ALCIBIADE ('Αλκιβιάδης, Alcibiădes)
Celebratissimo politico e generale ateniese del sec. V a. C. Apparteneva alla nobile famiglia degli Eupatridi. Per la madre Dinomache veniva a essere imparentato con la famiglia nobile e potente degli Alcmeonidi, alla quale per parte della propria madre era congiunto anche Pericle, capo del governo ateniese durante la giovinezza di Alcibiade. Pericle appunto gli fu tutore, quando il padre Clinia gli morì nella battaglia di Coronea (447). Doveva essere nato poco prima, verso il 450 a. C. Morì nel 404, poco più che quarantenne. La breve vita bastò a conquistargli tanta fama, sia perché le aderenze familiari e sociali lo resero eminente fin dalla giovinezza, sia perché quelli furono anni turbinosi e d'importanza somma per la storia dei Greci. La singolare bellezza della persona fu anche tra i fattori più speciosi della sua vita varia e brillante; come la versatilità dell'ingegno agile e superficiale fu tra i più insidiosi fattori della sua alterna fortuna. Giovinetto, ebbe consuetudine con Socrate; ma senza vera comunione. Con Socrate militò a Potidea nel 432 e a Delio nel 424. Della prima battaglia fa ricordo Platone nel Simposio (220 d-e), ma solo per esaltare la generosa abnegazione di Socrate, che non volle abbandonare il giovane Alcibiade ferito, ma salvò e lui e le sue armi, e poi si adoperò perché un premio gli fosse dato. Nel 427 e nel 425 il commediografo Aristofane lo ricorda: segno che la cronaca cittadina si occupava già molto di lui. Fra il 424 e il 421 cominciò (non aveva ancora i trent'anni necessarî per rivestire magistrature) a prendere iniziative politiche: v'erano in Atene gli Spartani d'importanti famiglie, catturati a Sfacteria, e A. ne ebbe cura particolare, approfittando di antiche relazioni ospitali intercedenti fra la sua casa e gli Spartani, e sperando di prepararsi così una parte considerevole nelle prossime trattative di pace. Gli Spartani conclusero nel 421 la pace senza valersi di lui, che reputavano ancora troppo giovane.
Democratico radicale. - Ma già nel 420-19, raggiunto il limite dell'età legale, A. era eletto alla suprema carica di ammiraglio (stratego) nel collegio dei dieci ammiragli che costituivano il governo di Atene; e subito si mise a capo del partito democratico radicale, che lavorava allora a rendere difficile l'esecuzione del trattato di pace concluso da Nicia, democratico conservatore. A tale scopo doveva servire un'alleanza, che A. affrettò, fra Atene e Argo; e per il medesimo scopo A. trascorse nel Peloponneso l'estate 419, rieletto alla strategia anche per il 419-18. Ma a queste oblique manovre diplomatiche mise fine Sparta, vincendo a Mantinea gli Argivi l'anno dopo (418). Gli Ateniesi combatterono in questa battaglia accanto agli Argivi; ma non furono coinvolti nella sconfitta; e la pace non fu considerata rotta. Tuttavia il pericolo era stato tale, che A. e il suo partito ne ebbero un colpo gravissimo, e grandissimo vantaggio il partito di Nicia. Era la prima volta, e non fu l'ultima, in cui A. conseguì un effetto opposto alle sue speranze. Non si diede per vinto. Mobile, ardente, immaginoso, si riservava all'avvenire, e passò destramente sulla strada che per il momento era la sola aperta: aderì alla politica di Nicia, dimostrando più vanità che orgoglio. Il suo disegno era favorito dall'indole di Nicia, serio, chiuso in sé, alieno dalla folla e dai troppo rudi contrasti. Così A. fu di nuovo stratego nel 417-16 e nel 416-15. Ai giuochi olimpici del 416 partecipò con ben sette cocchi: quanti mai nessun privato. Lo splendore dei suoi arnesi e del suo seguito attirò su di lui l'attenzione di tutto il mondo greco, adunato per quelle gare solenni. Si mormorava che egli aspirasse alla tirannide; e la vita sua, libertina e sfarzosa, cresceva credito alle mormorazioni. Nell'inverno del 415, venuta ad Atene l'ambasceria di Segesta a proporre la guerra contro Siracusa, sollevatesi per ciò impetuose le speranze e le cupidigie di tutti coloro che avevano o speravano di avere profitto da una guerra d'oltremare, e in ispecie quelle dei democratici radicali, A. fu con essi: sfruttando i loro interessi per il proprio interesse, l'esaltazione pubblica per la propria esaltazione. Avvezzo a dilapidare grandi somme nel lusso dei cocchi e dei cavalli, che era il più squisito di quella moda, disposto a dipingersi brillanti di prosperi successi tutte le imprese a cui egli partecipasse, vide anche la guerra imminente fuori da ogni rapporto fra i mezzi e lo scopo: come un'occasione di sperimentare il proprio talento e la propria fortuna. Nicia se ne preoccupò e intimorì. Non potendo impedire l'impresa, volle almeno che fosse cauta. Chiese due garanzie: l'una politica, l'altra militare. Ebbe la prima, dichiarando che considerava la guerra contro Siracusa né necessaria né utile, ma che accettava di comandarla solo per obbedienza al volere del popolo; di modo che il successo (se mai era possibile) sarebbe stato merito di lui militare, l'insuccesso (se non era evitabile) sarebbe stato merito di lui politico. Ebbe anche la garanzia militare, ottenendo che le forze di terra e di mare per la guerra imminente fossero adeguate ai rischi, e tali anzi da superarli. Nonostante queste riserve e garanzie, Nicia dovette però seguire l'indirizzo di Alcibiade.
La spedizione si veniva allestendo tra il più grande fervore e in mezzo all'attenzione e all'ammirazione dei cittadini e dei forestieri. La partenza era imminente. Ma una di quelle mattine gli Ateniesi trovarono mutilate la più parte delle erme sacre, che, secondo il costume, sorgevano nella città dinanzi alle porte delle case private e dei templi. Il sacrilegio agitò la popolazione. Si credette a una congiura di oligarchici, o di stranieri, o degli uni e degli altri insieme. Si deliberarono provvedimenti straordinarî e inchieste rigorose. Più e più denunce furono fatte: una rivelò che in abitazioni private si erano fatte parodie dei santi misteri, e che fra i colpevoli era appunto Alcibiade. L'accusa colpiva il giovane ammiraglio con le armi stesse della demagogia e della passione popolaresca, che l'avevano sostenuto. Ma il primo colpo non bastò ad abbatterlo. Il momento gli era propizio. La flotta era sul punto di salpare: equipaggi, mercanti, soldati fecero intendere che avrebbero difeso l'uomo che li aveva raccolti e che doveva condurli, e senza cui l'impresa avrebbe assunto altra e minore ampiezza. Peggio, i mercenarî di Argo e di Mantinea, un reggimento di 700 opliti, arruolati per la mediazione di A., costituivano intorno alla sua persona una guardia quanto mai minacciosa. E però A. chiese e richiese d'essere giudicato subito, e subito o prosciolto o condannato: ma per lo stesso motivo gli avversarî, che lo vedevano già prosciolto, gli risparmiarono anche il processo, e lasciarono che partisse al comando della squadra. Frattanto le due inchieste, sulle erme e sui misteri, continuarono. Terminata la prima con una, vera o falsa, autodenunzia dei responsabili (la verità intera né allora si seppe né poi), l'attenzione pubblica si rivolse sulla seconda. Demagoghi e abbienti furono contro A.: quelli trascinati dall'invidia, questi risoluti alla vendetta. La tensione non poteva durare: si risolse alla fine con la citazione di A. dinanzi al tribunale; il che voleva dire il richiamo dalla Sicilia e la condanna. A. ricevette la citazione a Catania, alle soglie dell'inverno. Il favore delle truppe e degli equipaggi non era più con lui, perché l'esito di quella campagna era stato ben diverso dall'attesa e dalle promesse. Ribellarsi al governo e rimanere con la flotta non era più possibile. Subire la condanna recandosi ad Atene, non voleva. Restava la fuga e l'esilio. Partì dunque con la sua nave, sotto scorta; ma, giunto a Turii, sulla costa italica, riuscì a scomparire. Di là si recò a Sparta. Contumace, fu condannato a morte; confiscati i suoi beni, fu pronunciata contro di lui la scomunica solenne.
Profugo presso il nemico. - Sparta invece gli diede salvacondotto. E fu avveduto consiglio: perché A. fu utile a Sparta quanto non era stato ad Atene. Un'ambasceria di Siracusa, ridotta a mal partito dall'assedio di Nicia, a Sparta, per averne soccorso (autunno 415), trovò a Sparta Alcibiade. E fu proprio A. a suggerire che la richiesta di Siracusa fosse soddisfatta in forma che, senza gravare Sparta, salvasse Siracusa: cioè fu mandato un capo militare, esperto e di buon nome, tale Gilippo. Scelta e suggerimento ottimi, perché a Siracusa più che i mezzi mancavano i generali, e il fortunato arrivo di Gilippo fu causa che la città prendesse il sopravvento, fino a distruggere tutto o quasi l'esercito di Nicia, che finì prigioniero e fu condannato a morte (autunno 413). Intanto era ricominciata la guerra fra Atene e Sparta; la quale occupò Decelea nell'Attica, per suggerimento ancora di A. (Si disse). Certo fu di A. un consiglio che doveva riuscire fatale all'impero di Atene, e che era a un tempo perfido e acuto. Mentre il governo spartano era incerto donde gli convenisse cominciare le mosse e dove cercare alleati, se fra i satrapi del re persiano o se fra i sudditi sediziosi di Atene, quali Chio e Lesbo, e perdeva tempo e coraggio, A., legato dal vincolo della "patria ospitalità" con uno degli efori, premette sul governo, proponendo l'audace piano di puntare con poche navi su Chio e la Ionia, di raccogliere navi, denaro e aderenze fra le città ioniche e dal satrapo Tissaferne, di risalire al nord verso i granai del Mar Nero e chiudere ad Atene Bosforo e Dardanelli. Vide insomma e disse la verità suprema che era nascosta sotto il conflitto fra Atene e Sparta: avrebbe vinto quella delle due potenze la quale per prima si fosse assicurato l'aiuto della Persia. Bisognava per questo transigere col principio fondamentale della storia greca, che era la "libertà di tutti i Greci dal Barbaro". Quanto d'arguto e di agile era nella mente di A., togliendo gravità ai suoi atti e ai propositi, lo rese proclive a transigere e ad operare. Delle molte responsabilità che la storia deve imputare ad A., questa è senza dubbio la maggiore: è giustizia aggiungere che la responsabilità di lui era tuttavia solidale con quella di parecchie generazioni di politici, di quegli efori spartani, di quei demagoghi ateniesi che, perseverando, nonostante tutto, nel proposito di preminenza e di guerra, resero alla fine necessario l'intervento della Persia. Tutta l'estate del 412 e pressoché tutto l'inverno del 411, Sparta e Atene si combatterono nelle acque della Ionia: nel teatro scelto da Alcibiade, Atene si rivelò più debole, perché Sparta ebbe il concorso finanziario del satrapo Tissaferne. A. fu attivo militarmente, partecipando alla battaglia di Mileto (autunno 412), diplomaticamente stipulando (estate) un trattato fra il navarco spartano Calcideo e il satrapo persiano Tissaferne. Ma cadde per questo in sospetto degli Spartani; se ne avvide, e passò presso il satrapo.
Dittatore. - Cercò allora di disfare la propria tela, e di sostituire al binomio Persia-Sparta il binomio Persia-Atene; riuscendo peraltro soltanto a fare il giuoco della Persia, che venne di volta in volta a bilanciare l'equilibrio fra Sparta e Atene, fin tanto che non si fossero tutte e due profondamente logorate. Si avviluppò in complicate trattative segrete, mediatore fra il demagogo Pisandro e il satrapo Tissaferne; ma le trattative fallirono, mentre Sparta conquistava Rodi (primavera 411). Subito dopo, voltosi Pisandro all'oligarchia, instauratosi in Atene con la violenza delle armi e del danaro il governo oligarchico detto dei "Quattrocento" proclamatasi invece a Samo dagli equipaggi e dalle truppe la difesa strenua e risoluta della democrazia, onde Atene fu come divisa in due città, di cui l'oligarchica era fra le mura cittadine, ma senz'armata, e la democratica era a Samo dentro le "mura di legno" delle triremi, A. fu eletto capo supremo dei democratici a Samo, con l'intesa che dopo la vittoria avrebbe ottenuto il rimpatrio, cassata la condanna e la scomunica. Egli impedì in quel frangente la guerra civile fra i due partiti ("mi sembra che giovasse allora al paese meglio di ogni altro" dice Tucidide, VIII, 86, 4), affrettò la caduta dei Quattrocento, rifiutando ogni compromesso, appoggiò temporaneamente un governo temperato detto dei Cinquemila (autunno 411-estate 410); ma soprattutto vinse splendidamente sul mare: ad Abido (v.) prima, poi a Cizico, sinché tra il 410 e il 407 ebbe rassodato di nuovo, nei punti essenziali, il dominio di Atene sul Bosforo e in Tracia. Nella primavera del 407 fu dagli Ateniesi, che dall'estate del 410 eran di nuovo in regime democratico, eletto stratego; ricevendo finalmente forma costituzionale quel comando che egli teneva incostituzionalmente, ma con tanta fortuna, sino dal 411. Dopo qualche esitazione si risolse a recarsi in Atene. Ebbe accoglienze trionfali: restituito il patrimonio, cassata la maledizione del sacrilegio, conferitagli l'"autocrazia", cioè la dittatura. Parve prossimo a trapassare dall'"autocrazia" alla tirannide. E fu il momento critico e risolutivo della sua vita. Non gli mancava certo l'ardimento delle ambizioni. Ma considerò che gli mancasse la forza per imporsi a democratici e a oligarchici; che l'armata non gli fosse abbastanza devota; che le avversioni suscitate sempre, e ora rinnovellate, dal suo fasto licenzioso gli dessero troppo grave impedimento. Deliberò di procurarsi nuova gloria con nuova vittoria: e partì verso la Ionia nell'autunno stesso del 407.
Un insignificante scacco toccatogli nella primavera del 406 a Notio venne a coincidere con i comizî elettorali, onde non fu rieletto. Non fece forza alla sorte: fosse vanità esulcerata, fosse timore fondato, preferì ritrarsi nell'Ellesponto, dove aveva castelli difesi da soldatesche mercenarie. Tentò per l'ultima volta di riaprirsi l'accesso verso Atene alla vigilia della battaglia di Egospotami (405); ma gli ammiragli ateniesi respinsero con disdegno le sue proposte e i consigli. Caduta Atene, gli oligarchi saliti al potere lo vollero morto. Sparta e i satrapi, che aveva a volta a volta avuti amici e nemici, furono tutti insieme contro di lui, irritati e insospettiti delle perpetue mene, degl'irrequieti raggiri. Cadde vittima delle loro persecuzioni congiunte (autunno 404), non sappiamo per iniziativa di chi.
Tutte le sue imprese ebbero per caratteristica di essere contraddittorie fra loro: rivolte ora a crescere la potenza di Atene, ora a deprimerla, ora a distruggere Sparta, ora ad aiutarla, infine a favorire contro Atene e contro Sparta il nemico tradizionale di entrambe. Ma ebbe sempre di mira il buon successo del momento, con la istantaneità della passione vanitosa. E gli avvenimenti si svolsero invece con la propria logica attorno a lui fino a schiacciarlo Segno di odio e di ammirazione, reputato rovina di Atene, e insieme atteso salvatore, la sua luce fu tanto fatua quanto brillante.
Le fonti principali sono la Vita di Plutarco, e le notizie sparse nel racconto di Tucidide, di Senofonte (Storie elleniche) e di Diodoro. Il materiale è tutto raccolto dal Kirchner, Prosopographia attica, I, Berlino 1901, n. 600, e dal Hertzberg, Alkibiades der Staatsmann und Feldherr, Valle 1854.
Bibl.: G. Grote, A History of Greece, Londra 1888, voll. VII ed VIII; G. De Sanctis, ΑΤΘΙΣ, 2ª ed., Torino 1912; E. Cavaignac, Histoire de l'antiquité, II, Parigi 1913; J. Beloch, Griechische Geschichte, II, Strasburgo 1914; J. B. Bury, History of Greece, 2ª edizione, Londra 1922; A. Ferrabino, L'impero ateniese, Torino, 1927, cap. IV; Fr. Taeger, Alkibiades, Berlino 1927; nonché The Cambridge Ancient History, V, Cambridge, 1927 (con ricca bibl.). Per la genealogia W. Dittenberger, Die Familie des A., in Hermes, XXXVII (1902), p. 1.