordonati, retti da mensole elegantemente scolpite; una decorazione policroma ricopre le cornici e i coprigiunti, nonché le tavolette che recano medaglioni a fiori con stemmi di Gian Galeazzo Sforza, della famiglia Inviziati; e di donne entrate, per matrimonio, in quest'ultima casata; il soffitto della sala d'angolo, la minore, è arricchito di dorature. Recentemente si sono scoperti soffitti dello stesso genere anche al piano superiore. E nella cappella privata, settecentesca, ove officiò S. Paolo della Croce, il quado d'altare, su tela, la Concezione, è attribuito al Moncalvo.
Il palazzo Ghilini è un buon esemplare di palazzo settecentesco in mattoni, dovuto all'architetto Benedetto Alfieri (1700-1767). Lasciato dalla famiglia Ghilini, divenne palazzo reale; ora è sede della prefettura. L'atrio, il vestibolo e il giardino, che fa da sfondo, raggiungono un grand'effetto scenografico. Al piano nobile sono pregevoli i soffitti affrescati dai fratelli Vacca. Il palazzo comunale sorge in un'area anticamente occupata da un gruppo di case, in una delle quali era fin dal 1330 la sede del comune. La presente costruzione, iniziata per volontà del Consiglio civico nel 1770 dall'architetto Andrea Caselli, venne portata a compimento solo nel 1824 dall'architetto Lorenzo Valizzone, sicché all'originaria linea barocca s'è sovrapposto lo stile neo-classico. Nuove modificazioni alla facciata portò nel 1826 l'architetto Ferdinando Bonsignore, quando aggiunse il frontone per collocarvi i quadranti dei varî orologi, già esistenti sulla vecchia torre campanaria della cattedrale, demolita nel 1805; da uno dei pinnacoli di quest'ultima proviene la banderuola in rame dorato, a forma di gallo, ora issata sul frontone dello stesso Palazzo comunale e che gli Alessandrini, secondo la tradizione, tolsero a Casale, da loro saccheggiata e data alle fiamme. Il Teatro municipale annesso al medesimo palazzo fu incominciato nel 1775: e fino ai primi dell'Ottocento godette di grande rinomanza. Del palazzo Cuttica di Cassine, tra la Piazza del duomo e la Via Parma son da ricordare solo le eleganti decorazioni (fine del sec. XVIII e princ. del XIX) dell'appartamento al primo piano dove alloggiò Pio VII.
La torre dei Gamberini, in frazione Marengo, è un edificio a pianta quadrata, innalzato nel sec. XIV. La regione ha avuto sempre una speciale importanza: nell'epoca romana v'era una mansio, di cui una parte dei poderosi resti in muratura sono tutt'ora visibili; nel Medioevo la località, coperta da boschi, fu teatro di cacce dei re longobardi, e la leggenda vuole che quivi Liutprando incontrasse S. Baudolino, protettore della città; più tardi fu fortificata dai Gamberini, i quali costituivano una delle antiche famiglie che fondarono Alessandria. La colonna commemorativa della battaglia di Marengo sorge al bivio delle due strade di Spinetta e Castelceriolo: è un modesto monumento, sormontato da un'aquila in ferro battuto, innalzato dalla municipalità di Alessandria nel 1801, a ricordo della vittoria napoleonica, e ricollocato a posto nel 1922, perché nel 1814 il generale austriaco Nugent l'aveva asportata, quale preda bellica, e fatta collocare nella sua villa di Tersatto. Dopo la vittoria del 1918 la colonna fu compresa fra gli oggetti storici che l'ex-impero Austro-ungarico ha dovuto restituire. Presso questo monumento, in un fabbricato del fondo detto "la Colonna" di proprietà Cataldi, esiste un'interessante collezione di cimelî dell'esercito napoleonico, raccolti sul campo di battaglia di Marengo.
Delle raccolte d'arte, la Pinacoteca Viecha fu fondata nel 1854 dal notaio Antonio Maria Viecha, che donò al comune un'importante collezione di quadri da lui raccolta. Nuovi doni si ebbero nel 1855. Nel 1866 Teodolinda Migliara, buona miniaturista, lasciava per testamento all'istituto una preziosa raccolta di dipinti e disegni del proprio padre, il pittore Giovanni Migliara (v.) e dei suoi fratelli Carlo ed Ernesto. La pinacoteca comprende opere di altri artisti alessandrini, tra cui Giovanni Massone (1432-1511) e Giorgio Soleri (sec. XVI). Nel museo, oltre a bronzi e monete romane provenienti da scavi nei sobborghi di Alessandria e nei comuni viciniori, figurano terrecotte decorative da chiese e case demolite e cimelî storici. Speciale ricordo meritano gli antifonarî miniati del sec. XVI, fatti eseguire da papa Pio V e da lui donati alla chiesa di S. Croce in Bosco Marengo, sua patria. Interessanti sono pure alcuni paramenti sacri detti di Pio V: due piviali, pianeta, stola, manipolo, ecc. Uno dei piviali è tutto ricamato ad arabeschi in seta e nel cappuccio reca l'immagine di Pio V, sotto un baldacchino, in adorazione del Crocifisso; nello sfondo una marina con navi allude alla battaglia di Lepanto. L'altro piviale è di velluto rosso con bordo ricamato a figure di santi. Due arazzi di scuola fiamminga della fine del sec. XVI provengono dalla confraternita alessandrina di Santa Maria Domus Magnae, alla quale appartennero fino al 1913, e rappresentano due scene dagli Atti degli Apostoli. Nel museo sono pure conservati due bassorilievi di terracotta del sec. XV, provenienti dalla chiesa di S. Bernardino. Uno rappresenta l'Angelo annunziatore ed è firmato da Francesco Filiberti, artista alessandrino che operò nel sec. XV.
Provincia di Alessandria.
La provincia di Alessandria è una delle più vaste tra le provincie italiane (5078,86 kmq.), la seconda del Piemonte, dopo quella di Torino, per popolazione assoluta (788.750 ab.) e per popolazione relativa (153,9 ab. per kmq.). Nella divisione delle provincie degli stati sabaudi, fatta da Carlo Emanuele II (3 settembre 1749), Alessandria, con Casale, Acqui e Mortara (Lomellina), fu uno dei capoluoghi di provincia del ducato di Monferrato. Dopo la caduta del dominio napoleonico, Alessandria fu capoluogo di una divisione, che comprendeva le provincie di Acqui, Asti, Casale, Tortona e Voghera, oltre quella di Alessandria. Ridotte le divisioni a provincie e queste a circondarî, Alessandria fu capoluogo di provincia: il circondario di Voghera passò, poi, alla provincia di Pavia (Oltrepò pavese).
Vi prevalgono le colline (Monferrato): solo verso E. si allarga fra la Scrivia e il Tanaro la piccola ma fertilissima pianura di Marengo. La provincia è separata per un tratto notevole da quelle di Vercelli e di Pavia dal Po, ed è percorsa dal Tanaro, nel suo corso medio e inferiore, dalla Bormida, dalla Scrivia e dal Curone. Il suolo è ovunque molto fertile e intensamente coltivato, specialmente a cereali e a viti. Per la produzione del frumento, essa occupa uno dei primi posti fra le provincie italiane, dedicandovi una parte notevole della sua superficie (130.000 ha.). La produzione media per ettari fu di q. 13 nel dodicennio 1909-1920, ma ora è aumentata. Notevole pure la produzione dell'avena. Ma il primato è incontestabile nella coltura della vite e nella produzione del vino, quantunque ora la fillossera danneggi notevolmente i prodotti. Si calcola che la superficie coltivata a vite sia di 167.500 ha., di cui 136.500 a coltura promiscua e 31.000 a coltura specializzata. La produzione dell'uva supera i 5 milioni di quintali. Ottimi e rinomatissimi sono i vini: nell'Astigiano e nel Casalese si producono il barbera e il grignolino, in tutta la provincia si va sempre più diffondendo il freisa, nel Tortonese si producono vini bianchi molto stimati. Scarsa è la produzione delle uve da tavola. L'industria e il commercio dei vini sono bene organizzati.
Questa provincia, pur essendo prevalentemente agricola, non manca di qualche industria caratteristica: cappelli ad Alessandria, lavorazione dell'argento e dell'oro a Valenza; industrie meccaniche ad Alessandria, ad Asti, ecc.; calci e cementi a Casale, ecc.
Bibl.: G. A. Chenna, Del vescovato, dei vescovi, delle chiese di Alessandria, Alessandria 1785, voll. 2; G. Jachino, Storiografia alessandrina, Alessandria 1898; C. A. Valle, Storia di Alessandria, Torino 1853; C. Patrucco, Perché e come fu fondata Alessandria, Casale 1927; Rivista di storia, arte e archeologia alessandrina, diretta da F. Gasparolo, dal 1892.
Nella bibl. del Museo del Genio (Roma) sono numerose relazioni e una raccolta di 285 disegni, varî quadri e plastici della fortezza.
Nella bibl. del Duca di Genova (Torino) sono varî progetti e relazioni manoscritte del gen. Chasseloup.