TRIONFO, Aldo
(Cesare Aldo). – Rimosso il primo nome per le implicazioni imperiali (e rimasto il secondo, Aldo, che in ebraico significa capo), ma semplicemente Dado per gli amici, nacque a Genova il 12 dicembre 1921, in una famiglia ebraico-tunisina (il nonno paterno aveva edificato a Tunisi il primo teatro lirico, il Rossini), da Carlo Raul, imprenditore con un’avviata azienda di ascensori, nella cui gestione avrebbe voluto coinvolgerlo, avendo solo un’altra figlia, Livia, e da Lea Lumbroso.
Nascosto in Svizzera, dove si mescolò al gruppo di ebrei ivi rifugiati, tra cui Alessandro Fersen ed Emanuele Luzzati, suo compagno di ginnastica alla scuola primaria (con loro nel 1944 allestì uno spettacolo, poi ospitato in Italia, Salomone e la regina di Saba, diretto dal primo), completò gli studi liceali in un collegio vicino a Zurigo e si laureò in ingegneria meccanica, per volere dei genitori, orientandosi poi verso le arti.
Nel periodo svizzero ebbe anche un matrimonio ‘volatile’, mai depositato, con una signorina forse di facciata, considerata la diversità sessuale presto da lui accettata e non più celata. Molto elegante, abiti Saint Laurent, con punte di dandysmo e aperto alla cultura novecentesca, si diplomò in pianoforte ma frequentando, nel medesimo tempo, le palestre di pugilato.
La sovrabbondanza compulsiva di imageries, nonostante la priorità del verbo secondo il dettato ebraico da cui proveniva, l’utilizzo di un antiquariato cencioso esaltato da una scatenata fantasia inventiva, la vocazione alla simultaneità di controscene, l’assenza di qualsiasi strategia egemonica verso gli attori, i registri grotteschi privilegiati a sfumare l’indubbia rabbia verso l’intolleranza razzista e la crudeltà della storia caratterizzarono il suo magistero registico.
Dopo aver girato dal 1947 al 1953 nel Carrozzone di Fantasio Piccoli in condizioni pauperistiche anche come attore, magari in mere prestazioni mimiche, venne quindi finanziato dal padre affinché realizzasse teatro in condizioni più dignitose. Tentò allora di mettere radici a Genova, in uno scantinato di via XX Settembre, prendendo nel 1958 la direzione della Borsa di Arlecchino, costituita l’anno prima da un gruppo di giovani attori, tra cui Myria Selva, e accollandosi il peso economico dell’avventura. Un corridoio contornato da tavolini come in un novello café chantant, una minuscola pedana senza sipario, e gli interpreti che entravano dalla porta di fondo.
Qui, oltre agli scontati Georges Feydeau, Georges Courteline e Jean Cocteau, introdusse repertori dell’assurdo e del tardo espressionismo, alcuni da poco rappresentati all’estero, come Jean Tardieu, Michel de Ghelderode, Samuel Beckett (Finale di partita, divenuto Il gioco è alla fine nel 1959), vari testi di Eugène Ionesco, ma anche un provocatorio Jean Genet (Sorveglianza speciale nel 1960), e attori dal manierismo acceso o pososo come Carmelo Bene e Paolo Poli.
Nella seconda parte delle serate, Trionfo inserì un varietà poetico-musicale: antologia delirante e sapienziale di filastrocche surreali, con giocolieri, cantastorie, saltimbanchi, sollevatori di pesi, in contiguità allusiva con i copioni presentati ad apertura dello spettacolo. Tracce dadaiste lo spingevano al collage, al bricolage, al montaggio tipico della rivista, nel rimando all’epoca weimariana, con saliscendi vertiginosi tra moduli alti e bassi, osceno e sublime, pastiche schizofrenico tra avanspettacolo e melodramma, oltre a costanti sberleffi metateatrali e ammicchi irriverenti alla platea. Inoltre, nessuna ingessatura accademica richiesta nella recitazione, piuttosto la sollecitazione rivolta agli attori a essere se stessi, con i propri difetti.
Tre stagioni durò l’esperimento, tra spettatori assenti e contrasti con la censura, ma anche per il perbenismo della città: terminato nel 1960 dopo quindici spettacoli e quattrocento rappresentazioni per il distacco del duo Poli-Claudia Lawrence reclutati al Gerolamo milanese.
Nel 1953-54, c’era stata una breve parentesi come aiutoregista cinematografico, con l’affinamento della conoscenza della pratica illuminotecnica, per Giuseppe De Santis (Un marito per Anna Zaccheo) e Luchino Visconti, di cui curò le battaglie risorgimentali nella campagna veneta per Senso. A Roma nel 1966 raggiunse il culmine di un disordine ben preordinato con il Synket, affastellando dilettanti e poeti, prostitute e bizzarrie varie con il sintetizzatore elettronico, congegno futuribile di impronta majakovskijana. Le prime importanti collaborazioni con istituzioni teatrali (coabitazione piuttosto disagevole, se la struttura concittadina lo estromise sempre, e Ivo Chiesa, direttore del teatro Stabile di Genova, era stato suo compagno di scuola) avvennero con Storia di Vasco (1963) di Georges Schéhadé e il pavesiano Dialoghi con Leucò (1964) per il teatro Stabile di Trieste, con cui allestì pure, nel 1968, sia l’ibseniano Il piccolo Eyolf sia L’avventura di Maria sveviana con una mirabile Franca Nuti.
Dal 1972 al 1975 diresse lo Stabile di Torino, sempre avvalendosi della scenografia di Emanuele Luzzati. Nel 1975 con quest’ultimo e Tonino Conte fondò a Genova il teatro della Tosse, per cui firmò uno tra gli spettacoli da lui più sentiti, I corvi di Henry Becque (1980), con le sagome zoomorfe dei rapaci personaggi borghesi.
La sua tipologia scenica preferiva il salotto vittoriano e umbertino, stilemi allusivi a un mondo corrotto o in via di putrefazione, intinto in languori liberty e crepuscolari, spesso forzato a ospitare titoli elisabettiani, dalla esplosiva carica dirompente, come Arden di Feversham (1971) in cui la protagonista (Piera degli Esposti), mentre progetta l’omicidio del marito, dipinge ceramiche o stira; al suo fianco, la cameriera lucida gli ottoni, e intanto l’amante la palpava tra nugoli di voyeurs. Forte altresì il gusto per il masque, vedi i sontuosi carri barocchi di Vita e morte di Re Giovanni (1973), per la parade, per il grand guignol efferato nella memoria artaudiana, ma filtrato dal controcanto del feuilleton per sabotarne l’ideologia dominante. Nella biblioteca inglese, in particolare attorno al Bardo e dintorni, ecco il Titus Andronicus, nella versione storica di Cesare Vico Lodovici (1968), ambientato in prati rasati e con fanciulle che sembrano uscite da un Renoir a suonare Erik Satie al piano, mentre si susseguivano le truculente e ossessive congiure compulsive offerte ad adolescenti portati in scena come pubblico doppio di quello in sala; Lady Edoardo da Christopher Marlowe (1978), in cui quattro signore apprensive, tra cui un’irresistibile Paola Borboni, prendevano il tè e mangiavano pasticcini, rivolgendosi al protagonista quasi fosse un infante, nonostante i suoi turbolenti amori omosessuali; La tragedia della fanciulla di Francis Beaumont e John Fletcher nel 1979 e il medesimo anno La dodicesima notte, con Aldo Reggiani che impersonava Sebastiano-Viola, a rispettare i fantasmi dell’androginia del gemello uomo/donna nella fantasticheria arcadica di un’Illiria dolce-amara.
Il tutto compendiato in Bosco shakespeariano (1981) per gli allievi del primo e secondo anno dei corsi all’Accademia nazionale drammatica Silvio D’Amico, dove fu docente e poi direttore dal 1980 al 1986, puntando sui giovani spesso coinvolti nelle messinscene al di fuori.
A conferma della indubbia capacità di consociarsi grandi interpreti della scena di ricerca, altrove incapaci di sottomettersi all’autorità di un regista, propose nel 1976 un Faust-Marlowe-Burlesque (firmato anche da Lorenzo Salveti) centrato sul bizzarro sodalizio costituito da Carmelo Bene nei panni di Mefistofele-Faust e di Franco Branciaroli in quello di Faust-Mefistofele in un’evidente rotazione tra pulsioni pedofile, blasfemie, baci, toccamenti vari e dispettosità isteriche. I due operavano sul proscenio, ignorando alle loro spalle il cimitero preromantico, baraccone di orrori da luna park, che riproduceva quello monumentale di Staglieno a Genova (dove Trionfo fu poi sepolto), mostrato solo per qualche istante.
L’incastro tra citazioni di gialli Mondadori, canzoni pop, Carolina Invernizio, Cime tempestose, suggellava il caos dei generi letterari e sessuali. La sua messinscena si risolveva in una drammaturgia dello spazio e dell’oggetto compatibile con la partitura verbale, nella successione a sbalzi di quadri più o meno viventi e continui anacronismi, mai una storia lineare, nell’insofferenza per la well made comedy allo stesso modo con cui si accaniva a demolire l’impalcatura morale della famiglia cattolico-borghese, a mettere a nudo i meccanismi di potere e il dominio di classe, con la medesima lucidità implacabile di un Karl Kraus o di un George Grosz.
In cambio, questo illuminista disincantato intendeva inventarsi ogni volta diverso, mai chiuso in un proprio personale cliché. Particolari dell’arredo divenivano del resto autentici protagonisti delle sue regie, come il gran letto al centro nel Peer Gynt ibseniano (1972), in cui si oggettivavano le ruminazioni entro il cervello di Corrado Pani, nel ruolo del protagonista. Talamo anticipato nello spettacolo macabro sulla Traviata (che utilizzava il romanzo, non la pièce di Dumas fils), Festa per la beatificazione di Margherita Gautier, la Signora delle Camelie, santa di seconda categoria (1970) scritto da Trionfo come in altre occasioni a quattro mani con Tonino Conte, in cui signori in abito da sera contemplavano cinici la reiterata agonia della vittima; oppure il salottino pronto a metamorfizzarsi nella giungla di Mompracem per il coevo Sandokan, Yanez e i tigrotti della Malesia alla conquista della Perla di Labuan (scritto anche questo in sinergia con Conte), con le sequenze salgariane spalmate tra gesti quotidiani e distribuite tra i parenti, adulti e infanti, di una mediocre famigliola; o il piano bar, con l’entrata clamorosa di un’auto d’epoca di un giallo tracotante, nel brechtiano Puntila e il suo servo Matti, sempre nel 1970, lontanissimo dagli algidi ralenti strehleriani, e la piramide di sedie a simbolizzare montagne scalate da Tino Buazzelli, e ancora la giostra equestre issata al centro dell’Ettore Fieramosca tratto da Massimo d’Azeglio con la sua Disfida di Barletta (1973), e la scala per le discese canoniche di Wanda Osiris in Nerone è morto? dell’ungherese Miklòs Hubay (1974).
Funzionale pure una sorta di puero-centrismo, sprigionato dalla presenza frequente di fanciulli, in cui si immedesimava l’occhio estraneo del regista, in quanto non ancora integrati nella simulazione e nella ferocia imposte dalla società adulta. Così la citata scolaresca nel Titus Andronicus, così l’adolescente Franco Branciaroli issato su un cavallino a dondolo ai bordi del Peer Gynt. Aiutato dall’amico di infanzia, e suo geniale costruttore di forme e costumi, Luzzati (a volte integrato da Giorgio Panni, erede testamentario del regista), anche lui, dietro la felicità chagalliana delle icone, ben memore della Shoah. Fondamentale anche il mixage acustico, spesso curato da Paolo Terni, colonna sonora che costituiva un doppio contrastivo rispetto alle immagini esibite, smentendo ansie terroristiche o consolazioni da happy end catartici. Non mancarono significativi allestimenti lirici, tra cui un Barbiere di Siviglia nel 1977.
Da ultimo si avvicinò a titoli dannunziani, da lui rilanciati per respiro europeo e contrapposti a un Luigi Pirandello sempre evitato e accusato di provincialismo. Del Vate fornì ovviamente una rilettura scarnificata dagli orpelli: da La città morta a Francesca da Rimini alla Nave, in cui si avvalse pure del carisma di un’intramontabile Alida Valli, tutti spettacoli del 1988. Ma c’era stato pure nel 1976 un sorprendente adattamento dal romanzo Giovanni Episcopo, inglobato dal Martyre de Saint Sébastian in un unico, vertiginoso incastro.
Già in precedenza colpito da infarto, impegnato nella rifinitura del suo amatissimo elisabettiano Però peccato, era una gran puttana (da John Ford, al debutto il 9 gennaio del 1989: metafora, per lui, della ferocia dei tempi contemporanei), Trionfo morì d’improvviso, a Genova, il 6 febbraio 1989.
Fonti e Bibl.: E. Groppali, Il teatro di T., Missiroli, Cobelli, Venezia 1977 (in partic. pp. 104-111, 116-129, 159-173); Una giovinezza ferita. Gli spettacoli elisabettiani di A. T., a cura di C. Peirolera, Genova 1991; Il teatro di T., a cura di F. Quadri, Milano 2002 (contenente le partiture di copioni altamente rappresentativi come il Sandokan, la Margherita Gautier e Faust-Marlowe-Burlesque); La Borsa di Arlecchino e A. T.: dall’Archivio di Lunaria teatro, a cura di D. Ardini - C. Viazzi, Genova 2008; D. Aluigi, A. T.: la formazione di un immaginario, in La Riviera ligure, II (2014), pp. 21-35; L. Cavaglieri, La Borsa di Arlecchino, in L. Cavaglieri - D. Orecchia, Memorie sotterranee. Storia e racconti della Borsa di Arlecchino e del Beat 1972, Torino 2018, pp. 45-93.