FERRABINO, Aldo
Nacque a Cuneo il 28 giugno 1892 da Agostino Vincenzo e da Angelica Toesca. Frequentò le scuole secondarie nel locale liceo, condiscepolo di A. Rostagni. Il 1910 si iscrisse (e il Rostagni con lui) alla facoltà di lettere dell'università di Torino vincendo la borsa del collegio "Carlo Alberto" per studiarvi patristica e, comunque, l'antico.
La scelta del maestro fu immediata e quasi obbligata. G. De Sanctis era non pur l'insegnante più qualificato, polemico, cioè combattivo e combattuto, che avesse allora la facoltà, nel rapido declino di A. Graf, ma, e soprattutto, unico avvertiva la crisi della "scuola storica" e la necessità d'un rinnovamento storiografico-culturale.
Arrivò alla laurea con un grosso bagaglio di pubblicazioni erudite, per la maggior parte presentategli dal De Sanctis per la stampa negli Attidell'Accademia delle scienze di Torino, benché la serie cominci con un articolo dantesco, forse una lettura ad una delle "sabatine" di A. Graf: Il dramma dantesco della superbia e del dubbio (in Giorn. dantesco, XIX [1911], pp. 1 ss.). Ed è significativo che degli scritti prelaurea uno solo (Cirene mitica, in Atti dell'Acc. delle scienze di Torino, XLVII[1911-12], pp. 505 ss.) preluda alla dissertazione del 1914 (la quale, dunque, maturò e concrebbe con sviluppo autonomo e particolare, framezzo a molt'altri e assai diversi interessi). Di questi "juvenilia" resta validissima la monografietta Thessalon politeia (in Entaphia, Torino1913, pp. 69 ss.), il primo tentativo d'un'interpretazione concretamente storica, cioè non meramente filologica né meramente istituzionale, delle vicende tessaliche nella metà prima del IV sec. a.C., il progressivo passaggio di civiltà e di potere politico dai centri della pianura ai centri costieri, meglio aperti al commercio e alle relazioni con Atene e col mondo greco, donde il correlativo affermarsi più e più d'una classe mercantile urbano-borghese, argine e limite al prevalere, fin qui sostanzialmente incontrastato, d'una feudalità agrario-equestre.
Il 1914 apparve, strana tesi di laurea e singolarissimo unicum negli studi d'allora (vuoi di filologia classica, vuoi di storia antica, vuoi di storia delle religioni o di etnologia), Kalypso. Saggio di una storia del mito (Torino 1914). Il libro è tutt'oggi valido più per le sue virtù letterarie che per il metodo.
Il F. si propone, infatti, di dettar i fondamenti teorici d'una "storia del mito" e di esemplificarla mediante l'analisi d'alcuni miti, Caco e Cirene, Andromeda, la Demetra d'Enna (cioè il ratto di Proserpina). L'analisi è specialmente felice dove il F. esamina, commenta, traduce o illustra le varie versioni poetico-letterarie tuttavia superstiti di quel singolo mito. Paradiginatica la ricostruzione dell'Andromeda euripidea, interpretata non quale mera materia mitica, si quale opera d'arte, quale momento (e così nelle analisi analoghe dell'Imperoatheniese) delmondo e del sentire del poeta in un istante preciso e particolare. Nuoce, naturalmente, alla composizione del libro la giustapposizione, inevitabile però (nonostante la bipartizione fra analisi e ricerca), del momento, o materiale, filologico e del momento poeticoletterario (anche quando fonte d'una certa fase d'un mito sia uno storico: Livio ad esempio, per il mito di Caco). Ma più nuoce, o più è debole, l'inquadratura metodico-teorica, il modo, cioè, di fare, o conforme a cui il F. ritiene si possa e si debba fare, storia del mito. Il mito, secondo il F., nasce naturalisticamente, né quindi sarebbe l'"universale fantastico" dell'idealismo. Laddove par assai dubbio che un mito, non trasformatosi e conservatosi in un libro, in un rito o in un culto fedelmente osservato, serbi altro valore se non di fonte letteraria, di storia o donnée che attende e subisce il travaglio genetico-plasmatore dell'artista (e questi è per il F. quasi soltanto scrittore, e non anche scultore o pittore). In ultima analisi, perciò, e nonostante i propositi di originalità teorico-metodica, si ha l'impressione di trovarsi a fronte d'una storia di temi. E l'Andromeda di Euripide serve, perciò, a intendere Euripide, mentre serve poco o punto a intendere il mito, cioe la trasformazione d'una materia "allotria". Libro, dunque, d'uno studioso che armeggia e conosce, e magari combatte, lo storicismo idealistico, e vi si trova a disagio, come, e più, si trova a disagio nel tuttavia imperante filologismo. Ed è risoluto ad uscirne.
Gli anni di guerra accentuarono la solitudine, il travaglio spirituale, la maturazione "storicistica" del F., vagante per l'Italia fra impegni militari ed impegni scolastici, ma sempre intento al colloquio epistolare col De Sanctis e alle iniziative del suo maestro. Questi meditava di lanciare, a guerra finita, presso il Bocca di Torino, una Rivista di storia antica, fin dal cui primo numero avrebbe gradito la collaborazione dell'allievo.
Il quale così rispondeva all'invito: "Ecco l'animo con cui potrei collaborare alla Rivista:entusiastico per fede, per volontà di vittoria. Vedo e sento tutto il bene che può derivare da un rinnovamento così promosso. Conceda perciò alla mia fede qualche dubbio" (lettera del 28 ag. 1917, pubblicata da L. Polverini, in Ann. della Scuola normale sup. di Pisa, classe di lettere, s. 3, V [1975], p. 424, n. 16). Il dubbio, giustificatissimo, nasceva dall'eventuale collaborazione "con noi" de "i puri filologi e i puri eruditi": "purché restino al loro posto!" (qualcosa di molto simile aveva scritto, parecchi anni prima, in polemica precisamente col De Sanctis. G. Ferrero).
Quando poi la rivista per qualche modo si fece, quando cioè De Sanctis, coadiuvato dal Rostagni, dié inizio nel 1923 alla nuova serie della Rivista di filologia, il F. ne fu, per i soli anni Venti, autorevole ma assai parco, collaboratore. E altrettanto parco collaboratore fu, negli anni medesimi, d'un'altra iniziativa desanctisiana. Disapprovò inizialmente per motivi "politici" l'intrapresa dell'Enciclopedia Italiana, confessò di aderirvi unicamente per affettuosa deferenza al De Sanctis, direttore della sezione d'"Antichità classica", e gli articoli che vi stampò si leggono quasi tutti come un riassunto, o un'editio minor, di quanto il F. aveva precedentemente scritto nell'Arato e nell'Impero atheniese.
Gli anni dell'immediato dopoguerra videro il F. impegnato pro e contro il rinnovamento storiografico all'insegna dell'idealismo. Professore liccale a Roma e a Palermo, quindi presso la scuola italiana di Alessandria d'Egitto, venne elaborando i suoi libri maggiori e la sua personalissima e polemica interpretazione della storia greca, pur movendo dalla problematica de' suoi maestri De Sanctis e K. J. Beloch, alla cui scuola si era "perfezionato" dopo la laurea. Era la problematica "bismarckiana" della storia in termini di unità nazionale, che il cancelliere tedesco, già nella sua celebre lettera al Curtius, riteneva doversi saggiare (e condannare) alla stregua, e con la misura, dell'"unità". Prontamente il F. provvide, però, a rovesciare il problema, e a dimostrarne l'inanità, scegliendo a suoi temi il momento della (presunta) unità nazionale in ambito e con istrumenti federativi (donde il volume su Arato di Sicione e Pidea federale, Firenze 1921) e successivamente il momento della (presunta) unità nazionale in ambito di egemonia periclea e postpericlea (donde L'impero atheniese, Torino1927).
Pur nell'insufficiente meditazione dei problemi e della teorica del federalismo, donde l'insufficiente valutazione politico-storiografica del libro di Freeman, abbassato al rango di mero sussidio bibliografico (p. 243, n. 1), l'Arato riflette i dettami della storiografia "idealistica" (e non a caso il libro s'inizia con una citazione di Croce); ma, nel negativo giudizio sulla sostanziale sterilità dell'opera di Arato, già introduce quel cosiddetto "pessimismo storico", cui supplisce, negli scritti posteriori, la "metastoria". Il termine qui manca ancora, ma se n'avverte la presenza e l'attuosità, frammezzo al finguaggio coerentemente gentiliano, quando il F. proclama, dualisticamente (o "misticamente"): "Ciò che non è di questo mondo, che non può diventare realtà nei transeunti istituti umani, vive d'una vita incorruttibile fuori dalle forme esterne del processo storico, per entro le forme interiori dello spirito immortale: e ha ivi nome di assoluto" (p. 252).
Non stupisce perciò che da allora, per tutti gli anni Venti e Trenta, i viri eruditissimi della filologia universitaria abbiano motteggiato sui philosophoumena delF. e glien'abbiano fatto aspro rimprovero allorquando il F. partecipò nel 1927al concorso per la cattedra di Padova. Beloch (Griech. Gesch., IV, 2, p. 219, e il rinvio bibl. a p. 16), per esempio, prese contezza dell'Arato solo per contestarne (probabilmente a ragione: G. De Sanctis, Scritti minori, I, Roma 1970, pp. 490-492) la cronologia della battaglia di Sellasia. De Sanctis, ch'era della commissione con (fra gli altri) G. Cardinali, G. M. Columba e E. Ciaceri, ne scrisse indignato e sdegnato al discepolo, pur garantendogli la vittoria, come poco avanti gli aveva garantito la vittoria al concorso per la cattedra di storia generale al magistero femminile di Roma. "Il gran rifiuto" di A. Solari aprì al F. l'università di Padova, e qui lesse la sua prolusione sull'Universalità della storia (tosto pubblicata dal Gentile sul Giorn. criticodella filosofia ital., IV [1923], pp. 133 ss., poiin Scritti di filosofia della storia, Firenze 1962, pp. 27 ss.) il febbraio 1923.
Per ventisett'anni Padova fu il suo porto, la sua oasi operosa, la fucina del suo lavoro migliore. Intorno alla sua cattedra venne affermandosi e maturandosi un'eletta di giovani. E, poiché della scuola sono parte essenziale anche le "strutture", va ricordato quanto, massime durante la sua presidenza di facoltà negli anni Trenta, il F. provvide a fare, e a far fare, per il potenziamento dell'istituto di storia antica e per l'approntamento d'una sede adeguata all'importanza e al compito della facoltà di lettere, il "Liviano", che resta, in ogni caso, una insigne opera architettonica e un tesoro d'arte scultoria. Perfettamente affiatato con i colleghi "classicisti", C. Anti, archeologo e rettore, il latinista C. Marchesi e il grecista M. Valgimigli, il F. seppe così dare vita a un quadrumvirato che, nel la relativa libertà o tolleranza di Padova "bianca", permise come nessun'altra università italiana in regime fascista rigore di studi e impegno di coscienze, quale rese poi manifesto la Resistenza (Marchesi, E. Meneghetti, E. Franceschini, e altri).
A Padova il F. lavorò sodo, nella seconda e più ricca, ma più controversa, fase della propria attività storiografica. La quale s'iniziò col suo libro forse migliore (uno de' pochi libri italiani di storia greca scritto in una prosa non pur leggibile, ma d'arte): L'impero atheniese. Ch'era altresì, consapevolmente, un libro di rottura. Col De Sanctis e la filologia, anzi tutto. Il F. si fece sostanzialmente un merito di ciò che al maestro parve il difetto più grave: l'assenza di critica tucididea, l'analisi mancata, cioè, della composizione, della cronologia ideologico-compositiva d'un'opera che a un tempo esalta e condanna Atene, l'Atene caduca e caduta e l'Atene trionfante in eterno nell'"epitafio" di Pericle. Alla dialettica, od "antitesi", tucididea il F. contrappose l'unità ed unicità della condanna. "Lo storico nega l'epinicio all'Athene trionfante di Pericle e di Cleone; nega l'epicedio all'Athene sconfitta di Nicia e di Alcibiade" (p. 440). Perché "un solo e fondamentale concetto", esplicitato già nella prefazione, governa il libro: "la insufficienza di quei politici, da Pericle ad Alcibiade, la insufficienza dei loro partiti e delle classi, a conoscere e a soddisfare i bisogni reali della società contemporanea". Che era, a giudizio del F., la conclusione "medesima a cui allora pervenne Socrate".
Dunque, una storia non creatrice di valori, quand'anche il F. consciamente, e quasi superbamente, immerga nell'immediatezza degli accadimenti l'opera poetica di Sofocle, e più di Euripide e di Aristofane, e quest'opera poetica interpreti e ammiri non soltanto come una realtà, ma come un'irrealtà metafisica e metastorica e renda omaggio commosso all'Atene che risorge mitica ed eterna nell'EdipoColoneo, quasi a smentire, a negare in perpetuo, la vittoria di Lisandro, l'abbattimento congiunto della democrazia e delle "lunghe mura". Qui, pertanto, è già evidente, seppure implicita, la svalutazione o condanna della storia greca, alla quale il F. dedicò l'opera sua successiva: La dissoluzione della libertà nella Grecia antica (Padova 1929).
Questo pregiudizio "antigreco", o più precisamente contro la polis, che inquina l'opera storiografica del F. tosto divenne, forse contro le sue intenzioni od aspettative, un elemento negativo degli studi classici nostrali, infestati di romanità littoria e di retorica imperiale (donde, negli anni Trenta, l'istituzione di concorsi universitarii limitati alla sola storia romana).
La Dissoluzione pecca indubbiarnente di antistoricismo in quanto negazione di valori e, storiograficamente, in quanto collega, non senza qualche verità, ma non senz'arbitrio, ellenismo (o filellenismo) e liberalismo in quella storiografia dell'Ottocento, cui il F. rimproverava di non essere "riuscita a fondare, come fu suo vanto, la "scienza" della storia" (ibid., p. 133).
Questo non esitò ad affermare il De Sanctis, la cui celebre stroncatura (1930, in Scritti minori, VI, 1, pp. 439 ss.), sia pur sotto la maschera, o con gli strumenti polemici, della "filologia" e del "metodo", poneva in luce l'antitesi fra storicismo ed antistoricismo, fra il servire alla storia, massime se questa s'interpretasse, e così appunto il De Sanctis l'interpretava, come teandria, come l'attuazione progressiva del regno di Dio sulla terra, e il negare la storia, cioè recidere le radici stesse dell'uomo. Già l'anno avanti, del resto, Croce aveva iniziato sulla Critica una dura polemica col F., il quale, e sia pure a titolo di ritorsione, ebbe il torto d'imbragarsi poco di poi con gli stroncatori prezzolati od ignoranti della Storia d'Europa:storia d'un'utopia, chiosava nel 1932 il F. (Scritti di filos. d. storia, pp. 97 ss.1, ch'egli avrebbe, però, generosamente propugnata, nel solco di Einaudi, e da ogni tribuna, gli anni posteriori al termine della seconda guerra mondiale.
Altra conseguenza ebbe, e ancor più spiacevole per il F. medesimo, la Dissoluzione della libertà, ilsuo commiato, cioè, dagli studii greci (e dall'insegnamento medio e universitario della storia greca, al quale il F. aveva gentilianamente contribuito con un sommario scolastico di spirito e di stile "tucididei": il giudizio è di M. Valgimigli, in Leonardo, I[1930], p. 333).Passò, invece, allo studio, consapevolmente né "scientifico" né "filologico" (e neppure, in ultima analisi, veracemente storiografico) della storia di Roma, in essa storia esaltando l'equità imperiale, la virtus liviana, la clementia Caesaris, l'impero nazionale e, soprattutto, l'italianità, quasi che la concessione cesariano-augustea della cittadinanza all'intera penisola non avviasse un processo di parificazione provinciale, epperò di retrocessione del "giardin dell'imperio" al rango di provincia e al suo rapido inaridimento culturale. Furono "provinciali" e Seneca e Tacito (senza dimenticar Pompeo Trogo che all'imperiumsine fine contrapponeva, lui contemporaneo di Livio, la bipartizione del mondo).
In questa temperie di "romanità" il F. dettò e divulgò, massime come libro base come l'obbligato libro di testo per gli allievi della sua scuola patavina, L'Italia romana (Milano 1934), consapevole antitesi del magisterio storiografico e della disciplina filologica del De Sanctis. Questi, non senza qualche intima contraddizione, ben avvertita da E. Gabba, rispetto al suo antietruschismo e al suo unitarismo belochiano, aveva tradotto e accolto nella Rivista di filologia (n. s., IV [1926], pp. 1 ss.) la conferenza fiorentina di U. v. Wilamowitz (Storia italica): il quale, certo inconsapevolmente ricollegandosi alla storiografia risorgimentale italiana, affermava, di contro a Th. Mommsen e successori-, la necessità appunto di una storia "italica", cioè dei popoli italici, progressivamente assoggettati da Roma, che prima di Roma avevano usufruito della duplice lezione incivilitrice dei Greci (o Magnogreci) e degli Etruschi (e gli scavi archeologici, nonché i ritrovamenti punici e micenei nella penisola, per anni o secoli ben anteriori all'espansione conquistatrice di Roma, dovevano quindi fornirne la riprova documentale). A questa "storia italica" (e l'ipotesi storiografica dei Wilamowitz fu tosto sprezzantemente irrisa dall'ufficiale romanità littoria in una violenta diatriba di E. Romagnoli: vedi Pavan, pp. 263 s., e, per la polemica, M. Gigante, Classicismo e mediazione, Roma 1989, pp. 88 ss.) il F. contrapponeva una storia esclusivamente "romana", in quanto solo in virtù della conquista romana l'Italia assurgeva a "civiltà" ed unicamente sotto l'egemonia, o nella tradizione, di Roma l'Italia (classica e cristiana) era in grado di svolgere la sua missione di "civiltà". Donde, nella pagina più celebre del volume (Italia romana, p. 299) la solenne proclamazione emblematico-paradigmatica: "Anche" la storia più schiva dell'enfasi e più cauta nell'entusiasmo deve pure indursi a scrivere che Cesare fu il massimo dei Romani perché fu il primo degli italiani".
Questo presupposto e principio dell'italianità romana governa tutti, e sempre, gli scritti "romani" del F., di cui restano somma e sintesi i tre volumi (Roma 1942-48; 2 ediz., ibid. 1959) della Nuova storia di Roma, da Camillo a Traiano. Taceva, quindi, della "storia italica", nonché degli insediamenti magnogreci, e, soprattutto, micenei nella nostra penisola (donde un totale capovolgimento, a riconferma cronologica della tradizione annalistico-liviana, e dell'età regia e della conquista etrusca e, soprattutto, degl'ininterrotti rapporti col mondo ellenico e, in minor misura, col mondo punico); mentre la narrazione interrotta alle soglie del II secolo d.C. sottraeva il F., nonostante le acute pagine del III volume (2 ediz., pp. 675 ss.), all'obbligo d'un riesame del "rapporto" fra cristianesimo e impero, non accennato, in verità, né in margine alla persecuzione neroniana né in margine alla lettera di Plinio. Caratteristica di tale Storia è di non appartenere "ad alcuna" delle categorie storiografiche del Novecento: "non è romanzata, non è scolastica, non è per i dotti". Segue alquanto pedissequamente la tradizione, in ispecie Livio (non senza consapevolezza e sfiducia, talvolta, del F. medesimo: si veda, per esempio, I, 2 ediz., p., 111), sovente più parafrasato che interpretato (e così Tacito e Dione Cassio). Manca ogni riferimento bibliografico, ogni rinvio erudito e alle fonti, perché l'opera è attinta "direttamente alla splendida tradizione antica, che è classica, che è in supremo grado Italiana".
Accanto allo storico, e tuttavia commisto ancora con esso, maturava, infatti, il teologo, mentre più e più il F. compiacevasi di polire il suo stile, che, dannunziano nelle scritture giovanili, si faceva ora prettamente isocrateo. A stupefacente, invero, la ricchezza, in ogni sua pagina, delle assonanze e delle parisosi, degli omoteleuti e delle antitesi, con un'eleganza e un'abilità gorgiana sorprendenti. non fosse che per tal guisa la sua prosa veniva acquistando un carattere di eloquenza oratoria, che prelude all'ultima fase, prevalentemente politico-pratica, della sua esistenza.
Ricevuto il battesimo cristiano a dicembre del 1945 (figlio di genitori agnosticì, non era stato battezzato), nel darne tosto notizia al De Sanctis, avvertiva che nella sua biblioteca, o fra i suoi livres de chevet, libri di teologia, di metafisica e di filosofia religiosa sostituivano, ormai, e più e più avrebbero sostituito, i libri di storia. Invano gli rispondeva il maestro che anche i libri di storia sono libri di religione, in quanto rivelano gesta Dei per homines, e ribadiva la sua formula antica della progressiva attuazione del regno di Dio.
Invano, d'altronde, il F. pareva, o credeva di poter, appellarsi al Manzoni. A certo suo merito insigne l'aver fin dagli anni Venti riscoperto la fruttuosità degli scritti storici del Manzoni e l'averne promosso lo studio critico-storiografico, totalmente trascurato e dai "letterati" e dagli storici di professione. Ma il Manzoni, e in genere i neoguelfi a lui più vicini, come il Bonghi, rettamente (dal loro punto di vista) distinguevano fra storia "pagana" (cioè greco-romana anteriore all'incarnazione) e storia "cristiana" (o storia tout court); e non meno giustamente avvertivano l'inferiorità della "pagania", o, più veramente, il diverso ritmo dei divenire storico avanti e dopo la venuta dei Cristo, il diverso dramma dell'umanità, inconscia e successivamente consapevole delle proprie possibilità di resurrezione, epperò del proprio compito e dovere. Questa scissione fra i due nempi" della storia manca, invece, nel F., il quale perciò trasfigura su di un fondamento mistico o di fede l'animus medesimo degli antichi e fa di questi dei precursori.
Retrospettivamente può quasi apparire simbolico (il F. avrebbe forse detto: provvidenziale) che il battesimo cristiano e la nuova esistenza dello storiografo coincidano con l'inizio dell'arduo compito della ricostruzione post-bellica. A quest'opera il F. diede tutto se stesso nei venticinqu'anni successivi. Nel 1947 rettore dell'università di Padova (ma il suo nriennio" durò fino al 1949 soltanto per la chiamata a Roma). Il 18 apr. 1948 eletto, per il collegio di Padova, senatore indipendente nella lista democristiana, fu tosto presidente della Commissione scuola del Senato, con un'autorità ed un impegno che gli valsero unanime plauso, in ispecie dal comunista A. Banfi. Nel 1949, infine, per desiderio e designazione del De Sanctis (di cui il F. non aveva mai voluto occupare la cattedra, abbandonata il dicembre 1931 per rifiuto del giuramento fascista) il F. venne chiamato ad occupare la cattedra di storia romana all'università di Roma, che importava, de facto, la direzione dell'Istituto italiano per la storia antica e la cura delle pubblicazioni dell'Istituto medesimo (al quale si affiancò, in collaborazione con S. Accame e con altri, la pubblicazione degli Scritti minori di G. De Sanctis). La conversione, Roma e il Senato (in cui nel 1950 entrò il De Sanctis medesimo, nominato senatore a vita nel suo ottantesimo genetliaco) e la comune partecipazione ai lavori della Commissione scuola li ravvicinarono, riconciliarono maestro e discepolo, al quale De Sanctis è probabile perdonasse, dopo il primo fierissimo risentimento, la non equa ma acutissima e davvero memorabile, recensione (1940) alla Storia dei Greci (Scritti di filos. della storia, pp. 385 ss.).
Né frattanto sfuggivano, al F. (e al De Sanctis), nella problematica della ricostruzione italiana, i problemi della politica estera. Entrambi, né solo per solidarietà con De Gasperi, furono da sempre "atlantisti". Nel Patto atlantico, tosto slargatosi, come il F. osservava, a "comunità atlantica", dunque a scelta di civiltà, il F. vide l'unica struttura in cui potesse inserirsi l'Italia, senza timori per l'avvenire, e sottraendosi, invece, ai timori correlativi dello stalinismo e del neutralismo. La Comunità atlantica. e l'appartenenza ad essa dell'Europa occidentale o liberale, favoriva, per l'Italia e per l'Europa, l'unità, di cui il F. fu promotore, oratore e paladino in ogni sua dichiarazione politica, o storico-politica, massime allor quando salì nel '56 alla presidenza della Società "Dante Alighieri".
Nel 1954 il F. era succeduto al De Sanctis nella presidenza dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Come ai problemi della cultura (né solo perché presidente dell'Enciclopedia e della "Dante"), così fu attentissimo il F. ai problemi della scuola, forse troppo sperando dall'opera del ministro G. Gonella, suo ex allievo in Padova. Perfettamente consapevole delle aporie della scuola italiana, ben prima del 1968, affermò, peraltro, in Senato che la riforma della scuola, e media e universitaria, presupponeva una riforma dell'uomo. Ma scuole, università ed accademie, il F. sempre vide quali officine liberamente operose di ricerca scientifica, e sempre distinte fra scuola avviamento e fondamento della ricerca scientifica e scuola avviamento al mercato del lavoro, facile dispensatrice di lauree sempre più deprezzate e sempre meno conformi alle esigenze d'una società moderna di tecnici e dirigenti.
Non a quest'ultima, si ad una società materiata di alta cultura, epperò veramente culta e civile, mirò il F., quando propose al Senato, di concerto coi senatore a vita G. Castelnuovo, allora presidente dell'Accademia dei Lincei (e la proposta fu acclamata dall'apposita commissione e dall'intera assemblea) l'istituzione del Catalogo unico delle biblioteche italiane. Non per nulla il discorso di commiato (1962) dalla cattedra universitaria volle s'intitolasse: Ilmio umanesimo (in Pagine italiane, pp. 139 ss.).
Ultimo dei suoi scritti fu un libro ispiratogli "dai poeti e dai santi", un libro di poesia e di teologia, Misticamente (Verona 1972).
Il F. morì a Roma il 30 ott. 1972.
La lunga presidenza di Aldo Ferrabino - dal giugno 1954 all'ottobre '72 - ha rappresentato per l'Enciclopedia Italiana una fase organica di sviluppo, di ancor più largo prestigio, di saldo radicamento nella cultura del Paese. La ristampa della grande Enciclopedia corredata di una seconda Appendice, nel '49, per iniziativa di Gaetano De Sanctis presidente e di Domenico Bartolini direttore generale dell'Istituto, era stato il segnale sagace e coraggioso della rinascita, intorno all'opera insigne degli anni Trenta, rivendicata nella sua originalità e oggettività. Il F. presidente esordì con l'uscita, nel 1955, del Dizionario enciclopedico italiano, in elaborazione dalla fine degli anni Trenta, per passare a due opere, l'Enciclopedia dell'arte antica, cominciata nel '58, e il presente Dizionario biografico degli Italiani, uscito nel '60 con il primo volume. La scelta dei due direttori, caduta su persone circondate dalla stima unanime, ma di opposto orientamento ideologico - marxista l'archeologo R. Bianchi Bandinelli, liberale lo storico A. M. Ghisalberti -, mostrò nel F. la volontà di continuare, in anni di acceso dibattito politico, la tradizione di apertura intellettuale inaugurata da Giovanni Gentile e ribadita dal De Sanctis. Fu questo clima di consenso dialettico a permettere il superamento di una seria crisi che precedette l'uscita del Biografico, con le dimissioni di Fortunato Pintor e Arsenio Frugoni dalla direzione dell'opera: la nuova linea programmatica, che contemperava storiografia ed erudizione, nel Consiglio scientifico dell'Istituto trovò concordi con il F. Chabod e Luigi Salvatorelli. Gli anni Sessanta videro manifestarsi, con la piena fiducia del presidente, la creatività e la competenza di Umberto Bosco e Mario Niccoli - quest'ultimo morto prematuramente nel '64 -, affiancati da provetti collaboratori. In tal modo poté pubblicarsi nel '61 una terza Appendice (1949-1960) alla grande Enciclopedia, mentre nel '68 fu avviata la vasta impresa editoriale del Lessico Universale Italiano:conservando l'impianto informativo dei Dizionario, l'opera avrebbe riattivato l'ambizione culturale dell'Enciclopedia gentiliana. Nel '70 ebbe inizio la pubblicazione dell'EnciclopediaDantesca, con Bosco direttore e condirettori Giorgio Petrocchi e Ignazio Baldelli, concepita nel quadro delle iniziative per il settimo centenario della nascita di Dante. Ma fu nella progettazione dell'Enciclopedia del Novecento come lessico dei massimi problemi che la presidenza F. raggiunse la sua più elevata finalità: quella di conferire all'Istituto un ruolo peculiare, di sintesi concettuale e interdisciplinare, nell'elaborazione della cultura. Memorie propositive di Vincenzo Cappelletti e Tullio Gregory delinearono una prospettiva, che il F. felicemente definì dei "massimi problemi" emergenti della cultura contemporanea. Ancora una volta furono coinvolti nell'iniziativa studiosi di alto prestigio e di orientamento ideologico diverso, scienziati e umanisti: Gilberto Bernardini, Arnaldo Maria Angelini, Sabatino Moscati, Giuseppe Montalenti, Giuseppe Moruzzi, Giovanni Pugliese Carratelli, Luigi Radicati di Brozolo, Rosario Romeo. Il F. non avrebbe visto l'uscita dell'opera, nel 1975: coronamento postumo di una fase evolutiva, sulla quale poté appoggiarsi nei successivi due decenni la nascita del "laboratorio accademico", che egli aveva preconizzato con sagace intuizione.
V. Cappelletti
Fonti e Bibl.: Il catalogo degli scritti del F. si veda in appendice alla sotto citata commemorazione di F. Sartori (donde mancano, deliberatamente, le recensioni). Altro, ovviamente meno completo, in appendice agli Scritti di filosofia della storia, Firenze 1962, pp. 795 ss. Fra le commemorazioni accademiche, si veda F. Sartori, A. F., Padova 1973 (e in Ann. dell'Univ. di Padova, 1972-73, pp. 1175-1202); A. Maddalena, in Atti dell'Ist. veneto ... CXXXV (1972-73), parte speciale, pp. 43-49; S. Accame, A. F., Roma 1974 e in Accad. e bibl. d'Italia, XI, (1972), pp. 405-410, (qui i frammenti del carteggio F.-De Sanctis cui si accenna nel testo); S. Mazzarino, A. F., in Celebr. e comm. dell'Accad. naz. dei Lincei, CVI, Roma 1977. Singolarmente importanti, mancando una trattazione biografico-critica unitaria (si veda, tuttavia, l'articolo di E. Bacchion, La "metastoria" nel concetto storiografico di A. F., in Nuova Riv. stor., XXVI[1942], pp. 42-59, e M. Pavan, A. F. storico dell'Antichità classica, in Riv. difilol., CI[1973], pp. 259-265), gli scritti polemici di B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1948, pp. 316-318; Id., Storia della storiografia italiana nel sec. XIX, II, Bari 1947, pp. 247-249; Id., Pagine sparse, III, Bari 1960, pp. 222 s.; G. De Sanctis, Scritti minori, IV, Roma 1972, pp. 269 ss. (contro l'interpretazione ferrabiniana della pace di Nicia); VI, 1, ibid. 1972, pp. 439-455 (la stroncatura della Dissoluzione della libertà);A. Omodeo, In difesa della cultura, Napoli 1944, pp. 159 ss.; Id., Ilsenso della storia, Torino 1955, pp. 28, 44, 405. Si veda, inoltre, A. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, pp. 289 s., 301 ss.; Enciclopedia Italiana, Appendice I, p. 583; Appendice III, pp. 599 s. Sul rapport F.-Momigliano, vedi C. Dionisotti, Ricordo di A. Momigliano, Bologna 1989, pp. 84, 88 s.
P. Treves