TONTI, Aldo
TONTI, Aldo. – Nacque a Roma il 2 marzo 1910 da Domenico, ingegnere alle Ferrovie dello Stato, e da Erminia Avallone, casalinga, salernitana. Terzo di sette figli, crebbe in un complesso di case per i ferrovieri, nella zona di piazza Vittorio Emanuele II. Per via paterna la famiglia discendeva da un nobile casato pistoiese.
Per aiutare la famiglia interruppe gli studi all’Istituto industriale e all’età di diciassette anni entrò da apprendista in un’agenzia fotografica, la Polly Pastorel, che seguiva eventi di cronaca ma anche matrimoni. Addetto a prosciugare le stampe fotografiche, fu promosso al rango di assistente lampista e infine fotoreporter: seguì parate e cerimonie del regime fascista e, in particolare, realizzò le foto ricordo che il duce scattava con le delegazioni al termine delle udienze nella sala del Mappamondo a palazzo Venezia.
Si accostò al cinema come assistente dell’operatore Ettore Villani, corrispondente dall’Italia per il cinegiornale della Fox Movietone. Nel 1934 ottenne un lavoro come addetto al caricamento degli chassis nella troupe di Arturo Gallea sul set del film Cléo, robes et manteaux (1935) di Nunzio Malasomma. Non abbandonò tuttavia l’attività di fotografo e in questa veste fu al seguito di un gruppo di giovani camicie nere in un viaggio di propaganda nella Germania hitleriana (ebbe l’occasione di assistere anche a un discorso di Adolf Hitler) e seguì il viaggio di Benito Mussolini in Tripolitania per l’inaugurazione di una strada costruita da aziende italiane. Erano sue le celebri foto del duce in sella a un cavallo bianco. Incaricato delle foto di scena sul set del film Cavalleria (1936) di Goffredo Alessandrini, fece i suoi scatti con una macchina portatile durante le riprese, alla maniera dei fotoreporter, senza mettere in posa il cast come all’epoca si usava.
Durante la frequentazione di uno dei suoi primi set aveva conosciuto Francesca Marlat, corista, discendente di una famiglia della borghesia veneziana che aveva gestito alberghi in laguna. Si sposarono nel 1934. Esattamente come i genitori di lui, avrebbero avuto sette figli. E quattro di questi (Giorgio, Luciano, Tonino e Daniela) avrebbero lavorato a vario titolo nel cinema.
Negli anni Trenta Tonti alternò il lavoro di fotoreporter e l’apprendistato cinematografico sul set, dove i suoi maestri furono Gallea e Ubaldo Arata, due grandi nomi dell’epoca. Nell’aprile del 1937 fu uno dei cineoperatori che documentarono la prima visita del duce a Cinecittà, in occasione dell’apertura degli stabilimenti.
Punto di svolta della sua carriera fu la partecipazione – in qualità di assistente nella troupe dell’operatore Arata – al film Luciano Serra pilota (1938) di Alessandrini, girato in Abissinia. Il produttore di questo film, Eugenio Fontana, lo avrebbe lanciato come primo operatore nel suo nuovo lungometraggio Piccoli naufraghi (1939), opera prima di Flavio Calzavara. Il film era stato iniziato da Gallea, il quale però non sopportava le condizioni di lavoro negli esterni all’isola del Giglio e aveva abbandonato il set.
L’esito di questo primo impegno da operatore capo gli procurò un contratto in esclusiva con il produttore Fontana. Apprezzato per la velocità di esecuzione e per la capacità di utilizzare una minor quantità di luce rispetto ai colleghi, Tonti si ritrovò spesso a viaggiare in Africa per produzioni che facevano ampio uso degli esterni, come Abuna Messias (1939) di Alessandrini, che fotografò in collaborazione con il collega Renato Del Frate. Alla lavorazione di questa pellicola, girata con la nuova Kodak Plus X a grana fine, i due cineasti dedicarono anche un articolo pubblicato sulla più celebre rivista cinematografica dell’epoca (Riprese africane, in Cinema, 1939, n. 77, p. 175).
Egli portava nel gusto edulcorato e luccicante della Cinecittà fascista il sapore della luce naturale, che si traduceva in una certa autenticità degli esterni, caratteristica di tanti dei suoi film ‘africani’ di quel periodo, che seppe ritrovare anche in Bengasi (1942) di Augusto Genina, a dispetto del fatto che tutti gli esterni fossero stati ricostruiti a Cinecittà (la vera Bengasi era stata praticamente rasa al suolo dai bombardamenti inglesi).
Avvezzo a lavorare fuori dalle mura protettive dei teatri di posa di Cinecittà, nell’estate del 1941 partì insieme al giovane Luchino Visconti alla volta della foce del Po, dove trascorse diverse settimane per le riprese di Ossessione (1943) in un’atmosfera che, più tardi, sarebbe stata etichettata come neorealista. E qui sarebbe tornato qualche anno dopo la fine della guerra per girarvi Il mulino del Po (1949) di Alberto Lattuada.
Sebbene il mondo di Cinecittà fosse considerato una zona franca, dopo l’8 settembre 1943, per scongiurare il rischio di una chiamata alle armi, Tonti fece domanda per essere ammesso come volontario nel corpo delle guardie palatine in Vaticano. Prestava servizio una volta a settimana nel turno di notte. Questo non gli impedì di continuare l’attività di operatore, soprattutto sul set delle produzioni di Salvo D’Angelo, legato al mondo ecclesiastico, che in quel periodo realizzò pellicole come La porta del cielo (1945, diretto da Vittorio De Sica).
Al momento della liberazione di Roma fu uno dei pochi operatori italiani a documentare la rotta dei nazisti e l’arrivo degli Alleati. In attesa che il cinema riprendesse fiato, nell’immediato dopoguerra sbarcò il lunario con attività di tutt’altro genere. In società con il collega Mario Craveri, per esempio, per qualche tempo gestì un trasporto di pasta da Porta Civitanova fino a Roma.
Nel dopoguerra si ritrovò coinvolto in molte produzioni in esterni, fuori dai teatri di posa. Viaggiò in automobile lungo tutto lo stivale, fu a Catania per le riprese di Malìa (1946) di Giuseppe Amato, nel milanese per Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano, a Torino per Il bandito (1946) diretto da Lattuada, primo capitolo della sua lunga collaborazione con il produttore Dino De Laurentiis e con il suo socio Carlo Ponti, i quali lo avrebbero utilizzato non solo come operatore, ma anche come attore sul set di una commedia con Erminio Macario, Come persi la guerra (1947) di Carlo Borghesio, nel ruolo di un buffo tedesco terrorizzato dalla guerra che si nasconde dappertutto. Nei titoli di testa compare con lo pseudonimo di Fritz Marlat, utilizzando il cognome da nubile della moglie.
Nella seconda metà degli anni Quaranta Tonti firmò la fotografia di tutti i film di Lattuada, da Il delitto di Giovanni Episcopo (1947) a Senza pietà (1948), costituendo con lui uno dei primi inossidabili sodalizi artistici del dopoguerra italiano.
Nel 1951, insieme ad altre personalità del cinema, partecipò a un tour negli Stati Uniti organizzato da Ponti e De Laurentiis per la nascita di una compagnia destinata a distribuire i film italiani oltreoceano. Si recò anche in Uruguay, dove fu premiato alla prima edizione del festival di Punta del Este per la fotografia del film Il brigante Musolino (1950) di Mario Camerini. Continuò a collaborare a lungo con Ponti e De Laurentiis, anche dopo che i due produttori si erano separati.
Nel corso della sua lunga carriera fu più volte al fianco di Roberto Rossellini, per il quale fotografò due pellicole prodotte da Ponti nel 1954, Viaggio in Italia e la commedia Dov’è la libertà. Nel 1953, mentre era impegnato nella preparazione del suo primo film in Technicolor, Ulisse (diretto da Camerini), fece da navigatore a Rossellini nel rally delle Mille miglia, seppur con tre costole fratturate sin dalla partenza. Poche settimane dopo, forse per assonanza con quella disavventura automobilistica, alcune fonti di stampa ne annunciarono la morte, scambiandolo per il collega G.R. Aldo (nome d’arte di Aldo Rossano Graziati), effettivamente deceduto in un incidente automobilistico sul set del kolossal Senso di Visconti, con il quale Tonti aveva collaborato una decina di anni prima per il capolavoro Ossessione.
A metà degli anni Cinquanta De Laurentiis lo inviò negli Stati Uniti, prima a New York e poi a Hollywood, insieme al collega Otello Martelli, per documentarsi sulla tecnologia del nuovo formato VistaVision, con scorrimento orizzontale della pellicola, che avrebbe impiegato nelle riprese della seconda unità del kolossal Guerra e pace (1956) affidata alla regia di Mario Soldati. Insieme al collega Martelli, fu un protagonista del cinema italiano nella stagione dei kolossal e fu con De Laurentiis durante la lunga fase di preparazione in Indocina per la super produzione La diga sul Pacifico (1957) di René Clément.
Per Fellini fotografò in bianco e nero Le notti di Cabiria (1957), protagonista Giulietta Masina, che poco più tardi avrebbe ritrovato sul set di Fortunella (1958), altra produzione De Laurentiis, diretta da Eduardo De Filippo.
Rossellini lo coinvolse più tardi in un’altra avventura, la lavorazione di India: Matri Bhumi, che condusse i due cineasti nel continente indiano per diversi mesi, dal febbraio fino al luglio del 1957.
Nel 1961, per uno dei suoi primi film a colori (The savage innocents, 1960; Ombre bianche), un racconto d’avventura diretto da Nicholas Ray, ottenne il Nastro d’argento, il più ambito riconoscimento italiano dell’epoca. Nello stesso periodo si trasferì con la famiglia in una villa alla periferia sud di Roma, a Santa Maria delle Mole, frazione di Marino. Due anni più tardi, ormai all’apice della carriera, diede alle stampe la sua autobiografia Odore di cinema (Firenze 1964), arricchita dalle illustrazioni di Dario Cecchi, costumista, scenografo e pittore di nobile lignaggio, un vero protagonista del cinema dell’epoca.
Tonti si era avvicinato al colore senza troppa convinzione, ma ottenne risultati di eccellenza in una commedia avventurosa di Dino Risi, Operazione San Gennaro (1966), che portò a termine nonostante una gamba rotta a causa di un incidente sul set, e in Reflections in a golden eye (1967; Riflessi in un occhio d’oro) di John Huston, dove rimpiazzò nel corso della lavorazione il maestro inglese del colore Oswald Morris. Tra gli anni Sessanta e Settanta, considerato ormai un senatore di Cinecittà, fu al fianco di cineasti della sua stessa generazione alle loro ultime prove, come Alessandro Blasetti (Io amo, tu ami..., 1961) e Camerini, che affiancò nel dittico salgariano composto da Kali-Yug la dea della vendetta (1963) e Il mistero del tempio indiano (1963). Questo non gli impedì di collaborare con registi più giovani, come l’ispirato Marco Ferreri in La donna scimmia (1964) e L’uomo dei cinque palloni (1965), girati in un bianco e nero di notevole finezza e modernità. In virtù dei trascorsi realisti, venne scritturato dal giovane John Cassavetes per fotografare Husbands (1970; Mariti), ma ormai aveva girato troppi kolossal per prestarsi al pedinamento dei personaggi con la macchina a mano. La barriera generazionale si rivelò insuperabile e dopo le prime giornate di riprese lasciò la produzione nelle mani dell’operatore della seconda unità, l’americano Victor J. Kemper.
Non si congedò mai dal suo lavoro. Il produttore svizzero Georges-Alain Vuille lo avrebbe voluto per le riprese di La favorita di Jack Smight, in Turchia, ma il peggioramento delle condizioni del suo cuore glielo impedì e il film venne poi illuminato dal figlio Giorgio, anch’egli direttore della fotografia.
Morì nell’ospedale di Marino il 7 luglio 1988 all’età di settantotto anni.
Fonti e Bibl.: Ritratto d’operatore, in Cinema, 1943, n. 168, p. 371; P. Jacchia, Operatori italiani: A. T., in Ferrania, 1953, n. 7, p. 26; F. Savio, A. T., operatore, in Cinecittà anni Trenta, III, Roma 1979, pp. 1090-1101; A. T. (direttore della fotografia), in La città del cinema, Roma 1979, pp. 276 s.; M.P. Fusco, A. T., un maestro al servizio dei grandi, in La Repubblica, 14 ottobre 1983; S. Masi, Storie della luce. I film, la vita, le avventure, le idee di 200 operatori italiani, L’Aquila 1983; M. Morabito, A. T.: in molti lo chiamano maestro, in La Nazione, 15 ottobre 1983; R. Prédal, A. T., in La photo de cinéma, Paris 1985, pp. 426-428; A. T., in Variety, 13 luglio 1988, p. 70; A. T., in EPD Film, 1988, n. 9, p. 13; 40° Anniversario, a cura di M. Bernardo, Roma 1990 (in partic. M. Bernardo, Il bizzarro, estroso ‘cavaliere’, pp. 117-119; M. Baldi, A. T., pp. 119-122); Z. Bicât, Ossessione, 1942, in Making pictures: a century of European cinematography, New York 2003, pp. 216 s.