SORDI, Alberto
– Nacque a Roma, nel popolare rione di Trastevere, il 15 giugno 1920. Suo padre Pietro suonava il basso tuba nell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma; sua madre, Maria Righetti, era maestra elementare. Alberto era l’ultimo di quattro figli (prima di lui erano nati la sorella Savina, nel 1911; il fratello Giuseppe, nel 1915; e la sorella Aurelia, che avrebbe vissuto con lui per molti anni, nel 1917) e portava il nome di un altro fratello, nato nel 1916 e scomparso dopo pochi giorni di vita.
Fu un bambino prodigio... a modo suo. Lo disse a Maurizio Liverani (2014): «Sono nato per fare l’attore. E come avrei potuto fare altro? Sin dall’età di quattro anni rivelai una spiccata inclinazione per l’esibizionismo. Le mie sorelle furono le prime ad accorgersene e mi facevano recitare poesie nelle riunioni di famiglia. “Quanto è bravo!”, mi sentivo ripetere spesso; oppure: “Diventerà un attore”». Effettivamente, fin da ragazzo, non prese mai in considerazione un lavoro diverso da quello di attore, ma i suoi inizi furono tutt’altro che travolgenti e prima di raggiungere il successo dovette fare una lunga gavetta e subire molte umiliazioni. A cominciare dalle esibizioni con le sorelle, durante le quali oltre a recitare poesie si divertiva a cantare e a suonare il mandolino, ma spesso veniva preso a sganassoni dagli adulti, come racconta nel citato libro di Liverani. Nel 1926 vinse un concorso di bellezza per bambini, aggiudicandosi una tessera per entrare gratis, per un anno, al cinema Italia Nova di Trastevere. Partecipò anche al coro di Santa Maria in Trastevere, la sua parrocchia, e successivamente al coro delle voci bianche della cappella Sistina fino al momento in cui, precocemente, gli venne il ben noto ‘vocione’ (esperienza rievocata nel film Bravissimo, diretto nel 1955 da Luigi Filippo D’Amico).
Gli esordi di Alberto Sordi furono simili a quelli di molti attori dell’epoca, divisi fra il teatro (sia serio, sia leggero), la radio (allora diffusissima e popolarissima) e il cinema, che fra questi mezzi espressivi pareva di gran lunga il meno impegnativo e il più remunerativo. Raccontò a Liverani di essere andato a Milano a 15 anni per un corso di dizione. Tentò così di entrare all’Accademia dei Filodrammatici, ma non fu ammesso per lo spiccato accento romano (da qui i suoi celebri racconti sulle «doppie erre», la bocciatura dovuta al fatto che pronunciava «guera» e «fero»). Nel corso degli anni Trenta cominciò a partecipare a spettacoli di rivista: San Giovanni (stagione 1936-37, con la compagnia di Aldo Fabrizi e Anna Fougez) fu il suo esordio teatrale, mentre Scipione l’Africano (1937, di Carmine Gallone) è uno dei film in cui riuscì a trovare un ingaggio come comparsa. Sempre nel 1937 vinse un concorso indetto dalla Metro Goldwyn Mayer per trovare un doppiatore italiano per Oliver Hardy: da allora lui e Mauro Zambuto, che doppiava Stan Laurel, sarebbero diventati le voci principali e più azzeccate del duo comico amatissimo anche in Italia (dove erano noti come Stanlio e Ollio). Lavorò come doppiatore fino agli anni Cinquanta: ancora oggi la sua voce inconfondibile, e per noi legata alla comicità, rende problematica la visione di film drammatici come The spiral staircase (1946, di Robert Siodmak; La scala a chiocciola) dove doppia Gordon Oliver; Fort Apache (1948, di John Ford; Il massacro di Fort Apache) dove doppia Pedro Armendáriz; Red River (1948, di Howard Hawks; Il fiume rosso) nel quale presta la voce a John Ireland o, forse il caso più clamoroso, Pursued (1947, di Raoul Walsh; Notte senza fine) dove doppia il protagonista Robert Mitchum. Ed è sconcertante sentire la voce di Sordi in Domenica d’agosto (1950, di Luciano Emmer) in cui doppia un giovanissimo e allora sconosciuto Marcello Mastroianni.
Nella recitazione il primo ruolo importante fu quello in Ma in campagna è un’altra... rosa (stagione 1938-39), con la compagnia di Guido Riccioli e Nanda Primavera; Sordi fu sempre estremamente grato all’attrice e la volle in numerosi suoi film: per esempio, in Il medico della mutua (1968, di Luigi Zampa) dove interpreta sua madre. Durante la guerra lavorò molto nel teatro di rivista, a Roma come a Milano (un’esperienza formativa e avventurosa che avrebbe rievocato in uno dei suoi migliori film da regista: Polvere di stelle, 1973). Comparve in varie edizioni di Za-Bum, la rivista creata da Mario Mattoli; in Soffia, so’... di Pietro Garinei e Sandro Giovannini, che esordì a Milano nell’estate del 1945, subito dopo la Liberazione; e successivamente in Gran baraonda, sempre di Garinei e Giovannini, accanto a Wanda Osiris (il debutto fu a Milano, il 3 settembre 1952). Nel 1947 la RAI gli offrì un programma radiofonico tutto suo, Vi parla Alberto Sordi: fra gli autori dei testi c’erano il giovanissimo Ettore Scola e il dirigente RAI Vittorio Veltroni. Sviluppò così le macchiette di Mario Pio, del Conte Claro e del compagnuccio della parrocchietta che aveva già collaudato in teatro fin dagli anni Trenta. Proprio quest’ultimo personaggio gli procurò il primo ruolo da protagonista al cinema, dopo anni di piccole parti: Vittorio De Sica (per il quale aveva già doppiato un personaggio in Ladri di biciclette, 1948) si offrì di coprodurre e dirigere Mamma mia che impressione! (1951), nel quale il petulante ‘compagnuccio’ uscì dalla dimensione degli sketch radiofonici per diventare mattatore a tutto tondo. Firmato da uno dei produttori, Roberto Savarese, ma diretto in gran parte da De Sica e cosceneggiato da Cesare Zavattini, il film fu un insuccesso colossale.
Sordi era ancora nella sua fase ‘situazionista’, che lo portava a interpretare personaggi ossessivi e sgradevoli e a compiere audaci performance, del tipo: girare per strada con la gonna per provocare i passanti e testarne le reazioni, o esibirsi in grottesche imitazioni di animali in cui annunciava, serissimo, «La gallina!» e poi si limitava a dire «coccodè». Era una comicità modernissima, che sarebbe diventata di moda solo negli anni Settanta con Andy Kaufman (negli Stati Uniti) o con il programma radiofonico Alto gradimento (in Italia). Nell’Italia del dopoguerra poteva funzionare alla radio, in piccole dosi, ma risultava inaccettabile per il pubblico cinematografico.
L’insuccesso di Mamma mia che impressione! bloccò la carriera di Sordi al cinema, anche se in quello stesso 1951 ebbe l’onore di recitare accanto a Totò in Totò e i re di Roma (di Steno e Mario Monicelli), l’unico film in cui i due giganti della comicità italiana compaiono assieme. Tornò a lavorare alla radio e nel doppiaggio. «L’esito di Mamma mia che impressione! per i produttori non lasciava dubbi. Al mio nome qualcuno faceva persino gli scongiuri quasi fossi uno jettatore» (Liverani, 2014). Solo Federico Fellini, in quel momento difficile della sua carriera, si ricordò di lui: lo chiamò a interpretare Fernando Rivoli, divo dei fotoromanzi, in Lo sceicco bianco (1952). L’apparizione di Sordi in quel film, issato su un’altalena che sembra scendere dal cielo, fu memorabile ma l’insuccesso commerciale (dopo i fischi all’anteprima, alla Mostra di Venezia) fu nuovamente clamoroso. «Concordi nel ritenermi invalido cinematograficamente, i produttori mi indussero a tornare alla radio e al doppiaggio» (Liverani, 2014).
La sua carriera ebbe una svolta nel 1953, per tre motivi. Il primo: Fellini, amico fedele e tenace fin dai tempi duri della guerra, lo volle di nuovo per I vitelloni. Produttori ed esercenti fecero di tutto per convincere il regista a non scritturarlo, ma Fellini riuscì a imporsi. Dovette però accettare che nei manifesti del film il nome di Sordi non apparisse, affinché la gente non scappasse dai cinema. Alla Mostra del cinema di Venezia del 1953 I vitelloni fu un grande successo, e venne distribuito in mezzo mondo; nel 1954 Sordi vinse il Nastro d’argento come miglior attore non protagonista. Un momento della sua interpretazione (il grido «Lavoratori!», accompagnato da una pernacchia e dal gesto dell’ombrello) entrò subito in un’ideale antologia dei momenti ‘cult’ del cinema italiano. Il secondo: prima che I vitelloni cambiasse la vita sua e di Fellini, Sordi era faticosamente riuscito a imporre una propria partecipazione al film corale Un giorno in pretura (1953, di Steno). Uno degli episodi del film era imperniato su un personaggio sul quale l’attore lavorava da tempo, un giovanotto romano ‘plagiato’ dal mito americano: l’aveva rielaborato assieme a Lucio Fulci e Alessandro Continenza e i produttori avevano accettato l’episodio, ma volevano farlo interpretare a Walter Chiari. Sordi e i suoi cosceneggiatori, con l’appoggio di Steno, non cedettero: nacque così il personaggio di Nando Mericoni detto l’Americano, una delle maschere più azzeccate e immortali di tutta la commedia all’italiana, che l’anno successivo sarebbe stato protagonista a tutto tondo di Un americano a Roma (1954, di Steno). È ancora oggetto di dibattito, tra fan e studiosi, se il personaggio si chiami Mericoni, Meliconi o addirittura Moriconi: la pronuncia nei film è spesso confusa, mentre assolutamente certo e indimenticabile è l’appellativo romanesco «A Nando!» che tutti gli altri personaggi gli rivolgono (a cominciare dalla fidanzatina del secondo film, interpretata da Maria Pia Casilio). Il terzo motivo che rese memorabile il 1953 di Sordi fu l’incontro con colui che sarebbe divenuto suo amico, suo partner di scrittura e – per citare un bellissimo libro di Tatti Sanguineti – il suo ‘cervello’: Rodolfo Sonego (1921-2000), bellunese pittore ed ex partigiano (con il nome di battaglia di Benvenuto Cellini), trasferitosi a Roma nel dopoguerra con la speranza di sfondare nel campo dell’arte, ma ben presto ‘catturato’ dal cinema per le sue straordinarie doti di narratore (è uno degli sceneggiatori che, come Luciano Vincenzoni, fu soprannominato ‘dieci in orale’ per la sua abilità nel raccontare i film a voce ai produttori). Il primo film al quale Sonego e Sordi lavorarono insieme fu Il seduttore (1954, di Franco Rossi): solo il primo di una lunghissima serie.
«Fin dal momento in cui interpretai Il seduttore capii che come avevo interpretato quel personaggio potevo interpretarne anche altri. Li potevo fare tutti, perché erano veri, erano tutti personaggi della vita [...]. Capii che li dovevo rappresentare proprio io, e nel più breve tempo possibile. Ce ne avevo talmente tanti dentro e li dovevo fare tutti per forza! [...] e infatti dal ’53 al ’60 io li feci tutti [...]. Cominciavo un genere nuovo che faceva ridere con cose realistiche. Cominciava un genere demolitore, il genere mio» (Livi, 1967). La commedia all’italiana aveva già iniziato a far ridere con «cose realistiche» almeno dai tempi di Totò cerca casa (1949) e Guardie e ladri (1951), entrambi diretti da Steno e Mario Monicelli ed entrambi con Totò. Ma è vero che con l’avvento di Sordi si cambiò registro e si cominciò a far ridere descrivendo personaggi arrivisti, cialtroni, socialmente poco accettabili e spesso sgradevoli.
Nel 1954 interpretò dodici film; nel 1955, otto; e il ritmo non rallentò almeno fino agli anni Sessanta. Non tutti erano ruoli da protagonista, ma anche in alcune caratterizzazioni lasciò un fortissimo segno.
In Il segno di Venere (1955, di Dino Risi) riprese con toni più aggressivi un personaggio di cialtrone imbroglione che mescolava il ‘compagnuccio’ con ‘l’americano’, e per la prima volta incrociò Franca Valeri – autrice del soggetto – con la quale avrebbe dato vita a un duetto formidabile in Il vedovo (1959, di Dino Risi). In Accadde al penitenziario (1955, di Giorgio Bianchi) tratteggiò, in uno degli episodi, un ubriacone coinvolto suo malgrado in un furto il quale, da sobrio e alle prese con un vicecommissario magistralmente interpretato dal caratterista Pietro Carloni, si rivelava un pazzo megalomane. Già in questi anni si sarebbe potuto smontare un luogo comune – anche critico – che ha perseguitato Sordi per tutta la vita: la sua identificazione con vizi e difetti dell’italiano medio. Ettore Scola, che ben lo conosceva, ha sostenuto più volte – anche con chi scrive – una tesi opposta: Sordi è l’italiano impazzito, in cui pulsioni socialmente inconfessabili hanno preso il sopravvento sulla rispettabilità piccolo-borghese. Questa dimensione consentì, e giustificò appieno, prove decisamente surreali come quelle di Mio figlio Nerone (1956, di Steno), di Brevi amori a Palma di Maiorca (1959, di Giorgio Bianchi: il memorabile ‘zoppetto’) o di Piccola posta (1955, di Steno) dove ritrovò Franca Valeri e, nel ruolo di un imbroglione che dirige un ospizio per vecchiette solo per derubarle, raggiunse toni quasi da horror con indiscutibili citazioni visive dal famoso Nosferatu (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau.
Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta vi fu un’ulteriore svolta. La grande guerra (1959, di Mario Monicelli) fu un film decisivo per lui, per Vittorio Gassman, per tutto il cinema italiano e persino per la percezione della prima guerra mondiale nella cultura e nella società italiana. Nei panni di due scansafatiche che diventano eroi senza volerlo, Sordi e Gassman (e Monicelli) trasformarono la commedia all’italiana in un genere che, senza perdere di vista il divertimento, poteva raccontare le grandi tragedie e gli snodi fondamentali della storia del Paese. Il film, realizzato fra mille difficoltà e uscito fra molte polemiche, vinse il Leone d’oro a Venezia e disse al mondo, a chiare lettere, che la commedia all’italiana poteva osare qualunque cosa – anche far morire i propri protagonisti! Sordi proseguì su questa strada con un film altrettanto grande: Tutti a casa (1960, di Luigi Comencini), in cui interpretava un ufficiale sbandato dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Se in La grande guerra la sua maschera era ancora quella del romano fannullone e vigliacco, in Tutti a casa le sue doti di attore si affinarono, la capacità di passare dal comico al tragico al patetico all’eroico nell’arco di una stessa sequenza raggiunse vertici di virtuosismo. Nel 1961, ormai all’apice del successo, fece due film, ma entrambi indimenticabili. Nel corale Il giudizio universale (di Vittorio De Sica) si ritagliò la piccola parte di un mercante di bambini, forse il suo personaggio più sinistro. In Una vita difficile (di Dino Risi) interpretò il ruolo di una vita: Sonego scrisse un copione perfetto ispirato alle sue memorie prima di partigiano, poi di artista squattrinato nella Roma del dopoguerra; lo propose a Sordi e a Risi, e nessuno dei due voleva farlo. Sordi era perplesso all’idea di recitare un personaggio positivo, per di più comunista. Alla fine entrambi si convinsero e, tutti insieme, realizzarono un capolavoro.
A questo punto, per l’attore cominciarono le sfide. In Mafioso (1962, di Alberto Lattuada) fece un siciliano che da tranquillo travèt emigrato al Nord si trasforma in uno spietato killer della mafia. Con Il diavolo (1963, di Gian Luigi Polidoro) realizzò un sogno suo e di Sonego, un film on the road concepito nello spirito di quella che sarebbe stata la New Hollywood diversi anni prima che nascesse: le avventure di un donnaiolo italiano in Svezia girate senza copione, lasciandosi dettare il film dalla realtà. In Il boom (1963) di nuovo De Sica lo guidò nella creazione di un personaggio patetico e inquietante, un uomo disposto a vendere un occhio per racimolare denaro. In Il maestro di Vigevano (1963, di Elio Petri), tratto da un romanzo di Lucio Mastronardi, si calò in un ruolo quasi esclusivamente drammatico per scoprire altri lati oscuri dell’Italia del boom. In I complessi (1965, episodio Guglielmo il dentone, di Luigi Filippo D’Amico) si deformò la dentatura per creare un personaggio al tempo stesso tenero e insopportabile, un ‘mostro di successo’ che rimane fra le sue maschere più indimenticabili. Erano anni in cui quasi tutti i film venivano, in prima battuta, scritti per lui: sia il copione di Il sorpasso (1962) sia quello di I mostri (1963), entrambi di Risi, erano destinati a lui, e la fortuna degli altri ‘colonnelli’ della commedia (Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi) fu che Sordi aveva rallentato i ritmi e non poteva né voleva girare tutti i film che gli venivano proposti.
Nel 1966, un’altra svolta: la regia. Prima con Fumo di Londra, poi con Scusi, lei è favorevole o contrario?, sul tema scottante del divorzio. Dal 1966 al 1998 Sordi diresse 16 lungometraggi e 2 episodi (uno strepitoso: Le vacanze intelligenti, episodio di Dove vai in vacanza?, 1978, con l’adorabile non professionista Anna Longhi che era la sua moglie ideale al cinema). Ma non divenne mai un bravo regista: troppo veloce, troppo autoreferenziale. In realtà il suo capolavoro ‘d’autore’ fu il programma televisivo Storia di un italiano, biografia di un italiano immaginario – e quindi di un Paese – composto attraverso il montaggio di spezzoni di tutti i suoi film. Realizzato per Rete Due assieme a Giancarlo Governi, Sonego e Tatiana Morigi, il programma ebbe ben quattro edizioni dal 1979 al 1986. Nel frattempo, continuò a dare il meglio di sé diretto da registi di talento e di fiducia. Il medico della mutua (1968, di Luigi Zampa) fu uno dei suoi personaggi più arrivisti e sgradevoli, e al tempo stesso più simpatici e popolari (la mostruosità e la simpatia, con Sordi, spesso vanno a braccetto). In Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968, di Ettore Scola) disegnò il ritratto dolente di un imprenditore del boom costretto a effettuare un viaggio in Africa che gli instillerà molti dubbi, sulla vita e su se stesso: va sottolineato, nel finale, un duetto con Nino Manfredi che arrivava nell’ultimo quarto d’ora e si portava letteralmente via il film. Capitava, a questi giganti, di mettersi in gioco: in Nell’anno del Signore (1969, di Luigi Magni) accadeva il contrario, Manfredi era il protagonista, ma Sordi gli rubava la scena con un cammeo travolgente (il frate che deve far pentire i due carbonari condannati a morte).
Gli anni Settanta furono anni di ulteriori scommesse. Detenuto in attesa di giudizio (1971, di Nanni Loy) fu un film civile e drammatico. Lo scopone scientifico (1972, di Luigi Comencini) fu un apologo grottesco nel quale Sordi e Silvana Mangano si confrontano addirittura con Bette Davis, una delle più grandi attrici hollywoodiane. Un borghese piccolo piccolo (1977, di Mario Monicelli), pur con momenti amaramente grotteschi, racconta una tragedia familiare e politica e fu uno dei film che misero una pietra tombale sulla stagione della commedia all’italiana; assieme a I nuovi mostri (1977, di Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola), un film a episodi molto cupo nel quale Sordi, diretto da Monicelli, interpretò forse l’ultimo dei suoi romani repellenti, un aristocratico snob e fascista che raccoglie in macchina un poveretto ferito ma poi, non trovando un ospedale che lo ricoveri, lo riporta nel luogo dove l’aveva trovato.
Dagli anni Ottanta in poi la carriera di Sordi andò in discesa, sia pure con vette – se non altro – di successo al box office come Il marchese del Grillo (1981, di Mario Monicelli) o prove di regia interessanti almeno per l’idea di partenza, come Io e Caterina (1980). Mentre il cinema italiano cercava invano un suo erede, Sordi stesso sembrò individuarlo in Carlo Verdone con il quale girò In viaggio con papà (1982, di Alberto Sordi); mentre un altro romano che a inizio carriera veniva considerato un ‘nuovo comico’, Nanni Moretti, gli riservò uno sberleffo crudele in Ecce Bombo (1978, di Nanni Moretti), la famosa battuta «Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?» che voleva far giustizia del qualunquismo italiano incarnato dai personaggi dell’attore. Che nel frattempo non invecchiava bene, accettando anche ruoli assurdi (don Abbondio nello sceneggiato televisivo I promessi sposi, 1989, di Salvatore Nocita) o dirigendo film inguardabili (come l’opera ultima Incontri proibiti, 1998); ma riuscendo a sfoderare un’ultima zampata nel ‘nerissimo’ Romanzo di un giovane povero (1995, di Ettore Scola).
L’opera di Sordi non effettuò il passaggio dal XX al XXI secolo. Negli ultimi anni apparve qualche volta in televisione, come ospite, e il 15 giugno 2000 (giorno del suo ottantesimo compleanno) fece il sindaco di Roma per un giorno, grazie allo spiritoso e reverente omaggio del primo cittadino Francesco Rutelli.
Ammalatosi di cancro ai polmoni, morì a Roma il 24 febbraio 2003, a 82 anni.
I funerali, davanti a una folla enorme e commossa, si svolsero a Roma nella basilica di San Giovanni in Laterano. Gigi Proietti, uno dei suoi pochi veri ‘eredi’, riprese una gloriosa tradizione romana leggendo un sonetto nello stile di Giuseppe Gioachino Belli. Recitava: «Io so’ sicuro che non sei arrivato / ancora da San Pietro in ginocchione / A mezza strada te sarai fermato / a guarda’ ’sta fiumana de persone / Te rendi conto sì c’hai combinato? / Questo è amore sincero, è commozione / rimprovero perché te ne sei annato / rispetto vero, tutto pe’ Albertone / Starai dicenno “ma che state a fa’? / Ve vedo tutti tristi, ner dolore” / E c’hai ragione: tutta la città / sbrilluccica de lacrime e ricordi / che tu non sei soltanto un grande attore / tu sei tanto de più: sei Alberto Sordi».
Tanti anni prima, Sordi aveva ricevuto dal regista Giuliano Montaldo la proposta di interpretare un film sulla vita di Belli, ma aveva rifiutato proprio perché temeva che, al momento dell’ascesa in Paradiso, san Pietro glielo avrebbe rimproverato. Rimase uno dei film ‘non fatti’ di Sordi, come i progetti non realizzati su Henry Kissinger, sul ‘trombettiere del generale Custer’ John Martin, che si chiamava in realtà Giovanni Martini ed era italiano (progetti sui quali il Fondo Sordi, ospitato presso la Cineteca nazionale di Roma, conserva materiali preziosi); o il sogno di impersonare Benito Mussolini raccontato a Carlo Laurenzi in un’intervista pubblicata sul Corriere della sera del 16 settembre 1967. Ma la sua carriera è stata comunque un’irripetibile cavalcata nella storia, nella cronaca, nel costume e nella cultura di un Paese al quale ha offerto uno straordinario specchio deformante in cui gli italiani potranno, per sempre, vedersi.
Fonti e Bibl.: G. Livi, A. S., Milano 1967; C.G. Fava, A. S., (1979), ed. aggiornata e rivista Roma 2000; M. Porro, S., Milano 1979; G. Fofi, A. S. L’Italia in bianco e nero, Milano 2004; M. Liverani, Sordi racconta Alberto, Roma 2014 (disponibile anche e-book 2014); T. Sanguineti, Il cervello di A. S. Rodolfo Sonego e il suo cinema, Milano 2015; Bianco e nero, a cura di A. Anile, 2018, n. 592, in corso di stampa.