ALDOBRANDESCHI
. Grande famiglia feudale, di origine probabilmente longobarda, come indicano le professioni di legge dei suoi membri per varî secoli, l'uso del duello giudiziario, il nome stesso di Ildebrando o Ildebrandino che si tramanda quasi di padre in figlio e talvolta si trova anche in due fratelli carnali, rimanendo il più giovane distinto dall'altro con l'aggettivo di Novello. Si è supposta pure una loro derivazione da re Ildebrando, succeduto a Liutprando nel 744, ma subito dopo detronizzato da Rachi. La conquista franca portò, accanto a loro e in tutta la regione attorno, rampolli della nuova gente, che entrarono in rapporto con le famiglie originarie del luogo o già stanziate lì, e non poco agirono sul loro costume di vita. Comunque, attorno al mille, la famiglia Aldobrandesca trovavasi già stabilita nella zona montagnosa dell'Amiata e di Santa Fiora, donde dominava sui territorî percorsi dal Fiora, dall'Albegna ed anche oltre, fino a Grosseto e Monte Argentario da una parte, a Corneto dall'altra: a non contare possessi sporadici anche fuori della regione, in quel di Pisa, nella Garfagnana, nel Viterbese, persino in Puglia. Comincia ad apparire nelle carte del tempo il ricordo di un "comitato" o "terra aldobrandesca", vasto territorio della Maremma toscana che comprendeva appunto le alte valli dell'Orcia e del Paglia, la bassa valle dell'Ombrone, le valli dell'Albegna e della Fiora ed il massiccio del M. Meato (M. Amiata), e, confinando con le regioni di Montepulciano e Chianciano, col M. di Cetona ed i bagni di Orvieto (S. Casciano de' Bagni), coll'Acquapendentano e con la Valle del Lago di Bolsena nel suo lato occidentale, volgeva al mare lungo il corso del Marta fino a Corneto e di qui risaliva la costiera del Tirreno sino alle foci dell'Ombrone. Era un altipiano digradante verso il mare, con lievi ondulazioni e con una zona litoranea umida e bassa, tutto seminato di folte boscaglie, ma ricco di cereali, di bestiame, di giacimenti minerarî d'argento, di mercurio, di rame e di ferro nelle regioni dell'Amiata, dell'Argentario e del Grossetano, dotato di porti e di approdi nel promontorio del M. Argentario (Porto Santo Stefano e Port'Ercole) e nel prossimo litorale (Talamone a settentrione ed Ansedonia a S.). Qua e là, possessi della Santa Sede, di chiese e monasteri famosi, come quello di S. Sepolcro di Acquapendente, quello di S. Salvatore del M. Amiata, quello delle Tre Fontane di Roma, che aveva le terre e isole attorno all'Argentario e in quel di Orbetello. La Via Francigena tagliava questo comitato aldobrandesco da settentrione a mezzogiorno, a ridosso dei suoi limiti orientali; e lo attraversava da levante a ponente la strada fra Orvieto e Orbetello, colonia e porto di questa città. Ecclesiasticamente, le varie giurisdizioni diocesane s'intersecavano nel contado aldobrandesco, e s'intersecano ancora oggi, in modo assai caratteristico. Verso il 1000, vi avevano giurisdizione la diocesi di Castro, nata da quella di Bisenzo e poi trasferita ad Acquapendente nel 1649, e la diocesi di Sovana che ebbe origine dalla chiesa di S. Ippolito presso Bolsena, trasferita anche essa, poi, a Pitigliano. Nelle sue regioni di confine penetravano le diocesi di Massa Marittima, di Volterra, di Siena, di Tuscania e di Chiusi, e successivamente le diocesi di nuova istituzione: Grosseto (1138), Montefiascone (sec. XIV), Corneto ora Tarquinia (1435), Montalcino (1462), Pienza (1472) e finalmente Città della Pieve (1600) che, scavalcando il territorio della diocesi di Chiusi, ha giurisdizione sopra Santa Fiora, l'antico centro del contado Aldobrandesco.
Infiacchita e disgregata la potenza delle varie abbazie che ebbero dominio in questi luoghi, e quasi scomparsa una breve influenza ed occupazione pisana sui porti presso l'Argentario, gli Aldobrandeschi, per varî acquisti ed infeudazioni, dai loro saldi manieri di Santa Fiora sul M. Amiata discesero a dominare questo ampio territorio che da loro prese nome. I documenti e le cronache ci permettono di seguire con sufficiente approssimazione le vicende interne e le vicende esterne, cioè politiche, di questa grande famiglia che, per alcuni secoli, si presenta, insieme col comune di Orvieto, come la maggior forza della regione, per quanto ben presto affaticata e indebolita dalla divisione in varî rami, ognuno dei quali prendeva nome dal castello che ne era il centro e la principale dimora. Si intrecciano quelle vicende, a volte con le vicende di papi e imperatori, più spesso ancora con le vicende delle finitime città, guerreggianti fra loro, bisognose e cupide di assicurarsi lo sbocco al mare attraverso il territorio aldobrandesco, di farsi valere sulle terre di chiese e monasteri comprese entro quei limiti, di ritagliarsi una lor parte in quel vasto dominio, di costringere grandi e piccoli feudatarî a farsi loro cittadini. Storia, perciò, complicata, frammentaria, turbinosa, la storia della famiglia Aldobrandesca, e delle minori famiglie formatesi su quel ceppo e sempre più distinte; e la storia delle terre che ne formavano il dominio, alcune anche di notevole importanza e non senza aspirazioni di autonoma vita comunale. Formano il centro di quella storia, forse, i rapporti fra Aldobrandeschi e Orvieto e Siena, che son tutto un vario succedersi di contrasti, di guerre, di paci, di trattati, di sottomissioni. Queste ultime incominciano, a quanto noi sappiamo, nel 1168 con la sottomissione ad Orvieto di quella parte del comitato aldobrandesco che si chiamava "terra guinigesca", vicino al lago di Bolsena; e continuano nel 1203 con trattati e sottomissioni ad Orvieto ed a Siena. Il 24 giugno 1216 Ildebrandino conte, figlio di altro Ildebrandino, non solo pone sotto la giurisdizione di Orvieto una parte del comitato, ma dispone anche che, morendo egli senza figli legittimi, tutti i suoi beni, feudali o d'altra natura, vadano pure ad Orvieto. Questo fatto, indice delle interne dissensioni che minavano allora questa come tutte le altre famiglie feudali, rinfocolò nei fratelli minori di Ildebrandino, cioè Bonifacio, Guglielmo e Ildebrandino Novello, un feroce odio contro di lui, degenerato presto in guerra. Il comune orvietano si mise di mezzo per la pace e forse la impose: le trattative, lunghe e laboriose (22 settembre-9 ottobre 1216), si conchiusero difatti in Orvieto. A rendere più ferma questa pace, anzi, i quattro fratelli, sotto la tutela o controllo della stessa città, addivenivano alla divisione del contado in quattro parti con un atto stipulato nella chiesa del comune orvietano e portante precise indicazioni delle città e castelli a ciascuna parte assegnati. La famiglia si era intanto caricata di debiti verso il comune e i privati del distretto orvietano. Si ebbe allora una spedizione contro di loro, in seguito alla quale Bonifazio e Guglielmo, fatti prigionieri e condotti in Orvieto, dovettero, per riavere la libertà, riscattarsi con una forte somma e obbligarsi a saldare entro tre mesi tutti i debiti verso i creditori, impegnando a garanzia il castello di Pitigliano. Le quattro parti in cui il comitato aldobrandesco fu diviso non avevano nessuna unità topografica; ma creavano tali e tante interferenze di giurisdizione, che divenne sempre più arduo il conservare la sua integrità.
L'intervento degli Svevi non migliorò la situazione di questi feudatarî che pure seguivano, in genere, il partito ghibellino e si appoggiavano agl'imperatori, sebbene, nelle guerre fra comune e comune, come tra fazione e fazione, dovessero più di una volta, tutti o taluni di essi, seguire parte guelfa, in virtù dell'obbedienza giurata alla guelfa Orvieto. Fu palese il favore dato dagli A. a Federico II, il quale col loro aiuto poté, nel 1240, occupare gran parte della Tuscia e del territorio orvietano. Morto Federico II, il conte Guglielmo di Ildebrandino I, coi figli Ildebrando e Omberto, fecero di nuovo atto di soggezione ad Orvieto che loro restituì Pitigliano, avuto dai nunzî dell'imperatore; mentre il Grossetano passava ai Senesi. Notevole, in questo tempo, l'interesse del potente comune fiorentino alle cose del comitato aldobrandesco e specialmente della Maremma, dove vedeva una possibile via di transito per comunicare col mare e rendersi indipendente da Pisa. Firenze, alleata di Orvieto fino dal 1229 contro Siena, stipula nel 1251 con gli Aldobrandeschi, poco prima di rinnovare quella alleanza, un patto che metteva a disposizione del Comune il porto di Talamone o Porto Ercole, a sua scelta. Nel 1265 i conti di S. Fiora e quelli di Pitigliano, tutti Aldobrandeschi, sono coinvolti nelle lotte tra Orvieto e Siena per il Grossetano, e militano nell'esercito di Orvieto. Ma sono sconfitti. Ormai il grande casato è in decadenza. La forza politica dei comuni, gl'influssi della nuova economia operavano in esso - e in tutto il mondo feudale - come dissolventi. I contrasti interni degli A. degeneravano in guerriglie, scorrerie, saccheggi che consumavano uomini e patrimonio, turbavano il commercio e il transito, gettavano il paese circostante in un insopportabile caos. Il congenito orgoglio e le ristrettezze finanziarie in cui spesso cominciano a trovarsi sono fomite di violenze e prepotenze. Abbiamo ricordato il conte Omberto, figlio di Guglielmo; ebbene, egli si rese per questo così odioso a tutti, che il comune senese lo fece nel 1259 trucidare nel sonno da sicarî. E, nella Divina Commedia, l'ombra del morto signore confessa a Dante la sua "superbia", causa di rovina per lui e per i suoi consorti (Purg., XI, 64-9).
In tali condizioni, si capisce che si annulli quasi ogni capacità di resistenza degli A. alla forza assorbente delle città, specialmente nelle minori famiglie, formatesi attorno all'antico ceppo aldobrandesco. Così, a metà del sec. XIII, Guido e Ildebrandino, conti di Cetona, vendono ognuno la sua metà del castello ad Orvieto: e così scompaiono questi conti. Poco dura anche un altro ramo, dei visconti di Campiglia, signori delle Rocchette e Fiagiano, che già nel 1215 avevano giurato ad Orvieto, poi alleatisi con Firenze e Orvieto contro Siena; e furono malfamati al tempo di Federico II, come ricettatori di eretici e paterini, fabbricanti di monete false e rapinatori di strada. Al principio del sec. XlV si perdono le tracce di costoro. I signori di Montorio, invece, dopo varie sottomissioni al comune di Orvieto, videro il loro castello cadere in dominio di Siena (1356). Ma allora la loro famiglia si era forse rifusa con quella dei signori di Montemarano e Vitozzo, loro parenti, detta anche dei signori di Baschi, dal castello omonimo che possedevano in quel di Todi. I Vitozzo, militanti sempre nel partito ghibellino, si staccarono presto dal contado aldobrandesco e si ridussero ad abitare in Orvieto e specialmente in Bolsena, dove ebbero molti possessi e grande parte nella vita pubblica. Vitozzo di Francesco, ingegnere e capitano del duca Carlo Emanuele I di Savoia, fu degno nepote di quell'Ascanio Vitozzi orvietano, capitano anch'esso ed ingegnere militare del duca, che diresse l'opera di ricostruzione di Torino. Il nipote lo coadiuvò in tutto, e combatté vicino a lui nella presa di Bricherasio (1594) La famiglia si estinse nel sec. XVII. Anche i Manenti, conti di Chianciano e Sarteano, affini a quei di Chiusi, e pure diramazione della famiglia A., dopo altri due secoli di agitate vicende, ora premuti da Siena e da Orvieto, ora obbedienti all'una, ora all'altra città, colpiti ora dalle armi e dai bandi senesi, ora da quelli orvietani, ora uniti ed ora divisi in questo loro parteggiare e sottomettersi e tradire, allentano sempre più gl'interni legami di famiglia e finiscono con lo sbandarsi. Un loro ramo si stabilisce in Orvieto, dove un Luca di Domenico Manenti, nato nel 1385, lascia bella memoria di sé in una cronaca che va dal 1134 al 1413, malamente rimaneggiata e prolungata dal suo tardo nipote Cipriano, nel XVI secolo.
Ma torniamo ai personaggi principali del casato. Nel 1274, sotto il controllo di Orvietani e Senesi, alla presenza di David, vescovo di Sovana, Ildebrandino del conte Bonifazio di Santa Fiora e Ildebrandino (Rosso) del conte Guglielmo di Sovana stipulano una nuova divisione del contado, e anche questa volta le due parti non ebbero omogeneità di territorio e continuità di confini. La contea di Santa Fiora cominciò ad essere, più che agli Orvietani, ligia ai Senesi; mentre quella di Sovana continuò a trovarsi sotto Orvieto, con ripetute sottomissioni e giuramenti di cittadinanza da parte dei suoi signori, che avevano colà un palazzo. Fra i quali merita ricordo una singolare donna, la contessa Margherita di Soana e Pitigliano, figlia del conte Ildebrandino detto il conte Rosso, assai avvenente. Vedova di Guido di Montfort e divenuta moglie di Orso Orsini, si separò da costui per amare più liberamente Nello dei Pannocchieschi della Pietra, e fu quindi cagione precipua della sventurata fine di Pia de' Tolomei. Vedova una seconda volta per la morte dell'Orsini, Bonifacio VIII tentò di maritarla al proprio nipote Goffredo Caetani; ma saputo che ella trescava pure col cugino Guido di Ildebrandino di S. Fiora, sciolse dopo un anno appena ogni impegno contratto tra Goffredo e lei e la privò del contado (1303), ma per darlo ad un altro suo nipote, Benedetto Caetani. Anastasia, figlia di Margherita e del suo primo marito Guido di Montfort, sposava intanto Romano di Gentile Orsini conte di Nola (1293), il quale così, con Nello della Pietra, Ugolinuccio di Montemarano (Vitozzi) e i Caetani compì il numero dei pretendenti all'eredità aldobrandesca, che il comune di Orvieto dové ricuperare con le armi dopo la morte di papa Bonifacio. Gli Orvietani incorsero allora in un interdetto, durato fino al 1312, dal quale si liberarono versando 13.000 fiorini alla curia di Avignone. Fiaccata però dalle intestine ed esterne contese, Orvieto mal riusciva a difendere i suoi dominî, tanto che, alla discesa dell'imperatore Arrigo VII, le comunità del contado aldobrandesco, disperando di poter avere aiuti, protestarono, se non fossero state soccorse, di volersi dare in soggezione magari al diavolo (1312). Nelle contese tra Caetani, Orsini ed Aldobrandeschi di Santa Fiora per il possesso del contado e nelle continue guerriglie dei minori feudatarî di quel territorio, Orvieto interviene di continuo con le proprie milizie e con gli armati che leva dalle comunità soggette (1318). Ma il contado ormai è rotto. La contea di Santa Fiora, restata agli Aldobrandeschi, subisce sempre più la dominazione senese; e la contea di Sovana, passata definitivamente agli Orsini attraverso Anastasia figlia della contessa Margherita e di Guido di Montfort suo primo marito, resta ancora in soggezione di Orvieto. Guido Orsini, infatti, rinnova nel 1325 la sottomissione per Sovana, Pitigliano, Sorano, Saturnia ed Altricosto, riconoscendo che tutte le terre al di qua dell'Albegna erano sempre state ed erano del comune di Orvieto per diritto di vero dominio, di proprietà, di possesso e di giurisdizione.
Sebbene questo contado costasse ad Orvieto, da tempo, innumerevoli guerre e gravissime spese, pure tanto vi teneva la città che, nella Carta del Popolo, si inseriva ogni anno uno speciale capitolo: chiunque asserisse il contado aldobrandesco appartenere ad altri che ad Orvieto e doversi restituire, avesse tagliata la testa e confiscati i beni, con multa di lire 1000 a quel podestà o rettore che non applicasse la pena. Durante la breve signoria di Ermanno Monaldeschi (1334-1336) Orvieto troncava le ribellioni dei conti Orsini, dei conti di Santa Fiora, dei Baschi, dei Bisenzî, dei Farnese, ecc.; e, al pari degli altri comuni, Orbetello rinnovava la sua sottomissione, riconoscendo Orvieto come madre e signora. Ma, dopo la repentina scomparsa di Ermanno, in mezzo al nuovo divampare di contese intestine e di guerriglie nel contado, la repubblica di Siena a poco a poco assorbiva la contea di Santa Fiora rimasta agli Aldobrandeschi; e nel 1379 anche gli Orsini di Sovana piegavano sotto la dominazione senese. La famiglia si può considerare ormai quasi annullata. Partecipano ancora, questo o quello, alle fazioni orvietane; si schierano con gli antipapi contro i papi durante lo scisma, spalleggiano la ribellione di terre del contado ad Orvieto, favoriscono l'invasione di Ladislao di Durazzo re di Napoli, subiscono poi le persecuzioni degli Orvietani che nel 1415 incendiano il loro palazzo. Scomparso il ramo di Pitigliano, dopo che quel castello dagli Orsini passò a Siena e da Siena al Granducato di Toscana, anche il ramo principale dei conti di Santa Fiora durò poco più. Il titolo e il dominio passarono alla casa Sforza che, imparentata ai Cesarini nel 1634, li ebbe sino alla fine del sec. XVIII. Intanto, fra '300 e '400, incominciava a sparire dai documenti anche il nome del contado aldobrandesco. Siena era giunta al Fiora, come s'era proposta sino da mezzo il sec. XIII; e, nel breve residuo del contado aldobrandesco, tra la Fiora ed il Marta, scomparivano gli altri minori feudatarî e si ingrandivano i Farnese. Con Paolo III essi avranno in quel territorio il ducato di Castro per il ramo cadetto, dal quale usciva il pontefice; ed il ducato di Latera, con Farnese, per il ramo primogenito. Travolta sotto l'impeto dell'esercito imperiale, nel quale militava Sforza Monaldeschi, e dei Medici signori di Firenze, restava annientata la repubblica senese e sul vecchio litorale orvietano dell'Argentario la Spagna aveva lo stato dei Presidî.
Bibl.: Monaldeschi, Comentarii historici, Venezia 1584; Malavolta, Historia de' fatti e guerre de' Sanesi, Venezia 1599; L. Fumi, Codice diplomatico della città d'Orvieto, Firenze 1884; id., Ephemerides Urbevetane, in Rerum Italicarum Scriptores, II, fasc. 43°; G. Bruscalupi, Monografia storica della contea di Pitigliano, Firenze 1907; G. Cardarelli, Confini tra Magliano e Marsiliana, ecc., in Maremma (Bollettino della Società storica maremmana), Siena 1924, fasc. II-IV; 1925, fasc. I-III; Barbaresi, Bibliografia della Provincia di Grosseto, in Maremma (Bollettino della Società storica maremmana), 1924, fasc. I segg.; C. Dottarelli, Storia di Bolsena, Orvieto 1928.