RONCHEY, Alberto
– Nacque a Roma il 27 settembre 1926 da Ugo, piccolo commerciante di idee repubblicane, e da Maria Cardinali.
La famiglia paterna, di lontane origini scozzesi (il cognome originario era Ronckey, come egli stesso confessò a Pierluigi Battista nel 2004 in un libro-intervista, Il fattore R), vantava una lunga tradizione di impegno politico: degna di menzione è la figura di Amos Ronchey, fervente patriota, capitano dell’esercito garibaldino e a più riprese deputato tra il 1861 e il 1882.
Primo di quattro fratelli, Alberto trascorse una giovinezza non particolarmente agiata, cui contribuirono sia le privazioni del tempo di guerra sia, certamente, l’attivismo politico del padre, antifascista schedato e militante di spicco del Partito repubblicano italiano (PRI). La necessità di concorrere al bilancio familiare non gli impedì, tuttavia, di soddisfare la propria vocazione allo studio. Frequentò il liceo classico Virgilio, dove ebbe tra gli insegnanti l’italianista Carlo Dionisotti.
In quegli anni, l’incontro con Giovanni Conti, repubblicano storico e già deputato nell’Italia prefascista, ne segnò l’avvio della militanza politica. Ancora giovanissimo, offrì il proprio apporto alla lotta di Resistenza nei mesi dell’occupazione nazista.
Contestuale al battesimo politico fu l’ingresso nel mondo del giornalismo. Fin dal luglio del 1943 lavorò per l’edizione clandestina della Voce repubblicana, organo del PRI; curò inoltre la stampa dell’Alba repubblicana, organo della Federazione giovanile repubblicana (FGR).
Dopo la guerra, benché lo animasse una vivace passione per la storia, l’esigenza di lavorare lo portò a iscriversi alla facoltà di giurisprudenza, che non obbligava a seguire i corsi. Avrebbe conseguito la laurea discutendo con Gaspare Ambrosini una tesi in diritto costituzionale (Le autonomie regionali e la Costituzione, pubblicata nel 1952).
Negli anni dell’università, seguitò ad affiancare all’attività giornalistica quella politica all’interno della FGR, di cui ricoprì anche la carica di segretario (febbraio 1946-gennaio 1947). Di convinzioni laiche, in prossimità delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 visse con disagio la decisione del partito di allearsi con la Democrazia cristiana, pur ritenendola inevitabile se si voleva contrastare il Fronte democratico popolare (l’alleanza elettorale promossa dai partiti comunista e socialista). Contribuì alla campagna elettorale come responsabile del settimanale L’epoca nuova, fondato da Conti nel dicembre del 1947.
Il 14 luglio, nelle ore concitate che seguirono l’attentato a Palmiro Togliatti, conobbe Vittoria Aliberti – allora assistente di Guido De Ruggiero, professore di storia della filosofia all’Università di Roma –, che sei anni dopo avrebbe sposato e dalla quale avrebbe avuto nel 1958 una figlia, Silvia.
A partire da quel 1948, il suo attivismo politico andò progressivamente diradandosi in favore di una più intensa dedizione al giornalismo. Guardò con interesse all’ascesa nel partito di Ugo La Malfa, di cui apprezzava l’approccio pragmatico, la passione per l’economia e il liberalismo di stampo keynesiano. Redattore e corsivista della Voce, s’impiegò anche come traduttore presso il servizio esteri dell’Agenzia nazionale stampa associata (ANSA).
Nell’agosto del 1954, su proposta di Oronzo Reale, divenne vicedirettore responsabile della Voce, assumendone di fatto la guida fino al maggio del 1956.
Da tempo andava però coltivando il desiderio di evadere dai confini del giornale di partito. Un anelito d’indipendenza che, fin dai primi anni Cinquanta, l’aveva spinto ad avvicinarsi al circolo del settimanale Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio, affascinato da quel tentativo di costruire una ‘terza forza’ laico-liberale alternativa alle due ‘chiese’, cattolica e comunista.
Determinante nella sua formazione il rapporto con Pannunzio, dal quale ereditò lo stile concreto, ellittico ed elegante, e che sempre considerò suo ‘maestro di scrittura’. Scrisse sul Mondo fino alla sua chiusura, nel 1966.
Dopo una breve collaborazione (febbraio 1955-aprile 1956) con il Resto del Carlino – diretto dall’amico Giovanni Spadolini –, nel maggio del 1956 lasciò La Voce. Approdò quindi come articolista al Corriere della sera – diretto da Mario Missiroli –, e fu corrispondente politico da Roma per la sua edizione pomeridiana, il Corriere d’informazione, diretto da Gaetano Afeltra.
Nel luglio del 1959, chiamato alla Stampa dal direttore Giulio De Benedetti, fu inviato a Mosca come corrispondente, per quella che si rivelò la più formativa fra le sue esperienze. Con i suoi reportage contribuì a modificare la percezione occidentale della potenza sovietica, rivelando le contraddizioni di una società sospesa fra imponente progresso scientifico e miseria del vivere quotidiano. Impressioni condensate, al rientro, in un lungo saggio sul Mondo (Ritorno dall’URSS. La spada e la luna, 22 agosto 1961, p. 1) e più oltre rielaborate nel libro La Russia del disgelo (1963).
Il 10 novembre 1961 pubblicò sulla Stampa un articolo (Il tragico destino dei fuoriusciti italiani comunisti) in cui faceva luce, tra i primi in Italia, sulla sorte dei comunisti italiani emigrati in Unione Sovietica e sprofondati nella rete del gulag: una vicenda rimasta per anni ai margini del discorso pubblico.
Inviato speciale, nello stesso mese fu in Congo, a Kindu (unico fra i connazionali a poter entrare in città), da dove inviò alla Stampa, tra il 18 e il 1° dicembre, vari articoli in cui ricostruiva le circostanze in cui tredici aviatori italiani – facenti parte del contingente delle Nazioni Unite inviato a ristabilire l’ordine in quel Paese, sconvolto dalla guerra civile – erano stati barbaramente trucidati l’11 novembre.
Cominciò da lì un lungo girovagare da ‘cronista con la valigia’ che, per sette anni, lo portò in ogni angolo del globo. Seguì da Hong Kong lo strappo fra Unione Sovietica e Cina (Russi e cinesi, 1964). Scrisse dalle maggiori capitali europee, e poi da Cipro, India, Giappone, Cuba e, per undici volte, dagli Stati Uniti (L’ultima America, 1967). Europeista convinto, sostenne la necessità di una moneta unica europea (Le crisi della moneta in Europa..., in La Stampa, 22 novembre 1968, p. 1). In Italia, visse con delusione la travagliata stagione del centrosinistra, nella quale aveva riposto speranze di modernizzazione del Paese.
Collaborò con la RAI (allora diretta da Ettore Bernabei), realizzando vari documentari. Ma guardò sempre con diffidenza al mezzo televisivo, i cui ritmi riteneva inconciliabili con la sua idea di giornalismo concettuale e rigoroso.
Nell’ottobre del 1968, cooptato nel consiglio d’amministrazione della RAI come indipendente in quota PRI, rinunciò alla nomina, denunciando, in una lettera inviata il giorno 14 a La Malfa, quel principio di spartizione delle cariche che – con un termine mutuato dall’urbanistica e destinato a grande fortuna – definì «lottizzazione» (Roma, Archivio storico del Senato della Repubblica, Fondo Alberto Ronchey, b. 26, s. 4, Lettera di Alberto Ronchey a Ugo La Malfa, 14 ottobre 1968).
Il 5 dicembre, scelto da Gianni Agnelli (presidente della FIAT e proprietario dei due giornali), assunse la direzione della Stampa e della sua edizione pomeridiana, Stampa sera. Senza mutare l’indirizzo liberalriformista impresso al giornale da De Benedetti, operò per ampliarne gli orizzonti, aprendolo alla dimensione internazionale e ai grandi temi economici. Chiamò accanto a sé firme prestigiose e giovani di talento, creò l’inserto mensile Europa e dedicò una cura estrema alla qualità di quello che Guido Piovene definì «giornale d’autore» (L’«Atlante» di Ronchey. Idoli e ragione, in La Stampa, 13 maggio 1973, p. 3). In un periodo critico della storia d’Italia, rivendicò sempre la propria autonomia di giudizio, non lesinando critiche a una classe politica cui rimproverava incapacità di governo e sostanziale immobilismo.
Nonostante il gravoso impegno quotidiano, non abdicò alla sua passione per lo studio. Scrisse il lungo saggio Prospettive del pensiero politico contemporaneo (pubblicato in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo, Torino 1970, pp. 718-878) e l’Atlante ideologico (1973), probabilmente il suo libro di maggior successo.
Il 4 maggio 1973, logorato dalle fatiche della direzione del giornale e, soprattutto, in apprensione per la salute dei familiari, da tempo vittime di intimidazioni terroristiche, rassegnò le dimissioni.
Per La Stampa firmò ancora due ampi reportage, dall’Unione Sovietica «superpotenza sottosviluppata» (America e Russia: crisi a confronto, in La Stampa, 3 ottobre 1973, p. 1) e dagli Stati Uniti della presidenza di Richard Nixon, poi confluiti nei volumi Ultime notizie dall’URSS (1974) e La crisi americana (1975).
Nell’ottobre del 1974 lasciò Torino e si trasferì al Corriere della sera diretto da Piero Ottone.
Docente di sociologia economica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, vicino al pensiero di Raymond Aron, difensore del principio di realtà contro utopie e populismi, dedicò alla crisi italiana analisi taglienti (Accadde in Italia. 1968-1977, 1977; Libro bianco sull’ultima generazione, 1978). Curò anche un libro-intervista a La Malfa, Intervista sul non-governo (1977). Dal suo mentore politico aveva intanto accolto (di malavoglia, e senza risultare eletto) la proposta di candidarsi alle elezioni del 1976 nelle liste dell’Alleanza laica.
Analista politico di caratura internazionale, autorevole studioso delle due superpotenze (USA-URSS, i giganti malati, 1981), negli anni Settanta Ronchey fu tra i protagonisti del dibattito pubblico. Critico verso i comunisti italiani, venne a trovarsi spesso in polemica con loro, e fu tra i bersagli prediletti del corsivista Fortebraccio (Mario Melloni), che sull’Unità lo ribattezzò «Ingegnere» per il suo costante ricorso alle statistiche.
Il 30 marzo 1979, in un articolo apparso sul Corriere della sera (La sinistra e il ‘fattore K’), introdusse nel lessico politico una formula destinata a campeggiare per anni sulle pagine dei giornali. Ancorché spesso male interpretato, quel neologismo (ispirato alla parola russa kommunizm) intendeva descrivere l’anomalia tutta italiana di un partito comunista talmente forte da impedire, in assenza di una compiuta svolta nei rapporti con l’Unione Sovietica, una reale alternanza di governo (un tema ripreso in forma più ampia nel suo libro Chi vincerà in Italia? La democrazia bloccata, i comunisti e il ‘fattore K’, 1982).
Nel settembre del 1981, dopo lo scoppio dello scandalo della loggia massonica ‘deviata’ P2, lasciò il Corriere (le cui sfere dirigenti, si era scoperto, erano state pesantemente infiltrate da uomini legati alla P2) e passò a la Repubblica, diretta da Eugenio Scalfari, dove fino al 1984 curò lo spazio settimanale Diverso parere. Nello stesso periodo tenne anche la rubrica Il dubbio sull’Espresso diretto da Arrigo Benedetti.
Dal 1984 al 1988 fu nuovamente al Corriere, diretto da Piero Ostellino, per poi fare ritorno al quotidiano di Scalfari. Registrò senza sorprese il crollo del modello comunista, ma non nascose i rischi connaturati al sistema economico occidentale (I limiti del capitalismo, 1991).
Dal giugno del 1992 al maggio del 1994 ricoprì la carica di ministro per i Beni culturali e ambientali nei governi Amato e Ciampi. Legò il suo nome alla legge n. 4 del 14 gennaio 1993 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 novembre 1992, n. 433, recante misure urgenti per il funzionamento dei musei statali: la cosiddetta legge Ronchey), che per la prima volta aprì all’intervento dei privati nella valorizzazione del patrimonio culturale.
Presidente tra il 1994 e il 1998 del gruppo editoriale RCS (Rizzoli-Corriere della sera) e tra il 1998 e il 2002 membro del consiglio di amministrazione della HdP (Holding di Partecipazioni industriali), non cessò di guardare con occhio critico alla realtà italiana (Fin di secolo in fax minore, 1995; Atlante italiano, 1997; Accadde a Roma nell’anno 2000, 1998). Dal 1998 tornò a scrivere sul Corriere e nel 2004 delineò la propria autobiografia intellettuale nel citato Il fattore R.
Figura poliedrica di giornalista-studioso, Ronchey fu uno degli intellettuali più influenti del secondo dopoguerra. Refrattario alla retorica e alle ‘grandi narrazioni’, incarnò per tutta la vita un giornalismo di stampo ‘anglosassone’, asciutto, pragmatico, ancorato ai fatti più che alle opinioni. Inguaribile perfezionista, pagò forse in termini di popolarità la sua propensione all’approfondimento; ma seppe incidere nella memoria collettiva per l’acutezza dello sguardo e per l’estro con cui si fece inventore di memorabili neologismi.
Morì a Roma il 5 marzo 2010.
Opere. Oltre ai testi già citati si vedano i volumi: Diverso parere (1983), Giornale contro (1984), Viaggi e paesaggi in terre lontane (2007) e l’antologia postuma Giornalismo totale (a cura di A. Sinigaglia, 2010); nonché le prefazioni a: C. Bernstein - B. Woodward, L’affare Watergate, Milano 1974 (trad. it. di All the President’s men, New York 1974); R. Aron, L’etica della libertà, Milano 1982 (trad. it. di Le spectateur engagé, Paris 1981); R. Aron, Memorie, Milano 1984 (trad. it. di Mémoires, I-II, Paris 1983).
Fonti e Bibl.: Le carte del giornalista sono conservate a Roma, presso l’Archivio storico del Senato della Repubblica, Fondo Alberto Ronchey; la sua biblioteca (circa tremila volumi) è ospitata invece presso l’Università di San Marino. Notizie e aneddoti biografici si trovano nei necrologi stampati dai maggiori quotidiani nazionali il 9 marzo 2010, oltre che nei già citati Il fattore R e Giornalismo totale. Per ulteriori rimandi bibliografici si veda A. Nelli, Ronchey. La Russia, l’Italia e il fattore K, Pisa-Cagliari 2013.