MILIOLI, Alberto
– Figlio di Gerardo, nacque a Reggio nell’Emilia verso il 1220; nulla si sa della madre. La famiglia paterna è presente, dall’inizio del Duecento fino al Trecento inoltrato, fra quelle emergenti nella vita comunale reggiana: una posizione di rilievo dovuta anche alla professione notarile svolta da vari esponenti. Fra questi lo stesso M., che risulta iscritto nelle prime matricole dei notai reggiani, redatte nel 1268 e nel 1272.
L’origine del nome va ricondotta, secondo tradizioni interne alla famiglia e per ragioni che rimangono oscure, a milvus (nibbio, sparviero), come testimoniano atti rogati dal M., che nel suo elegante signum tabellionis delinea un rapace coronato da croce punteggiata. Il padre Gerardo era ancora vivo nel 1247, quando il M., residente con la famiglia nel quartiere cittadino di S. Pietro, si sottoscrive, nelle sue prime rogazioni, «filium Gerardi», ed era certamente già morto nel 1265, come si può dedurre dalla sottoscrizione di quell’anno «Albertus quondam Gerardi». Scarne ma coerenti testimonianze documentano la presenza assidua dei Milioli nella vita pubblica reggiana fra Due e Trecento: un antenato del M., Bernardo, è presente come teste in un atto rogato in città nel dicembre 1204, e alcuni suoi discendenti, fra cui Zaccaria e Franceschino, risultano attivi sulla scena cittadina nel secondo e terzo decennio del Trecento; Zaccaria poi, forse figlio del M. e come lui notaio, ricoprì alla fine degli anni Venti ruoli di rilievo nella vita politica comunale.
La carriera pubblica del M., notaio, calligrafo e miniatore al servizio del Comune di Reggio, iniziò nel 1247 e si sviluppò per un lunghissimo periodo se, come vogliono gli studi più recenti (cfr. Scalia; Arnaldi), al momento della morte, sopraggiunta poco dopo il 1285, stava ancora trascrivendo per il Comune la cronaca ufficiale con il titolo Liber de temporibus. Opera che invece, secondo O. Holder-Egger, editore del testo nei Monumenta Germaniae Historica, lo stesso M. avrebbe composto, e non solo trascritto, a partire dal 1273 quando era stato ormai sollevato da ogni incarico pubblico.
Il suo impegno per le istituzioni comunali attraversò regimi politici di opposta ispirazione ideologica: il primo importante incarico, la trascrizione in copia autentica delle Consuetudini del 1242, la più antica codificazione reggiana nota, lo ottenne nel 1247, quando le istituzioni comunali erano saldamente nelle mani della parte ghibellina; ma commissioni ancora più rilevanti gli furono poi assegnate dai guelfi che, guidati dai Roberti e dai Fogliano, conquistarono il potere nel marzo del 1265 esiliando dalla città i principali esponenti della parte avversa. Come effetto di una eccellente reputazione professionale di calligrafo e miniatore, ma forse anche di riconosciuti equilibrio politico e sensibilità istituzionale, il M. ricevette, nello stesso 1265, dal podestà Iacopino Rangoni l’incarico di realizzare due copie, in elegante veste miniata, della nuova codificazione statutaria, destinate l’una agli uffici del Comune, l’altra alla sagrestia del duomo. Proprio a questo manoscritto, oggi noto come codice «A» degli Statuti di Reggio, conservato fino al XVII secolo presso la chiesa madre, in seguito nell’Archivio comunale e oggi nell’Archivio di Stato di Reggio Emilia, il M. si dedicò dal 1266 al 1268, trascrivendo prima la legislazione del 1265 (libri I-IV) e successivamente quelle del 1266-68 (libri V-IX). Ne risultò un’opera assai accurata dal punto di vista grafico, per l’eleganza della scrittura, delle rubriche e dei capilettera miniati. Erano certamente questi gli ambiti in cui il M. sapeva offrire il meglio di sé.
Meno felici furono gli esiti della sua applicazione al campo propriamente redazionale, come dimostra il libro V degli Statuti (1266): in quell’occasione il M. era stato promosso al ruolo di notaio rogatario, all’interno della commissione statutaria, ma i risultati insoddisfacenti di quella redazione, giudicata alquanto incoerente sul piano giuridico, lo indussero a rientrare, per i successivi volumi VI-IX (1266-68), nei panni per lui più adeguati di calligrafo e miniatore. Anche perché gli impegni in questo settore si andavano intensificando: nel 1268 si accingeva a trascrivere l’altra copia degli Statuti, nota come codice «B», quella destinata agli uffici comunali e anch’essa conservata nell’Archivio di Stato di Reggio Emilia; per quest’opera, realizzata con criteri meno calligrafici, il M. fu affiancato da un notaio, essendo contemporaneamente impegnato in altri lavori. Nel secondo semestre del 1269, il podestà Oddo degli Oddi affidò a una commissione composta da alcuni notai, fra cui il M., l’importante incarico di trascrivere e aggiornare in un nuovo registro il vecchio Liber iurium del Comune, redatto dopo che un incendio aveva parzialmente distrutto, nel 1226, l’Archivio pubblico, e integrato nei decenni successivi, ma nel frattempo assai deteriorato per l’uso. L’operazione proseguì fino al 1272, su mandato dei successivi podestà Tiberio Rustici e Stoldo Rossi, e si concretizzò nel Liber grossus antiquus, in cui il M. copiò e sottoscrisse numerosi atti.
Più o meno nello stesso periodo (1272-73), la sua attività di pubblico copista e miniatore doveva estendersi dall’ambito dei documenti normativi a quello della storiografia comunale. A questo si lega la questione dibattuta dagli storici, e in gran parte ancora insoluta, del rapporto fra il M. e i testi noti come Liber de temporibus e Cronica imperatorum, tramandati insieme come Doppia cronaca di Reggio, e in unica copia, dal ms. M.1.7 della Biblioteca Estense universitaria di Modena.
Il primo a occuparsi in modo approfondito della Doppia cronaca fu, negli anni Ottanta del XIX secolo, I. Malaguzzi Valeri, che notò l’identità di scrittura fra il codice estense e quello degli Statuti reggiani (codice «A»), e la segnalò a O. Holder-Egger, incaricato dell’edizione della cronaca nella serie Scriptores dei Monumenta Germaniae Historica. Estesa dall’editore, nel 1891, al confronto con il codice «B» degli Statuti (conservato nell’Archivio di Stato di Reggio Emilia) e con il Libro grosso antico, l’analisi paleografica, corretta almeno per quanto riguardava il Liber de temporibus, portò tuttavia a deduzioni ingiustificate sulla paternità dell’opera. Holder-Egger non esitava infatti, nell’ampia e dottissima introduzione allestita nel 1903 per l’edizione della Doppia cronaca, a identificare nel M. non solo il copista, ma il suo vero autore. Non sfuggirono, certo, allo studioso tedesco le numerosissime incongruenze del testo, che anzi egli ripetutamente definiva come una stravagante congerie di ignoranza storica, assurdità concettuali e mostruosità linguistiche. E tuttavia queste evidenze, anziché portarlo alla logica conclusione che il copista si era trovato a dover trascrivere uno o più testi altrui, enormemente al di sopra delle sue limitate conoscenze, lo indussero ad attribuire al M., notaio di modestissima statura intellettuale e culturale, quasi del tutto all’oscuro della lingua latina, il bizzarro progetto di scrivere una storia universale, incentrata cioè non sulle vicende cittadine, ma su quelle del Papato e dell’Impero. Le prime critiche alle conclusioni di Holder-Egger sulla possibilità di attribuire a un unico autore la Doppia cronaca di Reggio e di identificare con lui proprio il M. vennero già nel 1910 da A. Cerlini, che studiava i rapporti fra le cronache reggiane e quella del francescano Salimbene (Ognibene) de Adam e che sarebbe tornato sull’argomento una ventina di anni più tardi, occupandosi ancora di Salimbene ma anche dell’edizione degli Statuti reggiani trascritti e miniati dal Milioli. Va rilevato tuttavia che queste ben argomentate perplessità non erano state minimamente recepite, ancora nel 1940, da L. Simeoni, che nel commento della Vita Mathildis di Donizone, pubblicata nella seconda edizione dei Rerum Italicarum Scriptores, continuava ad attribuire al M. il Liber de temporibus e la parafrasi del poema di Donizone in esso contenuta, pur osservando a varie riprese la totale e trasparente incapacità, da parte del M., di comprendere il significato di ciò che andava scrivendo.
La revisione critica dell’intera questione venne proposta, negli anni Sessanta del Novecento, da due studiosi che, procedendo indipendentemente e su percorsi tematici del tutto autonomi, giunsero a conclusioni in gran parte convergenti. Preparando l’edizione critica della Cronica di Salimbene, pubblicata nel 1966, G. Scalia si imbatté inevitabilmente nella Doppia cronaca di Reggio, che con l’opera del cronista francescano aveva relazioni assai strette e complesse. Le conclusioni della sua analisi, condotta in termini sia paleografici sia filologici, portarono in primo luogo a limitare l’intervento del M. al Liber de temporibus, escludendolo invece per la Cronica imperatorum, che si rivelava scritta da altra mano. Quanto al problema della paternità del Liber, fonte principale della Cronica di Salimbene per gli anni 1154-1280, Scalia, recuperando tutta la tradizione precedente, riassumeva la struttura e la composizione estremamente complesse dell’opera, che assembla in modo non sempre coerente numerose fonti, fra cui, per il periodo 1154-1273, una cronaca reggiana di impianto annalistico oggi perduta e, per gli anni 1281-85, lo stesso Salimbene. Scalia arrivò dunque a concludere che in quel coacervo storiografico il ruolo del M. non poteva essere quello dell’autore, ma più modestamente quello del copista, incaricato dal Comune di trascrivere in forme adeguatamente solenni una cronaca designata come «ufficiale» e destinata quindi a essere conservata anch’essa nella sagrestia della chiesa madre (il luogo di conservazione è confermato da alcune note individuate dallo studioso nel manoscritto). Di pubblica storiografia comunale, di cronache ufficiali dunque, si stava occupando più o meno negli stessi anni G. Arnaldi, che per questa via era destinato a incontrare il M. e la sua presunta opera. Il Liber de temporibus, anzi, doveva assumere un ruolo significativo, a prescindere dai suoi valori storici e letterari, nell’ampia casistica, delineata da Arnaldi, della storiografia comunale: proprio quel testo, infatti, rappresentava il caso emblematico di un’opera non concepita all’origine come cronaca cittadina, ma a posteriori adottata come tale dalle autorità. E certo il Liber de temporibus, opera di autore anonimo, probabilmente un monaco, era lontanissimo, per la sua origine e per l’impianto universalistico, dal tipo ideale della cronaca municipale rappresentato dagli Annali genovesi. E tuttavia, come argomenta Arnaldi, in mancanza di meglio, il Comune di Reggio aveva deciso di farne la propria «storia» ufficiale, da affiancare nell’Archivio pubblico agli Statuti, affidandone quindi la trascrizione, come per questi ultimi, al proprio copista e miniatore di fiducia. Le riflessioni parallele di Scalia e Arnaldi sono quelle a cui, sul tema della Doppia cronaca di Reggio, si ispira la critica successiva, ben rappresentata dal Repertorio della cronachistica emiliano-romagnola.
Il M. morì a Reggio Emilia fra il 1285 e il 1287.
Fonti e Bibl.: Donizone, Vita Mathildis …, a cura di L. Simeoni, in Rer. Ital. Script., 2a ed., V, 2, pp. XXV-XXVIII; A. Milioli, Liber de temporibus et aetatibus et Cronica imperatorum, a cura di O. Holder-Egger, in Mon. Germ. Hist., Scrip., XXXI, Hannoverae 1903, pp. 336-352; Consuetudini e Statuti reggiani del secolo XIII, a cura di A. Cerlini, I, Milano 1933, pp. XII-LXXIX; Liber grossus antiquus Comunis Regii (Liber pax Constantiae), a cura di F.S. Gatta, I, Reggio Emilia 1944, pp. XII, XXII-XXIV; Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, I, Bari 1966, pp. 963-979; A. Cerlini, Fra Salimbene e le cronache attribuite ad A. M., in Archivio Muratoriano, VIII (1910), pp. 383-409; Id., Fra Salimbene e le cronache attribuite ad A. M., II, in Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, XLVIII (1932), pp. 57-130; G. Arnaldi, Studi sui cronisti della Marca trevigiana nell’età di Ezzelino da Romano, Roma 1963, pp. 138 s.; Id., Il notaio cronista e le cronache cittadine in Italia, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche. Atti del I Congresso internazionale della Società italiana di storia del diritto, Firenze 1966, pp. 293-309; Id., Cronache con documenti, cronache «autentiche» e pubblica storiografia, in Fonti medioevali e problematica storiografica. Atti del Congresso internazionale … 1973, Roma 1976, pp. 351-374, in particolare pp. 369 s.; Repertorio della cronachistica emiliano-romagnola (secc. IX-XV), Roma 1991, pp. 229-233; Rep. font. hist. Medii Aevi, VII, p. 258.
M. Giansante