Sordi, Alberto
Attore cinematografico, nato a Roma il 15 giugno 1920 e morto ivi il 25 febbraio 2003. Comico atipico, per non dire inventore di un tipo di comicità originale, impose sullo schermo un personaggio di italiano medio e mediocre (opportunista, sbruffone ma con prudenza, servile con i superiori, intraprendente con le donne ma inconcludente) che ottenne un successo clamoroso e straordinariamente duraturo. Prima di lui forse solo l'americano W.C. Fields aveva fatto ridere con un protagonista negativo. Ma Fields discendeva dai comici cinici del vaudeville: S. fu moderno, un tipico giovanotto egoista e senza veri ideali. Considerati a lungo troppo nazionali per essere esportati, i suoi film influenzarono tuttavia una generazione di attori americani, da Robert De Niro a Jack Nicholson, che ne ebbero il culto. Immensa in patria, dove un referendum televisivo lo consacrò come l'italiano più popolare in assoluto, la sua fortuna ebbe anche numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il premio come miglior attore al Festival di Berlino del 1972 per Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy, e il Leone d'oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia del 1995.
Il più grande attore del cinema italiano era nato nel centro storico di Roma; di famiglia piccolo-borghese, istrione fin da piccolo, sia pure per un pubblico di coetanei, allievo cantore nel coro della Cappella Sistina (brevemente, e comunque prima di sviluppare il suo caratteristico timbro di basso profondo), vinse diciassettenne un concorso per dare una voce italiana a Oliver Hardy nel film Pardon us (1931; Muraglie) di James Parrott. In quella occasione imitò il buffo accento italo-americano con cui erano giunte le prime pellicole della coppia Stanlio-Ollio, doppiate negli Stati Uniti, stabilendo una prassi poi seguita anche dai suoi continuatori; intraprese così una discreta carriera di doppiatore, tra gli altri di Anthony Quinn, Robert Mitchum, e persino, una volta (Una domenica d'agosto, 1950, di Luciano Emmer), di Marcello Mastroianni. Cominciò, anche, a esibirsi nell'avanspettacolo ‒ inizialmente, come 'voce' di Ollio ‒ e quindi nella rivista (Tutto l'oro del mondo, Imputati alziamoci di Michele Galdieri, i vari Za-bum di Mario Mattoli, E lui dice…). Subito dopo la guerra diventò popolare alla radio, con vari personaggi comici ‒ Mario Pio, il conte Claro, il signor Coso, i 'compagnucci della parrocchietta' ‒ sulla scia dei quali, dopo comparsate e apparizioni in parti minori in più di venti film tra il 1937 e il 1948, approdò a un ruolo di protagonista in Mamma mia, che impressione! (1951), diretto da Roberto L. Savarese con la supervisione anonima di Vittorio De Sica. Qui impersonava il boy scout giuggiolone già noto ai radioascoltatori; subito dopo comparve accanto a Totò, come un carognesco membro di commissione di esami, in Totò e i re di Roma (1952) di Steno e Mario Monicelli. Del 1952 è anche l'incontro con Federico Fellini e la travolgente caratterizzazione, in Lo sceicco bianco, di un divo cialtrone dei fotoromanzi. Sia questo film sia Mamma mia, che impressione! risultarono dei tali fiaschi al botteghino che i produttori del successivo lavoro di Fellini, I vitelloni (1953), accettarono la partecipazione di S. solo a condizione che il suo nome non venisse utilizzato nella pubblicità. Qui però avvenne il miracolo. D'un tratto il pubblico delle sale cinematografiche accettò con entusiasmo da S. un personaggio non dissimile da quelli che l'attore aveva già interpretato senza incontrare consensi, di giovanotto già non più di primo pelo, infingardo, mammone, viziato, ipocrita, anche un po' vigliacco. La sequenza in cui costui rivolge il gesto dell'ombrello a degli sterratori, salvo poi doversela dare a gambe quando l'automobile su cui passava si blocca per una panne, entrò subito nella leggenda. Come avviene in questi casi, S., improvvisamente richiestissimo, fu infilato in una infinità di commediole, inanellando più di dieci partecipazioni speciali in quello stesso anno 1953, mentre si preparava a occupare il centro dei film. Questo avvenne ben tre volte già nel 1954 ‒ Il seduttore di Franco Rossi, Un americano a Roma di Steno, L'arte di arrangiarsi di Luigi Zampa ‒ con risultati assai ragguardevoli. Nel primo, tratto da una commedia di D. Fabbri, S. è un donnaiolo velleitario; nel secondo, un logorroico ragazzetto romanesco frastornato dal mito dell'America; nel terzo, sceneggiato da V. Brancati, un tipico arrivista dell'Italietta che passa senza batter ciglio dai fascisti ai comunisti. A parte il contenuto satirico delle storie, molto apprezzato in tempi in cui la libertà di espressione era ancora adoperata da molti con cautela, e scoraggiata dai governi, il punto è che S. era riuscito ad affermare un nuovo genere di comicità: prima di lui il comico, da Charlot e Ridolini fino a Macario e Totò, era stato fisicamente molto caratterizzato (un ometto, un grassone, un tipo macilento, spesso vestito in maniera stravagante), che appariva sempre in condizioni di inferiorità rispetto all'ambiente (perché povero, o debole, o simpaticamente mentecatto), ma ispirava, con i suoi svantaggi, tenerezza e solidarietà. Puntualmente sconfitto, il clown tradizionale trionfa alla fine poeticamente; la ragazza si innamora di lui, magari, contro ogni logica; una serie di circostanze assurdamente fortunate fanno sì che Davide sconfigga Golia. Ora, il personaggio proposto da S. era lontanissimo da tutto ciò. Niente di particolarmente buffo nel suo aspetto di uomo qualunque sulla trentina, non più bello ma neanche più brutto di tanti altri. Niente di particolarmente spassoso nel suo modo di parlare e di muoversi, né da stupido né da imbranato, e ben poco di attraente nel suo modo di comportarsi. Un mediocre, insomma, come se ne vedono tanti: nei confronti del quale si prova una certa superiorità, ma con le debolezze del quale si nutre una certa affinità inconfessabile. Quando sottoponeva ai produttori i suoi copioni, S. si sentiva chiedere perché avrebbero dovuto far ridere; e sapeva rispondere soltanto che a far ridere ci avrebbe pensato, poi, lui. Il suo era l'opposto dell'umorismo un po' stralunato, un po' surreale, un po' sopra le righe, che aveva caratterizzato il periodo tra le due guerre. Il personaggio-Sordi era estremamente realistico, anche la sua parlata romanesca non era un condimento folcloristico, bensì un modo di esprimersi dietro il quale si sentiva una certa Italia ingenuamente euforica, l'Italia del boom, dei quattrini facili, dei ministeri e delle raccomandazioni. Naturalmente, tutto ciò era sostenuto dallo straordinario talento dell'artista, geniale nell'osservazione dei tipi che rifaceva, diabolico nel penetrare le pulsioni segrete, veloce nelle reazioni, e lavoratore instancabile, non solo sui testi dei quali era sempre coautore, ma anche nel modo di portarli sullo schermo ‒ avrebbe sempre collaborato con il regista, e a un certo punto sarebbe diventato spesso regista di sé stesso ‒ e, dopo, nel montaggio. Certi suoi interventi sulla colonna sonora in fase di doppiaggio sarebbero risultati esilaranti, un vero valore aggiunto alla scena girata. Nella sua lunga attività, S. avrebbe dato anche prova di poter essere versatile interpretando personaggi lontani dal suo cliché, come per es. il sicario protagonista di Mafioso (1962) di Alberto Lattuada, o il piccolo parroco di provincia che vorrebbe sposarsi in Contestazione generale (1970) di Zampa, o il professionista vittima della giustizia vessatoria in Detenuto in attesa di giudizio, o il distratto aristocratico di I nuovi mostri (1977) di Monicelli, o, ancora, l'apparentemente tranquillo ma in realtà ferocemente vendicativo protagonista di Un borghese piccolo piccolo (1977), ancora di Monicelli. Ma in molti dei più significativi tra gli oltre centotrenta film cui partecipò a partire dal 1950 S. apparve in variazioni di quell'italiano qualunque del quale sembrò addirittura detenere il monopolio almeno fino al 1962, quando Vittorio Gassman ottenne un clamoroso successo con Il sorpasso di Dino Risi, da un soggetto di Rodolfo Sonego, sceneggiatore prediletto di S., concepito in origine per S. stesso. Questo ritratto di fanfarone, in superficie persino attraente, ma sotto sotto debole, furbastro, vuoto esponente dell'Italia del boom, dimostrò che altri potevano affrontare le parti di S., tanto che presto a Gassman e allo stesso S. si affiancarono, in situazioni analoghe, Ugo Tognazzi e Nino Manfredi; la stagione aurea della cosiddetta commedia all'italiana si sarebbe fondata sulle peripezie di questi quattro attori, presi singolarmente o talvolta riuniti, magari nei singoli episodi di uno stesso film. Quanto a S. stesso, che beninteso non rinunciò a esibirsi anche in caratterizzazioni più risolutamente farsesche ‒ alcune, spassosissime, sono nei film Il segno di Venere di Risi e Piccola posta di Steno, entrambi del 1955, in Ladro lui, ladra lei (1958) di Zampa, in Racconti d'estate (1958) di Gianni Franciolini, in Brevi amori a Palma di Majorca di Giorgio Bianchi e in Il vedovo di Risi (entrambi del 1959), in Il vigile (1960) di Zampa, nell'episodio Guglielmo il dentone di Luigi Filippo d'Amico del film I complessi (1965) ‒, la sua galleria di ritratti a tutto tondo improntati a una critica persino amara della società contemporanea avrebbe finito per costituire un unicum senza pari in qualsiasi cinematografia. Ne fanno parte Un eroe dei nostri tempi (1955) di Monicelli, sulle disavventure di un 'impiegatuccio' che per pusillanimità rifugge da qualsiasi genere di impegno; Lo scapolo (1955) di Antonio Pietrangeli, sulla carriera del maschio latino che non si vuole compromettere; Il marito (1958) di Nanni Loy, Fernando Palacios e Gianni Puccini, sulle miserie della vita coniugale dell'italiano medio; Il moralista (1959) di G. Bianchi, su un integerrimo censore democristiano che in realtà dirige una banda di sfruttatori; La grande guerra (1959) di Monicelli, memorabile affresco storico della Prima guerra mondiale vista da due poveri fanti (l'altro era Gassman) che pensano solo a salvarsi, senza però riuscirci; Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, con il caos dell'Italia dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 vissuto da un sottotenente che vede sbandarsi la sua compagnia; Una vita difficile (1961) di Risi, con la storia esemplare di un ex partigiano che resta poi invischiato nell'amorale Italia del dopoguerra; Il medico della mutua (1968) di Zampa, spassosa denuncia della malasanità; Finché c'è guerra c'è speranza (1974) diretto dallo stesso S., su un trafficante di armi che mantiene la propria famiglia nella rispettabilità e nel benessere; Tutti dentro (1984) ancora di S., su un magistrato che anticipando tangentopoli si illude di poter far giustizia, da solo, di un giro di politici corrotti e di faccendieri. Lo stesso S. avrebbe rimontato il materiale di questi film e di altri per ottenere una storia televisiva dell'Italia contemporanea lunga molte ore (Storia di un italiano, trasmessa dalla RAI tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta). Si noterà tuttavia come le opere più direttamente di denuncia e di satira siano meno frequenti a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, quando la commedia all'italiana diventò meno indispensabile, dato ‒ tra l'altro ‒ l'allentamento dei vincoli della censura e la nascita del pluralismo televisivo. S. stesso trovò nuovi sbocchi, anche portando il suo personaggio all'estero, così da mettere il suo italiano medio a confronto con altre realtà (Il diavolo, 1963, di Gian Luigi Polidoro; Fumo di Londra, 1966, e Un italiano in America, 1967, di S.); oppure studiandone le reazioni davanti a costumi in evoluzione, come i rapporti della coppia sposata (Scusi, lei è favorevole o contrario?, 1966, e Amore mio, aiutami, 1969, sempre di S.). Diresse anche un ispirato omaggio all'avanspettacolo di una volta in Polvere di stelle (1973); e talvolta disegnò saporiti cammei in costume (Nell'anno del Signore…, 1969, di Luigi Magni; Il marchese del Grillo, 1981, di Monicelli; In nome del popolo sovrano di Magni e L'avaro di Tonino Cervi, entrambi del 1990). Gli ultimi film in cui fu regista di sé stesso ‒ Assolto per aver commesso il fatto (1992); Nestore, l'ultima corsa (1994); Incontri proibiti (1998) ‒ furono deludenti; invecchiando S. aveva perso, se non il mordente, la fiducia nella propria comunicatività, ed esagerava in ripetizioni. Ma la sterminata produzione del lungo periodo in cui era stato incomparabile non cessò mai di essere riproposta in televisione, con il pieno favore delle nuove generazioni. Quando S. venne a mancare, l'immensa partecipazione ai suoi funerali mostrò fino a che punto la nazione continuava a riconoscersi nella maschera con cui egli era stato sempre identificato. Nel 2003 aveva pubblicato Storia di un commediante: racconti, aneddoti e confessioni, raccolti da M.A. Schiavina.
C.G. Fava, Alberto Sordi, Roma 1979.
G. Governi, Alberto Sordi ‒ Un italiano come noi, Milano 1979.
M. Porro, Alberto Sordi, Milano 1979.
J.-A. Gili, Arrivano i mostri ‒ I volti della commedia italiana, Bologna 1980.
J.-A. Gili, La comédie italienne, Paris 1983.
M. d'Amico, La commedia all'italiana, Milano 1985.
Commedia all'italiana ‒ Parlano i protagonisti, a cura di P. Pintus, Roma 1985.
E. Giacovelli, La commedia all'italiana, Roma 1990.
E. Giacovelli, Non ci resta che ridere ‒ Una storia del cinema comico italiano, Torino 1999.
M. Spagnoli, Alberto Sordi ‒ Storia di un italiano, Roma 2003.