Alcolismo
Molti frutti contengono dei succhi la cui fermentazione costituisce un fenomeno naturale: gli idrati di carbonio in essi presenti si trasformano, sotto l'azione di un enzima contenuto in un microrganismo, in alcol etilico. Una noce di cocco lasciata aperta sulla spiaggia fermenta in poco tempo.Ignoriamo in quale momento della sua storia l'uomo abbia scoperto le proprietà del liquido così formato, ma in ogni caso ha imparato molto rapidamente a riprodurre questo fenomeno schiacciando i frutti, pestando i chicchi di alcuni cereali o certe radici. Tutti i popoli del mondo hanno cominciato quindi assai presto a festeggiare i matrimoni e le nascite, a esaltare le loro vittorie o a piangere le loro sconfitte con cerimonie in cui una bevanda alcolica bevuta in comune stimolava la gioia e il pianto fino all'ubriachezza. L'Estremo Oriente ha fatto fermentare il riso, la Mesopotamia ha prodotto con l'orzo una birra che veniva venduta in locali sottoposti da Hammurabi a rigidi regolamenti.Il mondo mediterraneo ha imparato dal 1000 a.C. a produrre il vino con le uve. La Grecia antica ha divinizzato Dioniso, chiamato anche Bacco, il quale le avrebbe insegnato quest'arte. Dioniso divenne il dio della gioia, dell'esuberanza, della danza in comune, dell'ebbrezza che trasforma l'uomo, abbellisce la sua vita e fa di lui un eroe; Apollo, al contrario, personificava la riflessione, l'intelligenza, la sensibilità sottomessa al ragionamento, che guida la creazione artistica. Nell'uomo vive il dualismo Apollo-Dioniso.
Tutti i banchetti conviviali erano accompagnati in Grecia da abbondanti libagioni e i discorsi che vi si svolgevano non avevano tutti l'alto valore filosofico del Simposio di Platone. Anche i soldati bevevano abbondantemente; Filippo il Macedone era solito festeggiare le proprie vittorie con bevute insieme ai suoi compagni, mentre sua moglie, sacerdotessa di Bacco, partecipava alle cerimonie del culto: non ci si può quindi stupire se il loro figlio, Alessandro Magno, il quale si ubriacava dopo ogni vittoria, presentava alcuni sintomi medici evidenti di alcolismo, quando morì di malaria a Babilonia nel 323 a.C.
Anche a Roma si beveva molto, sia durante la Repubblica che durante l'Impero; negli annali non mancano imperatori e generali ubriachi. Gli esempi forniti dalle cronache scandalistiche non devono però trarci in inganno: esse concernono solo personaggi noti, militari o statisti, ma non dicono quali fossero le abitudini popolari; verosimilmente i poveri dovevano accontentarsi dell'acqua e l'ubriachezza era loro permessa soltanto in occasione di feste e cerimonie.
Si sa invece che tutti i popoli consumavano bevande fermentate: i Galli erano noti per la cervogia, i Germani diffusero con le invasioni la birra in tutta Europa, mentre, allo stesso tempo, scoprivano le delizie del vino.I Romani furono i grandi diffusori della coltura della vite: la trapiantarono nei Balcani, nell'Africa settentrionale, in Gallia e perfino al nord, lungo il Reno e la Mosella, e nell'attuale Inghilterra.
L'Alto Medioevo è caratterizzato da questo straordinario sviluppo; tutti i proprietari terrieri volevano possedere una vigna e l'esempio veniva dalla Chiesa. Ogni convento, ogni proprietà ecclesiastica aveva grandi vigneti e si può dire che la coltura della vite seguisse da vicino l'espansione del cristianesimo. Il fabbisogno per l'eucarestia non giustifica da solo questo interesse della Chiesa per le vigne: in realtà questa coltura dava una buona rendita e arricchiva facilmente, in quanto il vino restava un prodotto costoso, riservato a una clientela facoltosa.
Nel XIII secolo, attraverso l'alchimia araba, l'Europa scopre l'alcol ottenuto attraverso la distillazione delle bevande fermentate. Questo prodotto incolore, che assomiglia all'acqua, capace di ridare la gioia ai tristi e le energie agli stanchi, fu dapprima considerato come un medicinale e chiamato acquavite.Dalla cerchia dei chimici e dei farmacisti passò poi in quella della gente comune, e ogni paese ebbe quindi la propria bevanda favorita prodotta a partire dal vino, dalla birra o dai diversi frutti europei; l'acquavite era chiamata, a seconda dei diversi paesi, cognac, grappa, schnaps, aquavit, whisky, vodka, gin, bränntwein (vino brulé trasformato in brandy). La scoperta dell'America, nel 1492, portò in qualche decennio a coltivare la canna da zucchero su immense distese e con una manodopera di colore a buon mercato, cosicché le colonie del XVII secolo fornirono le loro metropoli di melassa e rum. L'espansione delle relazioni commerciali in tutto il globo terrestre, nel corso del XVIII secolo, facilitò il commercio delle bevande alcoliche e nessun governo resistette alla tentazione di gravare questi prodotti con tasse sempre crescenti. All'interno delle proprie frontiere, le autorità organizzarono l'imposizione fiscale per ciascun barile di vino o di birra, sia a partire dalla produzione, sia poi per la circolazione, con dazi riscossi all'ingresso delle città, sia infine per la vendita al dettaglio, con una sorveglianza meticolosa dei locali appositi, la cui diffusione era incoraggiata. Alle frontiere le dogane sorvegliavano l'entrata delle bevande straniere, o gravandole di imposte con il protezionismo, allo scopo di favorire le bevande del posto, o favorendone l'importazione per aumentare gli introiti.
Questo comportamento delle amministrazioni pubbliche era originato da un atteggiamento che si può osservare ancora oggi dopo tre secoli: anche se esse ritengono l'abuso di bevande alcoliche dannoso alla popolazione, non sanno però resistere alla tentazione di guadagnare sul commercio di queste bevande.
L'introduzione sul territorio nazionale di bevande inebrianti venute da fuori dimostra l''ostilità' dello straniero, perché l''ubriaco' è sempre l'altro, il paese vicino o la classe sociale diversa: questo atteggiamento è universale e destinato a durare ancora per molto tempo. Infine, con la presa di coscienza acquistata progressivamente dall'Europa dei pericoli insiti nelle bevande alcoliche, si mettevano sotto accusa le bevande distillate piuttosto che le altre, cosiddette 'igieniche': vino e birra erano ritenuti bevande il cui consumo può solo essere benefico; sarà necessario attendere l'inizio del XX secolo per veder abbandonata questa idea errata.
L'aumento del consumo delle bevande alcoliche nel XVIII secolo, sia in Europa che nella nascente America, moltiplicò i casi di ubriachezza in pubblico e, a poco a poco, il vizio del bere cessò d'interessare unicamente la salute degli individui e la pace familiare per divenire un problema più grave, una minaccia per la società, a cui furono addebitati i furti e i crimini, la dissoluzione dei costumi e la rovina delle famiglie. Proprio per questo la lotta contro l'ubriachezza divenne uno dei temi di predicazione nelle chiese, ma è importante rilevare che essa venne affrontata prima nelle confessioni protestanti, in particolare con l'inizio dell'azione di John Wesley e dei metodisti nel XVIII secolo. A partire da questo periodo s'intensificò tra i protestanti la lotta contro i bevitori e contro i tavernieri che spingevano la gente a bere, mentre il clero cattolico cominciò a seguire moderatamente questa strada soltanto qualche decennio più tardi. La spiegazione di questa differenza di atteggiamento non deve essere ricercata nella geografia della vite, in quanto anche alcuni protestanti la coltivavano, ma piuttosto in una opposta concezione della gioia e del peccato. Poiché il bere è un piacere, deve essere bandito allo stesso titolo del gioco o della danza: rappresenta un'offesa a Dio. Il cattolicesimo è invece più indulgente e anche se l'intemperanza e la gola costituiscono dei peccati capitali, è stato necessario attendere la fine del XIX secolo perché, per esempio, in Francia i preti facessero dell'ubriachezza un argomento di predica. Sotto l'influenza dei medici, poi, l'ubriachezza non costituì più solo un vizio da bandire per ragioni morali, ma divenne anche causa di malattie e soprattutto di disturbi mentali. Negli Stati Uniti, all'indomani della conquista dell'indipendenza, il dottor Benjamin Rush, che era stato un eroe di questa lotta, durante gli anni intorno al 1790 fondò la psichiatria. Forte della sua autorità, egli diffuse l'idea che numerosi disturbi mentali fossero dovuti all'abuso di bevande forti e che i bevitori incalliti dovessero essere sottoposti a trattamenti idonei in istituti specializzati. In Inghilterra il dottor Trotter difendeva le stesse idee, al punto che all'inizio del XIX secolo, almeno nei paesi anglosassoni, si cominciò a considerare gli intemperanti non esattamente dei viziosi. Per venire loro in aiuto, alcuni benefattori si associarono allo scopo di sovvenzionare delle case di cura e di sostenere una propaganda contro gli alcolici. Prima negli Stati Uniti e poi in Gran Bretagna vennero fondate delle 'leghe della temperanza': alcune ebbero vita breve, altre hanno continuato a sopravvivere fino ai nostri giorni, tra cambiamenti di nome, delle modalità di reclutamento e dei metodi. L'aiuto ai bevitori si rivelava tanto più necessario in quanto questi sembravano provenire quasi soltanto dalle classi più povere della società. L'industrializzazione nascente dell'Europa aveva riunito attorno alle miniere, alle acciaierie e alle filande una popolazione operaia male alloggiata, poco pagata, insufficientemente nutrita, che soffriva per l'ignoranza, la sporcizia e la promiscuità. Era in questi ambienti sfortunati che i medici trovavano la maggior parte dei loro malati, e per molto tempo si dovette constatare che tra miseria e ubriachezza si creavano sinistri rapporti reciproci.
Preti, medici, statisti vedevano moltiplicarsi intorno a loro i danni dell'intemperanza e riservavano ai bevitori considerazioni diverse, quando fu pubblicato, nel 1849 in svedese e nel 1851 in tedesco, lo studio di Magnus Huss, medico in un grande ospedale di Stoccolma. Coniando l'espressione "alcolismo cronico", egli faceva rientrare il fenomeno dell'ubriachezza nel campo della medicina, considerandola come una delle forme conosciute di intossicazione, per esempio come il saturnismo dovuto al piombo o l'ergotismo causato dallo sclerozio di un parassita della segale.
Huss distinse con precisione tra l'ubriachezza acuta, così diffusa il sabato sera tra i contadini e i minatori svedesi, raramente mortale e quasi sempre benigna, e la malattia cronica dovuta al bere continuato e all'assorbimento costante di bevande forti. Le osservazioni in ospedale gli permisero di collegare l'alcol a manifestazioni cliniche già descritte prima di lui, ma non collegate alla loro causa effettiva, appunto l'alcol: il delirium tremens, le cirrosi epatiche accompagnate spesso da ipertrofia della milza - così ben descritte da R. Laënnec, che non aveva però saputo spiegarle -, alcuni disturbi nervosi degli arti, ecc. 'Inventando' il concetto di alcolismo in un momento in cui la medicina sperimentale faceva grandi passi verso l'identificazione e la classificazione delle malattie attraverso il raggruppamento dei loro sintomi, Huss trasformò l'atteggiamento della società e dei medici nei confronti degli alcolisti. Da viziosi essi diventarono dei malati, degni di compassione e bisognosi di essere curati come gli altri malati.
Lo studio di Huss fu rapidamente conosciuto e apprezzato in tutta Europa e l'' 'alcolismo ' divenne oggetto di preoccupazione per i medici, i moralisti e i governanti. Fatto curioso: il termine fu adottato negli Stati Uniti soltanto mezzo secolo più tardi.Sfortunatamente l'ubriachezza non passò di colpo dal rango di oggetto di riprovazione morale a quello di malattia, poiché nella stessa epoca un'altra nozione si diffuse nel mondo occidentale, quella di 'degenerazione'. L'alienista francese B.-A. Morel propose questo concetto in un libro pubblicato nel 1857: egli non dava mai una definizione precisa del degenerato, ma considerava tali tutte le persone che, in una società, hanno un comportamento mentale o sociale, o un aspetto fisico, al di fuori della norma di questa società.
Da allora il mondo occidentale ha scoperto degenerati ovunque: i malati mentali gravi come le persone con piccole nevrosi, i cerebrolesi, i criminali e i balbuzienti, come pure i portatori di anomalie fisiche anche minime: fronte bassa, lobo dell'orecchio attaccato, polidattilia, erano tutti segni inequivocabili di degenerazione; naturalmente gli alcolisti appartenevano a questo gruppo di infelici.
Questa teoria non si limitava a classificare determinate persone, ma consentiva anche una previsione, in quanto affermava che i degenerati avevano spesso genitori e figli degenerati: pertanto l'alcolismo era ereditario e l'alcolista nato da genitori alcolisti avrebbe messo al mondo figli degenerati. Questa dottrina pessimistica era accompagnata anche da considerazioni di carattere sociale.
Il degenerato non soltanto era sfavorito per un capriccio della natura, per la sua eredità o per i suoi vizi, ma con il suo comportamento era altresì una minaccia per la società. L'alcolista diventava inevitabilmente un criminale: a causa delle sue sregolatezze rovinava la propria famiglia, dava ai figli un esempio deplorevole e si rivelava inadatto ad allevarli, nutrirli, vestirli decentemente, oppure non esitava ad abbandonarli; cedendo alle inclinazioni più disdicevoli egli attentava in ogni momento ai buoni costumi. Incapace di disciplina si ribellava contro l'ordine stabilito, non ammetteva l'autorità dei suoi superiori naturali, capisquadra, padroni, ufficiali: l'alcolismo era responsabile della pigrizia, degli scioperi, delle rivolte, delle guerre civili, delle disfatte militari. Nella maggior parte dei paesi occidentali vennero attribuite alla degenerazione e all'alcolismo degli operai e dei soldati le traversie economiche di imprese la cui gestione era stata avventurosa: per esempio, la disfatta di alcuni reggimenti durante la guerra civile negli Stati Uniti, la tragedia francese della Comune, la sconfitta dei Russi in Estremo Oriente nel 1905. I degenerati alcolisti, inoltre, trasmettendo la loro tara ai figli, costituivano anche una minaccia per la purezza della razza. Per questo motivo paesi d'immigrazione, come il Canada e gli Stati Uniti, presero provvedimenti per impedirne l'ingresso attraverso una severa selezione: gli ubriaconi non costituivano una buona manodopera e curarli comportava delle spese per la comunità. D'altra parte gli alcolisti erano oggetto in Europa di due rimproveri di segno opposto: secondo alcuni la loro intemperanza in tutti i campi li induceva a fare troppi figli di 'cattiva qualità', secondo altri la disgregazione della famiglia faceva diminuire il numero dei figli e l'alcol minacciava quindi la crescita demografica della nazione. Questo elemento di minaccia alla vita della patria venne particolarmente utilizzato in Francia tra la guerra del 1870 e quella del 1914-1918, in quanto la natalità francese era effettivamente inferiore a quella della Germania.
Alle disgrazie morali e sociali attribuite all'alcolismo i medici aggiunsero ancora, soprattutto tra il 1870 e il 1930, una lunga lista di malattie. Hanot e Gilbert esaminarono in dettaglio i diversi danni epatici legati a un consumo eccessivo di alcolici; S. Korsakov descrisse dei particolari disturbi della memoria collegati a debolezze del sistema nervoso degli arti nell'alcolismo cronico; É. Lancereaux scoprì un'elevata percentuale di ipertesi tra i bevitori abituali di oltre quarant'anni; gli alienisti trovarono una notevole percentuale di alcolisti tra i loro ricoverati, in quanto l'alcol risultava responsabile di un quarto degli internamenti. La medicina credette anche di individuare una pericolosa associazione tra alcolismo e tubercolosi. Alla fine del XIX secolo vi era in Europa una vera epidemia di questa malattia contagiosa e si riteneva che gli alcolisti, denutriti e predisposti al contagio, fossero delle vittime designate per il bacillo di Koch, che era stato da poco scoperto. Nei sanatori, che si continuarono a costruire fino alla metà del XX secolo, i medici constatavano che gli alcolisti, malati capricciosi, si curavano male e che le loro lesioni non rispondevano alle terapie abituali. Medicina e morale si associarono per denunciare una triste realtà sociale: gli alcolisti popolavano gli ospedali perché erano malati e poveri, alcolismo e miseria si legavano reciprocamente in un circolo vizioso al quale le classi inferiori, che venivano definite 'pericolose', non potevano sfuggire. Tanto meglio si comprendono quindi le preoccupazioni, che si manifestavano in modi diversi, per il fatto che gli ultimi decenni del XIX secolo furono periodi di notevole consumo di bevande alcoliche in tutto il mondo occidentale. In Francia lo sviluppo della rete ferroviaria permise la vendita del vino in regioni che prima non lo conoscevano. Due malattie parassitarie della vite fecero diminuire per alcuni anni la produzione dei vigneti; di conseguenza si accrebbe il consumo delle acquaviti, ma quando i raccolti d'uva tornarono al livello precedente le grappe e i cognac non videro diminuire il loro successo, cosicché le bevande distillate si aggiunsero a quelle fermentate. Nell'Europa centrale alcune innovazioni nella fabbricazione della birra permisero lo sviluppo delle birrerie industriali. Gli immigrati tedeschi installarono degli impianti in varie zone degli Stati Uniti, fornendo una nuova bevanda ai pionieri dell'Ovest, mentre il dissodamento avanzava parallelamente alle ferrovie e grazie al whisky. In Africa e in Asia la colonizzazione francese, inglese, tedesca e olandese diffuse in nuovi paesi le bevande alcoliche europee, che vennero ad aggiungersi a quelle prodotte dagli indigeni. Le stime retrospettive fanno ritenere che in quest'epoca, a parità di popolazione, l'alcolizzazione del mondo fosse superiore a quella di cent'anni dopo.
Nessuno era indifferente a questi fenomeni sociali ed economici e gli uomini di buona volontà, giustamente preoccupati, si unirono per lottare contro l'alcolismo; sulla scia delle iniziative avviate negli Stati Uniti all'inizio del XIX secolo si moltiplicarono le società per la temperanza, e ancora una volta l'esempio venne dai paesi protestanti. Questa battaglia ebbe la maggior portata sociale e politica nell'America settentrionale; dopo la guerra civile, nel 1874, venne fondata un'importante società femminile, la Woman's Christian Temperance Union (WCTU), che per circa cinquant'anni concentrò la sua azione sui locali dove si smerciavano alcolici. Fin dai suoi inizi, appoggiata dalla moglie del presidente degli Stati Uniti, la WCTU cominciò a denunciare, con articoli sui giornali e con prediche in chiesa, le mescite come luoghi di perdizione e di dissolutezza, un rifugio del diavolo. Le donne pregavano in coro inginocchiate nel fango di fronte ai bar, con la Bibbia in mano. Alla fine del secolo, mentre il loro ardore non si placava, si videro gruppi di madri di famiglia arrivare al saccheggio dei locali dove si bevevano alcolici. Nel 1890 un pastore metodista lanciò una Antisaloon League, dagli scopi chiaramente enunciati; un propagandista politico girava per gli Stati Uniti facendo propaganda per i candidati (poco importava se fossero democratici o repubblicani) che manifestavano la volontà di lottare contro l'alcol.
L'idea di una proibizione totale delle bevande alcoliche cominciò lentamente a farsi strada, senza però ottenere larghi consensi da parte della popolazione; la 'conquista' eroica dei territori dell'Ovest proseguiva in un clima di lotte e di scontri nelle nuove città prive di donne, per cui la birra e il whisky sembravano inevitabili. I due grandi partiti che si alternavano al potere non optarono mai per una proibizione radicale e i medici americani erano in maggioranza contrari a una misura di questo tipo. Numerosi Stati dell'Unione, tuttavia, all'inizio del XX secolo si pronunciarono per un regime 'secco', imitati da molte province del Canada; l'entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917 diede all'antialcolismo un fervore patriottico, cosicché nel 1919, durante la presidenza Wilson, fu votato un emendamento alla Costituzione che proibiva la fabbricazione, il commercio e l'importazione di bevande con una gradazione superiore ai cinque gradi di alcol etilico. Per alcuni anni questa proibizione ebbe effetti benefici: venne registrata una diminuzione dei consumi e delle malattie legate all'alcol. Anche le leghe come la WCTU persero adesioni, mentre lo zelo dei militanti si spegneva. Poi le abitudini ripresero il sopravvento: venne organizzato il contrabbando attraverso le frontiere e si cominciò a distillare nelle fattorie. Per soddisfare la domanda proveniente da tutti gli ambienti sociali si stabilirono delle connivenze con le dogane, le forze di polizia, le amministrazioni, determinando corruzione, prevaricazioni, criminalità. Ben presto venne creata una Lega antiproibizionista, che nel 1933, sotto la presidenza di F. D. Roosevelt, ottenne la cancellazione del provvedimento. Gli Stati ebbero quindi la possibilità di adottare regolamentazioni di tipo diverso, più o meno 'secche' o 'bagnate'. Le province del Canada hanno oggi forme di regolamentazione simili.
La Svezia adottò un sistema diverso: cominciò con l'affidare allo Stato il monopolio della fabbricazione e dell'importazione delle bevande alcoliche; poi, per evitare che singoli privati potessero trarre guadagni dalla vendita di un veleno, in alcune città vennero fondate delle società per azioni che rilevarono tutti i bar, con l'impegno di dedicare i guadagni a iniziative di carattere comunitario: costruzione di fontane pubbliche, sviluppo delle biblioteche, riabilitazione degli alcolisti, ecc. Questo sistema, detto 'di Göteborg', si sviluppò rapidamente alla fine del XIX secolo in Svezia e Norvegia, allora unite. Anche alcune città inglesi tentarono questa strada, ma poi dovettero rinunciare.La gestione delle società si rivelò difficoltosa e alcuni scandali le screditarono al punto che tra le due guerre il paese scelse un'altra formula, detta 'di Bratt' dal nome del suo promotore. A ogni abitante venne fornito un libretto sul quale il venditore di bevande, che operava per conto di un ente nazionalizzato, registrava gli acquisti effettuati. Inoltre la vendita era razionata: gli uomini sposati avevano diritto a una determinata quantità mensile di alcol, gli scapoli e le donne nubili a una quantità inferiore, mentre le donne sposate non avevano diritto di acquistare alcolici. Questa regolamentazione andò avanti per alcuni decenni, ma risultò ben presto insopportabile ai cittadini: il venditore esercitava un vero e proprio controllo poliziesco sui suoi clienti, registrando i consumi degli ex carcerati, dei funzionari, degli astemi dichiarati, ecc. Nel 1955 il paese adottò quindi un sistema di distribuzione più liberale.I due esempi svedesi dimostrano che né la proibizione totale, né il razionamento individuale sono sistemi di facile gestione o accettati dalla popolazione. In ogni caso, con l'eccezione del Belgio, nessun grande paese europeo ha osato intraprendere soluzioni di questo tipo.
In Russia lo zar Nicola II fece dapprima aumentare considerevolmente il prezzo della vodka nella speranza di vederne diminuire il consumo, ma dopo il 1905 la Duma si sollevò contro questa misura e ne ottenne l'annullamento, oltre al licenziamento del ministro che l'aveva promulgata. Nei villaggi i pope si rifiutavano di fare prediche contro gli alcolici, a causa della loro stessa inclinazione al bere. In piena guerra mondiale Nicola II ritenne opportuno proibire la vendita di vodka sul territorio dell'impero; con il risultato di non essere obbedito. Neppure Lenin ebbe più successo quando volle proibire l'ingresso nel Partito comunista ai bevitori incalliti.
Poiché si riteneva che l'alcolismo fosse diffuso soprattutto tra le classi inferiori, proprio a queste si rivolse in primo luogo l'attenzione delle società di temperanza, le quali diffusero la loro propaganda nelle scuole, con libri e manifesti, e tra le reclute. I successi, però, furono limitati.Intanto, in alcuni ambienti professionali si cominciavano a creare delle associazioni di lavoratori: tra i metallurgici, nelle poste, nelle ferrovie, tra gli insegnanti, ecc. Questo fenomeno si registrava soprattutto nei paesi europei, dove la grande industria veniva creando le maggiori concentrazioni operaie: Germania, Francia, Gran Bretagna. Poiché il sindacalismo si sviluppava contemporaneamente alla creazione dei partiti d'ideologia socialista, il dibattito sull'antialcolismo cominciò ben presto a coinvolgere i loro dirigenti; in nessun paese venne raggiunta l'unanimità di posizioni su questo punto, con l'eccezione della Svezia, dove il Partito socialdemocratico predicava esplicitamente l'astinenza, al punto che essa divenne condizione indispensabile per accedere alle cariche politiche o sindacali. In Germania il Partito socialdemocratico s'interessò alla temperanza nella misura in cui essa si rivelava in grado di far diminuire il numero e la gravità degli incidenti sul lavoro, ma promosse anche scioperi e manifestazioni quando il padronato decise di aumentare il prezzo della birra e dello schnaps. In Francia un largo dibattito sull'antialcolismo, promosso dal Partito socialista, fu ben accolto da alcuni, ma fu considerato da altri una vergognosa diversione escogitata dai datori di lavoro per contrastare la lotta per migliori condizioni di lavoro e spegnere l'ardore rivoluzionario dei militanti. Di fronte a divergenze così gravi il partito decise di abbandonare questo terreno.
La grande guerra del 1914-1918 rilanciò il tema del vigore delle nazioni; l'igienismo caro ai medici balzò ai primi posti nelle preoccupazioni dei governi europei, i quali fecero diminuire il numero delle mescite: il Belgio adottò un sistema proibizionista, la Francia limitò la gradazione delle bevande alcoliche e proibì i liquori a base di essenze vegetali, come l'assenzio. Tornata la pace, questa volontà venne meno.
Durante il periodo compreso tra le due guerre vennero riaperti i locali per lo smercio degli alcolici e venne nuovamente autorizzata la vendita dell'anisetta. In tutti i paesi europei diminuì lo zelo delle società di temperanza e i medici cominciarono a parlare con minore frequenza delle malattie legate al consumo degli alcolici; nessun governo adottò misure coerenti nel quadro di precise scelte politiche.
La metà del XX secolo diede all'alcolismo un nuovo volto, che si rivelò molto più complesso di quanto si credesse fino a quel momento. L'eccessivo consumo di bevande alcoliche risultava da cause - e aveva effetti - di ordine così diverso (psicologico, sociale, culturale, medico, politico) che non poteva più essere lasciato a leghe di persone di buona volontà o a medici che si interessavano soprattutto agli aspetti patologici. Si ammise anche che il concetto di degenerazione, su cui si erano costruite delle teorie mediche e sociali, non aveva in realtà alcun supporto scientifico: in pochi anni il termine scomparve dall'uso. Allo stesso tempo si diffuse la nozione di 'alcologia': questa disciplina si occupa di tutto ciò che concerne il rapporto tra l'uomo e l'etanolo (la produzione, la conservazione, la distribuzione, il consumo) e di tutte le implicazioni dell''alcolizzazione', sia sul piano collettivo e sociale che individuale. 'Alcologia' è un termine che esprime bene la complessità dei fenomeni in discussione e che dovrebbe quindi imporsi, anche per la sua facilità di traduzione in tutte le lingue.
Anche se sembrava che tra le due guerre mondiali il mondo medico avesse allentato la propria attenzione nei confronti dell'alcolismo, in realtà non aveva mai cessato di occuparsene, e riprese la sua azione in favore degli alcolisti dopo che i paesi occidentali ebbero avviato la propria ricostruzione e che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ebbe cominciato i propri lavori.
Uno degli esperti americani del settore, E. M. Jellinek, pubblicò diversi lavori per fissare alcune distinzioni cliniche tra gli alcolisti, secondo le cause e le circostanze che li spingono a bere in eccesso e secondo le conseguenze che l'alcolizzazione ha sul loro organismo e sull'ambiente nel quale vivono. P. Fouquet, in Francia, propose a sua volta delle categorie che s'accordavano meglio con i casi che aveva in cura. Queste classificazioni, tuttora utilizzate, hanno le loro carenze: non esauriscono la totalità dei casi clinici, data la loro varietà, e inoltre certi alcolisti possono appartenere contemporaneamente a due classi diverse o passare dall'una all'altra, durante la loro vita, a seconda delle loro abitudini. Tali categorie sono tuttavia necessarie, in quanto fanno un po' di chiarezza nel mondo troppo semplicistico dell'alcolismo, ricordando ai clinici che il malato alcolista non è come il malato colpito da infezione, che può essere guarito da un antibiotico, ma deve essere esaminato nel quadro complessivo della sua personalità fisica, mentale e sociale.
Alcuni consumano alcolici in eccesso perché condizionati dal loro ambiente; altri bevono soltanto in alcune occasioni sociali; altri ancora sono effettivamente schiavi dell'etanolo e pronti a ingerire qualsiasi liquido che ne contenga: questo concetto di dipendenza è un elemento capitale della nuova alcologia. Si può inoltre constatare che le lesioni dell'organismo non hanno un rapporto direttamente proporzionale con i ritmi delle alcolizzazioni né con le quantità di etanolo ingerite.
Nel corso di alcuni decenni i medici hanno aggiunto altre malattie dipendenti dall'alcol alla lista di quelle già conosciute. I nuovi procedimenti d'indagine diagnostica hanno rivelato delle atrofie cerebrali e cerebellari sconosciute fino a quel momento; sono state anche individuate lesioni del nervo ottico e del pancreas, ed è stato possibile collegare al consumo d'alcol durante la gravidanza l'insorgere di malformazioni dell'embrione e del feto. Proseguono gli studi per precisare il ruolo innegabile dell'alcol nell'insorgere delle malattie cardiovascolari o almeno nel loro aggravarsi. Si è altresì stabilita l'azione sinergica di quei due tossici che sono l'alcol e il tabacco nella formazione dei tumori delle vie respiratorie e digestive superiori.In campo psichico i medici sanno oggi distinguere meglio i disturbi mentali dovuti all'alcol da quelli che sono solo evidenziati o aggravati dall'intossicazione alcolica cronica, distinzione necessaria in quanto il trattamento non è lo stesso nei diversi casi.Il perfezionamento dei metodi diagnostici non solo si è dimostrato vantaggioso per la terapia delle lesioni accertate, ma ha permesso anche di rivelare stati d'intossicazione alcolica che non avevano ancora dato luogo a disturbi evidenti, neppure agli occhi degli stessi soggetti.
In Francia, durante gli anni sessanta, il dottor Le Gô, che aveva in esame i lavoratori delle ferrovie, mise a punto una scala di gravità che, attraverso un esame clinico attento, permette di rivelare l'alcolismo anche se non vi sono ancora sintomi funzionali accertati.Poco dopo vennero messi a punto test biologici più precisi: il dosaggio della gamma-glutammi-ltransferasi, dell'immunoglobulina A, della transferrina, lo studio del volume globulare medio, l'evoluzione simultanea dei tassi di zucchero, di acido urico e dei trigliceridi, ecc. L'interesse di questi esami biochimici è duplice: da un lato essi evidenziano delle anomalie del metabolismo prima del manifestarsi di alcolopatie dichiarate e, a partire da quel momento, il malato può tenerne conto nelle sue abitudini alimentari; dall'altro lato questi esami permettono di seguire l'evoluzione di questi dati nel corso dei mesi e degli anni, fornendo prove oggettive dell'efficacia della cura e della sua osservanza da parte del soggetto.
La diagnosi di alcolismo a uno stadio infraclinico ha confermato quanto l'empiria lasciava supporre: i diversi soggetti non oppongono tutti un'eguale resistenza all'etanolo, in quanto ogni organismo lo metabolizza in modo diverso. Un bevitore smodato potrà non avere mai la cirrosi e morire in tarda età, mentre un altro, che pure consuma meno alcol, potrà avere presto una lesione cerebrale o pancreatica irreversibile. In ogni caso, a parità di consumo, le donne vengono colpite più rapidamente degli uomini. Ignoriamo poi per quale motivo, anche se milioni di persone d'ambo i sessi consumano bevande alcoliche, solo un numero limitato tra loro diviene 'dipendente' al punto da non poterne fare a meno.
Nel corso degli ultimi decenni si è venuto quindi precisando un concetto importante: la gamma dei comportamenti degli organismi umani di fronte all'alcol etilico (e alla sua tossicità) è talmente varia che risulta impossibile definire una soglia generale di consumo al di là della quale dovrebbero necessariamente insorgere le alcolopatie. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, ogni individuo presenta un rischio o una tolleranza specifici che, sfortunatamente, nessuno può determinare.
Tutti gli stati patologici connessi all'alcol, somatici o psichici (si tratti di una cirrosi, di una lesione oculare o di una depressione nervosa), beneficiano dei recenti progressi terapeutici, ma soprattutto oggi ci si occupa molto più di prima delle ragioni che spingono un individuo a bere in eccesso. In mancanza di un antidoto all'etanolo, si sono tentate delle 'cure di disgusto' somministrando agli alcolisti un prodotto che rende l'alcol sgradevole a causa di una forte sensazione di calore, una sete insopportabile o addirittura conati di vomito. Questi metodi crudeli sono stati praticamente abbandonati. Tutte le forme di psicoterapia possono ottenere successi e insuccessi, in quanto i rapporti tra medico, malato e ambiente hanno una grande importanza; gli alcolisti sono spesso ansiosi, instabili, talvolta aggressivi, e hanno spesso sensi di colpa che, uniti alla consapevolezza della loro impotenza di fronte all'assuefazione all'alcol, li spingono al suicidio. I medici hanno anche messo a punto terapie per le alcolopatie epatiche o nervose e per il delirium tremens, e hanno raggiunto un miglior controllo organico e mentale del difficile periodo della disintossicazione.
Tuttavia il solo rapporto a due, tra medico e malato, non giunge sempre a un risultato positivo, per cui può rivelarsi utile associare al trattamento la famiglia. L'alcolista soffre spesso di sensi d'isolamento e ama trovarsi con compagni di sofferenza; proprio per questo da oltre mezzo secolo si sono venute sviluppando associazioni di ex bevitori, dove vengono intrecciati rapporti di vario tipo e sono incoraggiati negli sforzi, nei successi e aiutati in caso di ricadute quanti vogliono guarire; questo sostegno psicologico fornisce spesso un conforto benefico.
Contemporaneamente ogni paese occidentale ha creato istituti per il ricovero e la cura degli alcolisti, ciascuno secondo la propria mentalità, la propria religione e le proprie strutture amministrative. Si ritiene che all'inizio di una cura di lungo periodo possa rivelarsi utile l'ospedalizzazione, ma questa non può essere una regola di carattere generale e la degenza non deve essere prolungata indefinitamente. La maggior parte degli istituti non si limitano alle cure, ma assicurano anche il controllo da parte dei consulenti, organizzano un'assistenza sociale a domicilio presso le famiglie, prodigano consigli agli uni e agli altri, contribuendo così alla prevenzione di tragedie sociali e individuali.
Se le vie terapeutiche e i metodi d'approccio all'alcolista sono così differenziati, questo dipende dal fatto che nessuno di essi è perfetto e adatto a ogni caso; i medici hanno comunque imparato che di fronte al fenomeno complesso rappresentato dalla dipendenza dall'alcol, essi non hanno il monopolio del sapere, e inoltre devono ancora acquistare numerose conoscenze, per esempio per quanto concerne il catabolismo dell'etanolo nel corpo umano. È noto che l'elaborazione dell'aldeide-deidrogenasi varia secondo gli individui e anche secondo i gruppi etnici; alcuni alcologi attribuiscono un ruolo ai radicali liberi e si pensa anche che all'origine degli stati di dipendenza potrebbero esservi degli ormoni diencefalici.
Queste diverse ipotesi e questi tentativi terapeutici dimostrano che la medicina ha ancora molta strada da percorrere per chiarire i misteri dell'alcolismo e che quindi gli istituti di ricerca su questo problema, che si stanno moltiplicando in tutti i paesi del mondo, avranno bisogno ancora per molto tempo di finanziamenti. In questa fine di secolo la medicina dell'alcolismo è lontana dal semplicismo che prevaleva cent'anni fa.
Quasi tutte le società umane sono interessate dal fenomeno dell'alcolismo: tale fenomeno assume caratteristiche specifiche in ogni paese. I paesi che hanno le statistiche fiscali più attendibili passano inevitabilmente per essere anche i maggiori bevitori, ma nessun censimento governativo può calcolare la produzione familiare di bevande distillate e fermentate. Negli ultimi anni si constata una leggera diminuzione nei consumi dei paesi industrializzati e un forte aumento in quelli dei paesi in via di sviluppo.
Ogni società umana subisce le conseguenze patologiche della sua alcolizzazione. Il raffronto più facile sembrerebbe quello della mortalità connessa all'alcolismo, ma esso non è valido per numerose ragioni epidemiologiche. Possono essere sufficienti alcuni esempi: tra le cirrosi epatiche quelle dovute all'alcolismo variano molto secondo le latitudini; in numerosi paesi, anche industrializzati, le cause dei decessi non sono sempre conosciute; infine, nel caso di morti dovute a malattie cardiovascolari o a tumori, come si fa a sapere se il ruolo svolto dall'alcolismo è stato determinante o solo aggravante? E in caso di suicidio, quale ruolo ha eventualmente svolto l'alcolismo? Ecc.
Per gli stessi motivi anche le statistiche di morbilità devono essere interpretate con prudenza. Bisognerebbe infatti includervi anche gli innumerevoli aggravamenti di malattie banali dovuti all'intemperanza, in quanto quest'ultima può complicare qualunque affezione, sia di ordine medico che chirurgico. D'altra parte, a questa morbilità clinica dovrebbero essere aggiunti i numerosi disordini di natura sociale che non si possono valutare in termini economici: i drammi familiari, i divorzi, le sevizie ai minori, le perdite patrimoniali, le crisi professionali per contrasti o per instabilità, le violenze, ecc.
I danni che l'alcolismo provoca alla società non sono ancora conosciuti esattamente, o perché sfuggono ai rilevamenti statistici o perché sono tenuti deliberatamente nascosti per ragioni politiche o religiose. Nel secolo passato venivano attribuiti all'alcol crimini di tutti i tipi, i furti come gli stupri; in realtà la criminalità ha molte cause e oggi si sa che la popolazione delle prigioni non è rappresentativa né dell'insieme degli alcolisti né della teppa. Non si può tuttavia negare che l'alcolismo, nelle sue forme acute e croniche, ispiri degli atti criminali, che producono a loro volta criminalità.
Che cosa è rimasto, dopo un secolo, dell'idea un tempo comune che l'alcolismo fosse il risultato della povertà e si potesse riscontrare soprattutto tra gli operai mal pagati? Molte cose sono cambiate da quel tempo e oggi noi ci rifiutiamo di collegare i misfatti dell'intemperanza a una professione. Siamo diventati più esigenti in materia di statistiche sociologiche.
Abbiamo già spiegato le difficoltà che si incontrano nel definire il soggetto classificato come 'alcolista': è colui che beve più di quanto venga ammesso nel suo ambiente? o colui che presenta sintomi biologici minacciosi senza disturbi clinici? o il portatore di una alcolopatia manifesta? Per valutare il rapporto tra consumo di etanolo e conseguenze mediche o sociali occorre tener conto del livello culturale, della professione, dei titoli di studio, o controllare soprattutto il reddito annuale? La struttura delle nostre società non è più la stessa di cento anni fa. Quando per esempio il BIT (Bureau International du Travail) annuncia, nel 1985, che il 70% degli alcolisti nei paesi industrializzati è costituito da lavoratori dipendenti, questa percentuale non ha senso, in quanto il 70% dei membri di queste società è ormai formato da lavoratori dipendenti, dal direttore generale al netturbino.
Sono tuttavia possibili alcune osservazioni di carattere generale. Ogni fenomeno sociale, come l'allontanamento dal proprio ambiente, l'emigrazione, la perdita del lavoro, il cambiamento d'impiego o di residenza, la diminuzione delle entrate familiari, la perdita di un parente, insomma ogni avvenimento suscettibile di ripercussioni psicologiche può incrementare il consumo di bevande alcoliche di un individuo. L'alcolizzazione è infatti particolarmente accentuata nelle riserve indiane del Canada e degli Stati Uniti, dove la popolazione subisce contemporaneamente tutte queste prove: la sottoccupazione che crea la noia, la 'deculturazione' di gruppi tribali che perdono i loro costumi ancestrali senza però adottare quelli della società che li circonda. Eppure questi indiani non soffrono la fame, né hanno cattivi alloggi, né vivono in povertà, in quanto sono puntualmente assistiti dal governo.
È provato che la disoccupazione spinge alcuni soggetti all'alcolismo per disperazione, ma non tutti i disoccupati sono degli alcolisti e nessuno ha ancora dimostrato statisticamente che i disoccupati bevano più di quelli che hanno un lavoro. Mentre in passato gli alcolisti sono stati spesso guardati con indulgenza da parte del loro ambiente, oggi invece constatiamo un atteggiamento mutato. Un recente sondaggio, per esempio, rivela che i Francesi non gradiscono come vicini in primo luogo i pregiudicati, poi gli alcolizzati (67%), mentre accettano con più facilità i Neri e gli Arabi. Le inchieste sociologiche a medio termine sono rare; è quindi interessante lo studio svedese sulla mortalità tra 50.000 giovani reclute verificata quindici anni dopo il loro servizio militare. La mortalità è assai più elevata tra quanti bevevano molto già a 18 anni che tra i più sobri; inoltre sono frequenti, tra i deceduti e i bevitori abituali, i casi di disadattamento sociale. Peraltro un buon inserimento sociale non ha risparmiato ai bevitori una morte prematura.
Tutto ci spinge quindi a essere meno drastici dei nostri predecessori del secolo scorso. Si può affermare che ogni trauma psicologico, ogni nuova situazione sociale fonte d'angoscia può spingere una persona a eccedere nel bere, ma l'alcolismo non è monopolio di una categoria sociale: i medici curano alcolisti di tutte le professioni e di tutti gli ambienti sociali, dai più poveri ai più ricchi.
Nella misura in cui l'etanolo ottunde tutte le funzioni sensoriali, fa diminuire la vigilanza e rende maldestri; gli incidenti provocati dall'alcolismo contribuiscono alla morbilità e alla mortalità. Numerosi paesi industrializzati hanno perciò deciso di adottare sanzioni penali per le persone che guidano automobili avendo nel sangue una certa percentuale di alcol. Queste sagge misure dovrebbero essere estese ai guidatori di tutti i mezzi di trasporto: esse danno ai legislatori una coscienza tranquilla contribuendo a diminuire il numero e la gravità degli incidenti stradali, ma, rispetto alla lotta all'alcolismo, costituiscono uno strumento piuttosto limitato. Quanto poi agli incidenti che avvengono in casa in seguito all'abuso di alcolici, occorre sottolineare che la loro frequenza sarà sempre sottostimata.
Lo studio dei comportamenti sociali nel corso degli ultimi secoli permette di interpretare alcune tendenze attuali e di prevedere il loro andamento nel futuro. Le politiche commerciali incidono quanto la moda sulla diffusione dei prodotti alcolici e sulle forme di consumo; in linea generale, nell'ambito di una data popolazione, le classi povere tendono a imitare quelle ricche e le campagne la città. In Francia, per esempio, il whisky, che arriva nel 1945 dagli Stati Uniti, simbolo di prosperità, sostituisce progressivamente l'autoctono cognac. Su scala mondiale, i paesi in via di sviluppo adottano le forme di consumo di alcolici dei paesi più prosperi.
La tendenza a uniformarsi si può osservare anche all'interno dei gruppi sociali: vent'anni fa nelle università americane gli studenti irlandesi, protestanti ed ebrei avevano rapporti diversi con l'alcol, mentre oggi queste differenze si attenuano. Gli stessi cambiamenti si possono osservare in Israele, tra ashkenaziti e sefarditi, e in Africa, dove le differenze sociali tra ricchi e poveri, tra abitanti delle città e abitanti delle savane sono peraltro notevoli.
Non dobbiamo per questo arrivare alla conclusione che siamo alla vigilia di una completa uniformità nel consumo degli alcolici su scala mondiale. Dovunque l'uomo utilizza prodotti che cambiano la sua visione del mondo, che alleviano per alcune ore le sue disgrazie e la sua difficoltà di esistere, che fanno apparire migliori i membri della sua famiglia o i suoi compagni di lavoro, che lo avvicinano agli dei. La sua immaginazione e la sua ingegnosità gli mettono oggi a disposizione innumerevoli droghe, bevande alcoliche, estremamente diversificate, che sono legate alla sua storia, alla sua cultura e alle possibilità di utilizzazione del suo ambiente. La varietà delle forme di consumo degli alcolici, quando questo non è eccessivo, deve essere considerata, quali che siano i danni provocati, come una delle ricchezze umane: un'eccessiva uniformità rappresenterebbe un impoverimento.
e. Politiche pro o contro l'alcolizzazione?
Per interesse, per necessità o per caso, la maggior parte dei governi hanno una propria politica dell'alcol, come hanno una politica petrolifera o una del latte. Per secoli essi hanno visto nell'alcol soltanto una fonte di profitto, imponendo tasse e gabelle sulle produzioni agricole o industriali connesse, sulla loro commercializzazione (a ogni passaggio di mano di una bottiglia), sui guadagni dei rivenditori, sull'acquisto finale da parte dei privati. Soltanto da un secolo hanno cominciato a preoccuparsi di quanto possono costare gli abusi nel consumo di alcolici.
I parlamentari alla ricerca di precise informazioni di bilancio pongono spesso questa domanda: qual è il costo dell'alcolismo? Nessuno può rispondere a questa domanda: nei paesi industrializzati, forniti di assistenza sociale, si possono calcolare le spese sostenute dalla collettività per la cura dei malati di cirrosi, di tumore al pancreas, di polinevrite; ma come si può calcolare quanto deve essere imputato all'alcol nella cura delle artriti o delle malattie mentali? Come calcolare il sovrapprezzo che una condizione di alcolismo comporta per la cura delle malattie più banali? Nel caso degli incidenti stradali, come dividere le spese tra alcol e strade ghiacciate?
In mancanza di una giustificazione finanziaria evidente, i governi hanno però a loro disposizione numerosi strumenti per lottare contro l'alcolismo, quando lo vogliono veramente. Per quanto concerne le bevande fermentate, possono anzitutto rivolgere la loro attenzione alla produzione agricola. Con l'eccezione della Comunità Economica Europea negli ultimi anni, gli Stati non hanno mai smesso d'incoraggiare i loro agricoltori a produrre di più: la prosperità delle campagne determina quella dell'intero paese. Per quanto riguarda poi le bevande distillate, alcuni Stati se ne sono attribuito il monopolio, ma in nessun paese viene controllata la produzione artigianale, mentre talvolta viene addirittura incoraggiata.
Oltre alla produzione, anche la commercializzazione può essere regolamentata in modo più o meno restrittivo. Si possono limitare il numero dei punti di vendita e lo smercio di prodotti secondo la gradazione alcolica, si può fissare un orario d'apertura minimo, consentire la vendita soltanto a certe categorie di persone e di conseguenza proibirla ad altre (ai Neri nei paesi e durante i periodi di segregazione, agli Indiani, ai minatori di una certa età, alle donne, ecc.). Si può esercitare un'opera di dissuasione sui consumatori praticando prezzi elevati, si possono imporre forme di razionamento individuale, come avviene durante i periodi di penuria di una merce.
I governi provano ad adottare questi diversi strumenti uno dopo l'altro. Il solo cui sembrano aver rinunciato è quello della proibizione totale della fabbricazione, commercializzazione e importazione, che è fallito ovunque si sia tentato di adottarlo. Di fatto, ognuno di questi metodi raggiunge lo scopo di far diminuire il consumo per un certo periodo di tempo, dopo di che esso ritorna al livello precedente; quando un sistema diventa troppo rigoroso, cominciano a svilupparsi delle pratiche clandestine che lo rendono inefficace. Gli Stati inoltre oscillano nelle loro politiche, in quanto non riescono a scegliere tra i guadagni procurati dall'etanolo e le sofferenze, e le spese, che questo tossico impone alla popolazione. L'indecisione, se non ipocrisia, è destinata a continuare ancora per molto tempo: si può ritenere che la scadenza del mercato unico europeo indurrà i dodici Stati membri ad adottare soluzioni puramente economiche, soluzioni che non porranno quindi rimedio ai consumi eccessivi e nocivi e alle loro conseguenze mediche, quale che sia il costo di queste ultime per la collettività.
Alcuni paesi socialisti hanno sperimentato nel giro di un certo numero di anni tutti i metodi sopra elencati. Essi sono gli ultimi arrivati nella lotta contro l'alcolismo a causa di alcune posizioni perentorie prese al momento dell'insediamento del loro regime: la Bulgaria aveva dichiarato che il capitalismo utilizzava l'alcol per asservire la classe operaia e i popoli delle colonie; la Polonia aveva soppresso le istituzioni per la cura degli alcolisti in quanto erano sopravvivenze del passato capitalistico. Di fatto in nessun paese il socialismo ha fatto qualcosa di meglio del capitalismo per evitare o per curare l'alcolismo, né in Europa né nei paesi in via di sviluppo.
L'Unione Sovietica ha intrapreso nel 1985 una coraggiosa campagna, in quanto sembrava che la situazione del paese fosse seria. L'URSS allora non pubblicava statistiche sanitarie, per cui non era possibile esprimere un giudizio basandosi sulla mortalità o sulla morbilità connesse agli alcolici, ma gli incidenti nel settore dei trasporti (nella misura in cui erano conosciuti) erano numerosi (catastrofi ferroviarie o cadute d'aerei): il consumo di vodka era formalmente proibito nella cabina passeggeri per evitare risse, mentre era tollerato nella cabina di pilotaggio. L'Accademia Sovietica delle Scienze lamentava un milione di morti all'anno a causa dell'alcol e valutava in 17 milioni il numero degli alcolisti malati; nel 1983 11.700.000 persone sono state fermate per ubriachezza e di queste 700.000 guidavano un'automobile.
Il governo decise di colpire su tutti i fronti. Si pensò, in analogia con il metodo svedese, alla possibilità di vendere vodka soltanto ai titolari di un libretto individuale, ma questo sistema amministrativo, che poté essere applicato per qualche decennio a 7 milioni di Svedesi, si rivelò inapplicabile ai 250 milioni di cittadini dell'Unione Sovietica. Si tentò poi di ridurre notevolmente il numero dei punti di vendita, creando così delle file presto impopolari. Venne raddoppiato il prezzo della vodka e allora nelle strade si cominciò a cantare: "Quando la bottiglia costerà 8 rubli andremo in Polonia; quando costerà 20 rubli assalteremo di nuovo il Palazzo d'Inverno". Il regime si sentiva minacciato; vennero quindi aggravate le sanzioni penali, moltiplicate le multe per ubriachezza durante la guida o per le strade, minacciati di licenziamento i bevitori inveterati, tacciati di 'parassitismo'. L'imprigionamento si rivelò non praticabile, a causa del numero troppo elevato di persone interessate dal provvedimento. Come era già accaduto nei paesi occidentali cent'anni prima, dei 'saggi' proposero la proibizione totale della produzione e della vendita delle bevande alcoliche.
In seguito, però, si è dovuto fare marcia indietro: sono stati riaperti i locali che erano stati chiusi in numero eccessivo, polizia e giustizia sono divenute più indulgenti, ma i prezzi sono rimasti elevati. I consumi ufficiali sono diminuiti, ma non si conoscono i dati reali sull'alcolizzazione del paese, in quanto la produzione clandestina di samogon (la vodka artigianale) è divenuta una pratica corrente; i ricoveri e i decessi causati dal consumo di prodotti tossici hanno raggiunto dimensioni inquietanti.
La Polonia ha seguito un percorso simile. La legge marziale aveva fornito un pretesto per il razionamento dell'alcol e per l'aumento dei prezzi; il razionamento in seguito è cessato, ma i prezzi hanno conservato l'alto livello raggiunto e tutta la Polonia ha ripreso le vecchie abitudini di distillazione familiare adottate durante l'occupazione tedesca. Moltissimi nuclei familiari distillano il proprio alcol; i giovani hanno imparato dai genitori una tecnica che oggi è diffusa in tutti gli ambienti sociali. L'Ungheria ha adottato per alcuni anni un sistema di disintossicazione obbligatoria delle persone considerate dalla polizia come alcolisti, con il loro internamento in strutture a metà strada tra il carcere e l'ospedale. Si sperava con questa minaccia di ottenere un effetto dissuasivo sui grandi consumatori. I costi dell'operazione, le ricadute dei 'disintossicati' e la mancanza di effetti sull'alcolizzazione del paese hanno fatto interrompere questa esperienza. L'Organizzazione Mondiale della Sanità, che sviluppa le iniziative sanitarie che i paesi membri le consentono, si mostra molto più attiva nella lotta contro il tabagismo che in quella contro l'alcolismo: i produttori di alcolici costituiscono un gruppo di pressione più attivo dei coltivatori di tabacco; inoltre, anche i popoli, che sono rappresentati dai loro governi, sono molto più attaccati a un tossico che all'altro.
È difficile formulare delle previsioni sull'alcolismo nei prossimi decenni, in quanto esso cambia continuamente sotto i nostri occhi. Alcune bevande tradizionali spariscono a vantaggio di altre dalla produzione industriale meno costosa e di più facile commercializzazione. Le abitudini caratteristiche dell'alcolismo evolvono: gli Scandinavi sacrificano meno all'ebbrezza del sabato sera, i Francesi bevono meno vino durante la settimana. I medici non curano più gli stessi alcolisti di una volta: i cirrotici non muoiono più di denutrizione né di avitaminosi e possono arrivare a tarda età, mentre d'altra parte l'alcol svolge un ruolo crescente nella genesi dei tumori e delle arteriopatie che insorgono intorno ai cinquant'anni; fra le donne vanno aumentando i casi di psicopatie dipendenti dall'alcol.
Nei laboratori i ricercatori proseguono i loro studi per capire meglio in qual modo l'etanolo modifichi il metabolismo umano, intervenga nell'elaborazione dei lipidi della parete arteriosa, raggiunga le cellule del fegato e del pancreas, danneggi le cellule dell'encefalo o del sistema nervoso periferico. Intanto gli apostoli dell'azione sociale e dell'educazione sanitaria perfezionano continuamente i loro procedimenti e i loro metodi educativi per informare in modo più approfondito sui pericoli dell'alcol e per persuadere ciascun individuo della necessità di conoscere le reazioni del proprio corpo nei confronti di questo tossico.
Senza timore di sbagliare, si può però prevedere che i malati di alcolopatie siano destinati ad aumentare a causa della diffusione dell'alcolismo nei paesi in via di sviluppo. La crescita delle industrie locali e le preoccupazioni di espansione commerciale dei produttori occidentali metteranno a disposizione dei poveri malnutriti un tossico prima riservato solo ai ricchi.Il consumo di alcol sembra inevitabile, ma gli abusi, pericolosi per l'uomo, non potranno cessare finché i governi, per evitarli, non avranno adottato una politica franca, coerente e finalmente umana. (V. anche Droga).
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