Alberto Magno (Alberto de la Magna, Alberto di Cologna, Alberto)
Filosofo (nato a Lauingen tra il 1193 e il 1206; morto a Colonia nel 1280); studiò a Padova, dove si fece domenicano nel 1223. Negli anni 1228 e seguenti insegnò a Colonia, a Hildesheim, a Friburgo, a Ratisbona e a Strasburgo. Nel 1245 tenne corsi a Parigi, dove ottenne il grado di maestro in teologia, restandovi sino al 1248, quando tornò a Colonia per dirigere il nuovo ‛ Studium generale '. A Parigi, forse, e a Colonia, di certo, ebbe s. Tommaso tra i suoi discepoli (D. mostra di conoscere questo rapporto: cfr. Pd X 97-99).
Secondo la cronologia del Pelster, A. compose la Summa de creaturis e il commento alle Sententiae di Pier Lombardo nel periodo della giovinezza, mentre nella maturità (1256-1270) - non prima, come voleva il Mandonnet - parafrasò ed espose le opere di Aristotele (Organon, Physica, De Coelo, De Meteoris, De Mineralibus, De Anima, De Sensu et sensato, De Memoria et reminiscentia, De Intellectu et intelligibili, De Vegetabilibus, Metaphysica, ecc.); dopo il 1270 avrebbe scritto il De Unitate intellectus, il De Animalibus (di cui originariamente doveva far parte il De Natura et origine animae) e la Summa theologiae.
Con queste e altre opere di teologia, di filosofia e di scienze naturali, A. esercitò una vasta influenza sulla formazione culturale dei contemporanei, che lo considerarono ‛ doctor universalis ' e, come dice un suo avversario, Ruggero Bacone, " primus magister de philosophia ". Raimondo Martini lo chiama " magnus philosophus " nel 1278. L'appellativo di ‛ Magnus ' è documentato in un testo del 1343, ma senza dubbio gli fu attribuito molti anni prima.
Solo a cominciare dall'Ottocento, col Philalethes, i dantisti ricorsero alle opere di A. per intendere le dottrine medievali di D. (B.Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672, 63). L'esempio fu seguito da altri (vedi, ad es., P.Toynbee, Ricerche e note dantesche, s. I, Bologna 1899, 33-46), le cui collazioni, peraltro, furono condizionate dalla poca conoscenza che si aveva di A. e dalle tendenze neoscolastiche e tomistiche che in quel tempo dominavano la storiografia filosofica medievale. E così i commenti alla Commedia e al Convivio continuarono ad appoggiarsi sui testi di s. Tommaso, anche quando non facevano al caso o erano malamente intesi (v. la critica di B.Nardi, Saggi di filosofia dantesca, pp. 341-380, a G. Busnelli, Cosmogonia e antropogenesi secondo Dante A. e le sue fonti, Roma 1922). Le abitudini dei dantisti subirono una violenta sterzata a cominciare dagli anni in cui agli studi neoscolastici e tomistici si sostituirono o si accompagnarono le vere e proprie ricerche di storia della filosofia medievale, arrivando alla tesi del Nardi, secondo il quale la cultura filosofica di D. dipende da A. assai più che da s. Tommaso (Saggi, cit., p. 63; Nel mondo di D., Roma 1944, 367; Dal " Convivio ", p. 29). Ma per essere vera del tutto, la tesi del Nardi esige ancora analisi comparate, se non ricerche per una difficile o impossibile documentazione positiva, al fine di eliminare l'ambigua prospettiva metodica, comune ai filosofi dantisti, o dantisti filosofi che dir si vogliano. Essi leggono e allegano testi medievali per rendere intelligibili le dottrine medievali di D.; orbene, non tutti i testi che rendono a noi intelligibili le dottrine dantesche furono, ipso facto, le fonti positive e immediate del pensiero e della cultura di Dante. Un rapporto positivo e diretto costituisce un fatto storico, e come tale va provato con argomentazioni storicamente e filologicamente positive, non col puro e semplice rilievo di un'analogia dottrinaria. Altro è una comunanza di dottrina, i cui legittimi titolari non vengono tutti identificati, altro è la dipendenza di uno scrittore da un determinato maestro di una determinata dottrina. Perché i testi di A. o di altri filosofi costituiscano fonti di un D., là ove D. non dichiara esplicitamente e controllabilmente la sua derivazione, quei testi devono risultare gli unici a formulare quella particolare dottrina, oppure devono essere corredati di note caratteristiche e contingenti che in modo egualmente caratteristico e contingente si riproducano nelle opere dell'Alighieri.
Di questa esigenza doveva essere consapevole il Nardi, quando dichiarava, nello studio su D. e Pietro d'Abano, del 1920: " Ogni mia indagine, ora come per il passato, ha avuto di mira una cosa sola: quella di capire il pensiero di D. nel suo genuino significato storico, col sussidio di quei documenti contemporanei che maggiormente mi aiutassero a intendere problemi e dottrine, e mi chiarissero l'ambiente spirituale in cui il pensiero del divino poeta si maturò " (in Saggi, cit., pp. 40-41), respingendo esplicitamente il pericolo che il suo Pietro d'Abano potesse passare per fonte di D.: " Chi s'attendesse per avventura ch'io rivelassi una nuova ‛ fonte ' del pensiero filosofico di D., scoperta da me negli scritti del... filosofo d'Abano, è bene che rinunzi subito a questa aspettativa. A me non consta che alcuna delle opere del maestro padovano sia per caso venuta tra le mani del poeta fiorentino... Lo scopo di questo breve scritto non è... di scoprire una ‛ fonte ' in senso empirico... ho sempre fatto poco caso di simili ricerche " (ibid. p. 40). L'illustre dantista premise una dichiarazione simile all'intera raccolta dei Saggi di filosofia dantesca (VIII: " Né si creda che mi sia proposto di dimostrare quali sono le ‛ fonti ' del pensiero dantesco... Questo genere di ricerche empiriche, nella maggior parte dei casi, è impossibile; ma è anche perfettamente inutile. Utilissima, invece, anzi necessaria, è la conoscenza dei problemi e delle preoccupazioni intellettuali che formano l'ambiente spirituale nel quale il pensiero filosofico di D.... si maturò "), ed è presumibile che abbia seguito lo stesso criterio per buona parte delle sue letture e allegazioni albertine, anche se, dopo aver illustrato la peculiarità della filosofia di A. rispetto a quella di s.Tommaso e la sua maggiore affinità con le dottrine filosofiche dantesche, credette di dover considerare A. fonte dell'Alighieri.
In realtà, il rapporto che corre tra il ‛ dottore universale ' e D. si configura anche in termini positivi: per le caratteristiche proprie degli scritti di A. e per il successo che ottennero quale fonte d'informazione per gli studiosi dei secoli XIII-XIV; per alcune dichiarazioni in cui D. dice A. sua fonte; per alcune dottrine che, allo stato attuale delle conoscenze, sembrano peculiari a D. e ad A.; per alcune prospettive filosofiche fondamentali, comuni al filosofo tedesco e al poeta fiorentino.
A. e la cultura del suo tempo. - Nel secolo XIII la cultura cristiana di lingua latina dovette affrontare la crisi più grave della sua storia, perché all'improvviso si trovò di fronte a un rigoroso sistema scientifico, che in forma organica investiva tutto il mondo delle sue realtà, negando alcuni postulati religiosi, quali la creazione, la provvidenza e l'immortalità personale dell'anima, o pronunziandosi, se non in termini negativi certo alla luce di un metodo nuovo e autonomo, su molte materie in cui la fede non aveva avuto concorrenti o rivali nei secoli anteriori, durante i quali la cultura profana era rappresentata dalla modesta o irrilevante consistenza speculativa delle arti liberali. I teologi non potevano né respingere in blocco, né correggere in parte, né cristianizzare in qualche modo il nuovo sistema senza conoscerlo adeguatamente; per di più, essi stessi si trovavano improvvisamente impegnati a portare la disciplina cristiana e le relative conoscenze preparatorie al livello del nuovo metodo razionale e scientifico, che i testi di Aristotele e dei commentatori venivano illustrando. Infine, c'erano i risultati positivi della speculazione razionale, che si sostenevano da sé, senza chiedere un benestare ad alcun'altra disciplina. Alla certezza della fede si appaiava la certezza della scienza: la teologia doveva accettarne perlomeno la coesistenza, mentre i cristiani dovevano acquistarla, se non volevano perdere l'equilibrio teologico e umano di una coscienza e di una scienza totale.
All'impresa di esplorare e far conoscere la cultura scientifica degli antichi più di ogni altro si consacrò A., che ne fece lo scopo della sua vita: " nostra intentio est omnes dictas partes [fisica, metafisica e matematica] facere Latinis intelligibiles " (Phys. I I 1). Egli non si limitò a chiarire i testi (" littera ") di Aristotele in forma di parafrasi, ma ne interpretò le idee alla luce dei commentatori arabi e giudei, e ne discusse i problemi con ampie e molteplici digressioni, che non di rado suppongono l'insegnamento orale. Quella che Gilson chiama la sua " eroica avidità " di conoscere tutto, dalla fisica astronomica alla tecnica del giardinaggio (" Haec enim scire non solum delectabile est studenti naturam rerum cognoscere, quinimo est utile ad vitam et civitatum permanentiam ": cfr. É.Gilson, La philosophie au Moyen Age, Parigi 1952, 504), fu provvidenziale per la formazione scientifica della sua epoca. In breve tempo A. preparò una serie di enciclopedie, nelle quali inventariava una massa sterminata di informazioni e di idee.
Interessato alla ‛ notitia ', non sempre egli discuteva il valore dei reperti ideologici che raccoglieva, e non sempre attraverso la valutazione critica e comparata perveniva a un giudizio di scelta teorica. Di certo egli manifesta di attenersi all'esplorazione e all'acquisizione erudita, non solo con riferimenti isolati ma con intere sezioni di lavoro, così come dichiara alla fine dell'VIII lib. della Politica: " Sicut... in omnibus libris physicis numquam de meo dixi aliquid, sed opiniones Peripateticorum, quanto fidelius potui, exposui "; però proprio in questa esplorazione erudita si esprimeva l'attitudine problematica fondamentale della cultura del suo tempo. La pregnanza ideologica di siffatta problematicità non avrebbe tardato a esplodere, così come esplose anche nel tempo e nelle opere di A. con la polemica dell'averroismo. A. si interessò a conoscere, più che a costruire un sistema di teorie, anche perché sollecitato da una personale tendenza al particolare (cfr. Eth. VI II 25 " Oportet... experimentum non in uno mondo, sed secundum omnes circumstantias probare ") e alla ricerca positiva condotta con esperimenti nel campo delle scienze naturali (" Experimentum enim solum certificat in talibus ", De Vegetabilibus VI I 1, ed. Jessen, 340); ma come investiva e costruiva una visione della realtà nella verifica o nella ricerca degli esperimenti, così egli preparava una speculazione teorica anche nell'analisi e nel confronto delle idee antiche: alle quali, del resto, sapeva reagire con il rifiuto (per es. Phys. VIII I 14 " Aristoteles multum erravit in ista ratione ") o l'adesione (per le dottrine neoplatoniche e per le interpretazioni aristoteliche di Alfarabio e Avicenna; v. oltre).
Nella lotta per la conquista della cultura antica A. non sfuggì al pericolo di cadere, via via che recensiva o discuteva le varie dottrine, in discordanze o contraddizioni, che noi non possiamo sempre giustificare come momenti evolutivi delle sue conoscenze e del suo pensiero, non conoscendo ancora con esattezza la successione cronologica dei suoi scritti, delle loro parti, delle loro redazioni o revisioni. Forse i suoi contemporanei lo poterono comprendere meglio di noi, anche per il fatto che si trovavano nelle sue stesse difficoltà.
Sta di fatto che A. acquisì un'importanza di primo piano tra le fonti dell'età che fu sua o che gli succedette immediatamente, non solo per i contributi di classificazione sperimentale nel campo della mineralogia, della botanica e della zoologia, non solo per la sua opera di raccoglitore e di commentatore (" compositor ", " commentator "), ma anche in qualità di ‛ autorevole pensatore ' (" auctor ") che " per modum authenticum scripsit libros suos ": "pro auctore allegatur... Nam sicut Aristoteles, Avicenna et Averroes allegantur in scholis, sic et ipse ". L'elogio è di R. Bacone (Op. tert. IX, in Opera inedita, ed. Brewer, Londra 1859, 30).
La conoscenza di A. da parte di Dante. - D. mostra di aver letto A. con alcune citazioni esplicite nel Convivio. In III V 12 si rifà, quanto al cerchio che divide la terra in due emisferi, al De Natura locorum (I 9) e al De Causis et proprietatibus elementorum, conosciuti in una tradizione manoscritta che unificava i due testi (secondo ch'io comprendo per le sentenze de li astrologi, e per quella d'Alberto de la Magna nel libro de la Natura de' luoghi e de le proprietadi de li elementi); in VII 3 ricorre ad Alberto in quello libro che fa de lo Intelletto (cfr. De Intellectu et intelligibili I III 2), per illustrare un principio che forse corrisponde alla pr. XX del De Causis (La prima bontade manda le sue bontadi sopra le cose con uno discorrimento, § 2); in IV XXIII 13 definisce la quarta età come Senio, che s'appropria al freddo e a l'umido, secondo che nel quarto de la Metaura [IV I 13] scrive Alberto, mentre in II XIII 21 sembra (B. Nardi, Nel mondo di D., cit., p. 159 n. 3; Saggi, cit., p. 64 n. 4) apprendere dal I libro della stessa Metaura che li vapori... per lor medesimi molte volte s'accendono.
Dottrine Albertine in Dante. - Il fatto che D. ebbe conoscenza diretta dei libri di A. rende probabile l'ipotesi di una derivazione albertina di molte dossografie dantesche, in special modo di quelle che si rispecchiano solo in A., oppure in A. e in altri autori ignoti all'Alighieri (il che sembra valere, ad es., per la giustificazione neoplatonica della nona sfera in Cv II III 5: vedi oltre), e di quelle che rivelano un contesto o un colorito dottrinario (per esempio neoplatonico) comune al poeta fiorentino e ai testi albertini che egli lesse (il che sembra valere, ad es., per la dottrina del luogo proprio [Cv III III 2-5], rispetto al De Natura locorum di A.; cfr. B.Nardi, Nel mondo di D., p. 77).
Neoplatonismo. - Se non è sempre prudente applicare questi criteri, meccanicamente, a tutti i casi, è certo che, leggendo A., D. non potè ignorare dottrine e prospettive che costituiscono la struttura portante del pensiero e dell'erudizione del ‛ doctor universalis '; e se, poi, una di siffatte dottrine o prospettive fu essenziale anche al pensiero del poeta fiorentino, egli non potè non avvertirla in A., non apprenderla o non acquisirla, a fondamento o a conferma del proprio pensiero. Il che sembra valere, in modo precipuo, per la teoria neoplatonica del mondo e della derivazione delle cose da Dio.
Nel De Causis et processu universitatis, A. accoglie una costruzione metafisica che sorregge gran parte del suo pensiero, e che dalla tradizione agostiniana riceve solo contributi secondari e accessori: anche il De Wulf la riconobbe come d'ispirazione neoplatonica e araba (Storia della filos. medievale, II, Firenze 1945, 126; cfr. B. Nardi, Saggi, cit., pp. 104 ss.). Dio, o " intellectus universaliter agens ", luce " quae numquam cessat illuminare causatum suum " (II I 25), crea l'" intelligentia " o " primum causatum ". L'" intelligentia ", che in sé contiene l'elemento della diversità e della finitudine (" omnis intelligentia, quae per seipsam et per substantiam suam intelligentia est, et activa est et plena formis... quia ipsa de se forma est formans ad esse omne quod sequitur eam... Sicut enim dicit Plato, forma ex hoc forma vocatur, quia, extra res manens, format et imaginem suam imprimit in formata; extra res autem non est nisi substantiale lumen agentis intelligentiae. Sic ergo forma est, et in agente quidem unum est; procedendo autem ab agente, diversificatur et agitur in pluralitatem "; De Causis et proc. univ. II II 21), produce le intelligenze inferiori, l'anima del mondo e la natura (cfr. anche De Causis pr. IX), secondo un ordine degradante (" ordinem in gradibus entium ", " fluentium a primo "; I IV 5) analogo all'attenuazione della luce, via via che s'irradia più lontano dalla fonte (cfr. anche Intell. et intellig. I I 5 " Omnes... formae ab ipsa totius universitatis natura largiuntur; quo autem magis ab ea elongantur, eo magis nobilitatibus suis et bonitatibus privantur... sicut radii a sole venientes... diversum esse et diversas species accipiunt. Et secundum hunc modum provenit diversitas, eo quod unum fluit ab unico per diversa organice ipsum explicantia et in diversa ab ipso informata ". Cfr. De Causis pr. XX e XXIV, Cv III II 4 e VII 2-3).
Della catena di esseri, che da Dio discende sino alle sostanze corporee, A. espone almeno tre schemi, in sedi differenti nelle quali assorbe il pensiero di fonti diverse (C.Baeumker, Witelo, Münster 1908, 412 ss.), ma è costante nell'unire ogni intelligenza inferiore a una sfera, nell'applicare il principio del De Causis (pr. I, IV), per cui l'inferiore agisce solo in virtù del superiore immediato (" Si secundum in ultimum ulterius fluat vel influat, non fluit nisi in virtute primi ", De Causis et proc. un. I IV 2) e nel preferire il linguaggio dell'emanazione (" fluxus ", " processio ", " emanatio formae a primo fonte "), ma privo d'implicanze panteistiche (" quidam dixerunt omnia esse unum, et quod diffusio primi in omnibus est esse eorum ", ibid. 5).
Il fondamento neoplatonico di questa dottrina è evidente anche nel motivo per cui l'" intelligentia " si inserisce fra l'" intellectus semper agens " e i cieli; e noi lo possiamo riconoscere in un principio di Avicenna (" a stabili in quantum stabile non est nisi stabile ": Met. IX 1), che il De Erroribus philosophorum (VI 4) recensisce come eterodosso: " Quod a Deo invariabili nihil variabile immediate progredi poterat" (ed. in P.Mandonnet, Siger de Brabant et l'averroïsme latin au XIIIe siècle, II, Lovanio 19082, 11).
La rappresentazione neoplatonica del mondo, quale la enunzia A., permea e caratterizza tutto il pensiero del poeta fiorentino (B. Nardi, Saggi, cit., pp. 42-45), il quale non la poteva trovare né in s. Tommaso " né in alcun altro dei più celebri dottori scolastici " (ibid. 44). Alla sua luce D. spiega la derivazione dall'uno di un'intelligenza, da cui, a sua volta, deriva la sempre maggiore complessità delle altre intelligenze, sino alle ultime potenze che agiscono nel mondo della generazione e della corruzione, così come vuole il De Causis, che egli conosce e cita abbondantemente (B. Nardi, Saggi, cit., pp. 81-109), forse attraverso il commento di A. (ibid. 84). Grazie alla stessa dottrina D. può collocare un nono cielo sugli altri otto del Paradiso. Come dice A. (Summa de creaturis III 12 3), proprio al principio neoplatonico di Avicenna (" a stabili... non est nisi stabile ") si ispirava Alpetragio per dimostrare la necessità di una nona sfera (B.Nardi, Saggi, cit., p. 155; v. anche 20-22): e, pur facendo qualche confusione, l'Alighieri mostra di conoscere anche questo motivo in Cv II III 5 Tolomeo poi, accorgendosi che l'ottava sfera si movea per più movimenti... costretto da li principii di filosofia, che di necessitade vuole uno primo mobile semplicissimo, puose un altro cielo essere fuori de lo Stellato. Tolomeo postula per davvero la nona sfera: ma non enunzia affatto i principii di filosofia di cui parla Dante. Ne parla Alpetragio: ma D. lo ignora. Riferivano il pensiero di Alpetragio Ruggero Bacone e Pietro d'Abano (B. Nardi, Saggi, cit., p. 153): ma D. non mostra di conoscerli. Egli però conosce A., e A. espone più e più volte il pensiero ‛ filosofico ' di Alpetragio: in De Coelo II III 11; in Summa de creaturis III 12 3; in Summa theol. II 1 52 m. 3 e 53 m. 3; in Met. XI II 24; infine, proprio nel De Causis et proc. univ. I IV 7 e II II 2.
Origine e struttura dell'anima. - Una dottrina caratteristica, che l'esame comparato dei testi rivela comune ad A. e a D., è quella formulata dal domenicano tedesco circa l'origine e la struttura dell'anima.
Nel De Animalibus A. fece propria una teoria avicenniana (XVI I 4), che si trova anche in Guglielmo di Conches (Philosophia mundi IV 33): la " virtù animale " o " formativa ", atto o effetto trasfuso nel seme vitale dall'anima del generante (ibid. capp. 7, 8 e 12), presiede tanto allo sviluppo dell'embrione quanto alla formazione delle membra (" agit formando ea et vivificando ", ibid. cap. 8), volgendo ai fini della generazione le altre virtù del seme (quelle che vengono dette " celesti " e " della complessione "). Compiendo l'ufficio e le azioni dell'anima, essa prepara l'organismo a ricevere l'anima vera e propria dalla virtù delle stelle (nel caso dell'animale) o da Dio (nel caso dell'uomo; ibid. capp. 8, 11 e 12): e l'avvento dell'anima importa la perdita di tutte le virtù che lo hanno reso possibile (ibid. capp. 4 e 16). Con questa teoria A. respingeva la dottrina dei tre principi vitali successivi (vegetativa, sensitiva e razionale: ibid. capp. 11 e 16; cfr. B. Nardi, Studi di filosofia medievale, Roma 1960, 20-21. V. anche Pg IV 5-6), ma degli stessi non spiegava l'intima unità attraverso la generazione: unità che si preoccupa di garantire con una seconda teoria che enunzia nel De Natura et origine animae I 5 " sicut in aliis ita etiam in homine inchoatio vegetativi est in materia et in esse primo substantiae animandae et inchoatio sensibilis est in vegetativo et inchoatio rationalis est in sensitivo, quia aliter homo constitutus... esset multa et non unum ".
S. Tommaso (cont. Gent. II 89) mette a fuoco la vera portata, i fondamenti e il contesto storico della seconda teoria grazie alle ragioni per cui la dichiara assurda: se l'anima vegetativa si svolge dalla materia, quella sensitiva dalla vegetativa e quella razionale dalla sensitiva, allora la generazione si riduce a un processo ‛ continuo ' di alterazione (" sequeretur quod generatio esset motus continuus, sicut alteratio "); la forma sostanziale " non simul, sed successive educeretur... de potentia in actum "; e " ipsa forma substantialis continue magis ac magis perficeretur ", violando il principio aristotelico " esse substantiale cuiuslibet rei in indivisibili consistit; et omnis additio et subtractio variat speciem, sicut in numeris, ut dicitur in VIII Metaphys. " (Sum. theol. I 76 4 ad 4; cfr. Arist. Metaph. VII 3, 1043b 33 ss.).
Orbene, alcuni testi mostrano che con la nuova teoria A. accoglie concetti esattamente opposti: " generatio est continuus egressus eius quod est in potentia, ad actum... Est enim motus forma post formam... et in quolibet fieri sunt infinita facta " (Nat. et orig. an. I 4); anzi, proprio la continuità del " motus continue exeuntis de potentia ad actum " (I 6) spiega come la forma evolva da uno stato all'altro, senza perdere mai la propria unità sostanziale. È vero che Aristotele dice: allo stesso modo del numero, non suscettibile di diminuzione e d'accrescimento " la sostanza concepita come forma " (οὐδʼἡ ϰατὰ τὸ εἶδος οὐσία); ma è vero anche che egli soggiunge: ἀλλʹ εἴπερ, ἡ μετὰ της ὕλης (Met. VII 3, 1044a 10-11). Questa precisazione consente ad A. di formulare una dottrina che Aristotele non sviluppò e che Tommaso, con gli altri scolastici, non seppe dedurre: " et si magis et minus dicitur, hoc accidit secundum quod ista substantia est in materia secundum esse " (Met. VIII I 8; cfr. Gen. et corr. I I 24). Egli non considera la sostanza come forma, idea o essenza logica astratta, bensì come principio che agisce e si svolge all'interno della materia; e può parlare della generazione come di un " continuus egressus ", di " forma post formam ", proprio perché attribuisce alla forma un ‛ essere nella materia ', suscettibile di sviluppo. Ma per poter supporre una dottrina tanto importante, egli deve affrontare e risolvere quello che è il problema più grave lasciato aperto da Aristotele.
Aristotele ritiene che le idee separate di Platone non possano spiegare il divenire, per il fatto che non entrano nelle cose come elemento costitutivo della loro natura; per suo conto, crede di poter spiegare i reali concreti come composti di materia e di forma, e di attribuire generazione e produzione, non alla forma né alla materia, bensì al sinolo, prodotto non dalla materia (che è pura passività), non dalla forma (che in sé è immutabile), bensì da un agente (Metaph. VIII 8, 1049b 24-27). Siffatta soluzione non appaga gli stoici e i neoplatonici, i quali rimproverano ad Aristotele di spostare i termini, ma di non risolvere il problema di fondo. Il suo agente resta altro dalla cosa generata, pur essendole identico quanto alla specie nel caso della generazione (Met. VI 8, 1033b 30 ss.; VI 9, 1034a 22-24); considerata la sua alterità, in quale modo potrebbe causare la sintesi di materia e forma, se non comportandosi come un puro e semplice demiurgo platonico demitizzato?
A. risolve il problema lasciato aperto da Aristotele ricorrendo a una dottrina neoplatonica, nota ai medievali (v. P.Lombardo, Sent. II 18 5) grazie alle " rationes seminales " di s. Agostino. Le forme non stanno fuori della materia e non vengono impresse nella materia da un agente; la materia le contiene sin dalla costituzione: " ex quo ponimus formam totam esse intus in materia, non possumus dicere quod agens agat ad producendum essentiam formae, quia illa iam est, sed agit ad esse formae " (Phys. I III 15). Anzi, la forma esiste tutta intera dentro la materia come fuori, nell'agente, ed è la stessa variando solo il modo d'essere: " et ipsa est eadem numero extra per virtutem formativam immissam in materiam, quam tangit agens aut mediate aut immediate... Nec intendo dicere quod formae pars sit ab intus et pars ab extra, sed tota est ab intus et tota est ab extra secundum esse diversum: quia secundum esse confusum tota est intus, et secundum esse in actu tota est ab extra " (ibid.). Ossia, l'agente estrinseco non produce l'essenza della forma, che già esiste, nella materia, ma ne modifica lo stato.
Questa forma, che " secundum Peripateticorum perfectam sententiam [in realtà secondo lo sviluppo neoplatonico di un problema aristotelico]... est in materia per essentiam confusam " (ibid.), null'altro sarebbe che la " privazione " o la " potenza " con cui Aristotele caratterizza la materia, nel senso di potenza attiva, che evolve senza corrompersi nel processo della generazione: " Cum... illae potentiae sint inchoationes formarum, extensiones earum ad formas erunt exitus inchoatae formae ad formam completam et distinctam " (Nat. et orig. animae I 2): " privatio... in quantum quidem est aptitudo ad formam, continue perficitur; et in quantum est res quaedam formalis manet et complementum accipit in actu " (Phys. I III 10). In questo senso la " mixtura privationis " con la materia (Phys. I III 16) dà luogo all'appetito aristotelico della materia per la forma (" Si enim non esset privatio in materia, non esset nata appetere formam ", Phys. I III 16) e assume il nome di " inchoatio formae " (I III 10, 16), come ben rilevò il Nardi (Studi, cit., pp. 81 ss.) contro il Busnelli (" La civiltà cattolica " LXXXIII [1932] III 555-556, IV 139-151), che pretese ridurre l'interpretazione di A. a quella di s. Tommaso, così come già aveva fatto il Soncina nel ‛400 (Quaest. metaph. VII 28). Secondo Egidio Romano, la teoria dell'" inchoatio formae " aveva dei seguaci fra i teologi di Parigi (In II Sent. 18 2 2). Noi sappiamo che fu accolta come ‛ ragionevole ' da s. Bonaventura (In II Sent. 18 1 3). Con la differenza che il teologo francescano, al pari di altri (v. Pietro da Tarantasia, In II Sent. 18 1 3), si ispirava all'autorità di s. Agostino (In II Sent. 7 II 2 1), mentre il fedele discepolo di A., Ulrico di Strasburgo, avvertiva l'impostazione neoplatonica del suo maestro: " Hinc secundum Platonem materia transumptive dicitur mater " (Dionisio di Ryckel, In II Sent. 18 2).
La " virtus formativa ", o " agens univocum " che eccita la " inchoatio formae " (o " potenza attiva ") della materia, e la " forma inchoata " non bastano a spiegare quell'unità psicologica che è particolare dell'uomo, e che comprende la facoltà intellettiva. La loro attività resta, per garantire l'unità genetica e costituzionale del vegetativo, del sensitivo e dell'intellettivo, ma deve agire in modo tale da garantire la provenienza e la natura divina dell'intelletto che, affermata da Aristotele in An. III 5, 430a 17-23 e Gen. anim. II 3, 736b 27-28 (Λείπεται δὲ τὸν νοũν μόνον ϑύραϑεν ἐπεισιέναι ϰαὶ ϑεĩον εἶναι µóvov), cotituì la preoccupazione più viva dell'averroismo e dell'aristotelismo semitico: " substantia illa quae est anima hominis, partim est ab intrinseco et partim ab extrinseco ingrediens, quia licet vegetativum et sensitivum in homine de materia educantur virtute formativa, quae est in gutta matris et patris, tamen haec formativa non educeret eas hoc modo, prout sunt potentiae rationalis et intellectualis formae et substantiae, nisi secundum quod ipsa formativa movetur informata ab intellectu universaliter movente in opere generationis. Et ideo complementum ultimum, quod est intellectualis formae, non per instrumentum neque ex materia, sed per suam lucem influit intellectus primae causae purus et immixtus " (Nat. et orig. an. 15).
Con questa spiegazione anche A. sembra accogliere un elemento di esteriorità, che comprometterebbe l'unità sostanziale e l'interiore processo formativo della sostanza umana a mezzo della generazione; ma tale esteriorità è soltanto apparente, perché " intellectus, qui est auctor naturae, non est extrinsecus naturae ": " et hoc modo intellectus ingreditur in embryonem ab extrinseco materiae, non tamen ab extrinseco agente, quia intellectus, qui est auctor naturae, non est extrinsecus naturae, nisi hoc modo quo extrinsecum rebus dicitur, quod est separatum ab eis per esse et non commixtum cum eis; sed hoc modo a rebus generatis separatus intellectus universaliter agens non distat ab eis per situm et locum, cum potius sit intimior rebus naturalibus quam aliqua naturae principia " (ibid.).
Il Busnelli (Cosmogonia, cit., p. 214) interpreta tomisticamente il passo di Pg XXV 52-57 Anima fatta la virtute attiva / qual d'una pianta, in tanto differente, / che questa è in via e quella è già a riva, / tanto ovra poi, che già si move e sente, / come spungo marino; e indi imprende / ad organar le posse ond'è semente, e, allo scopo, attribuisce a s. Tommaso un principio (la forma imperfetta " se habet in via generationis "; è " via ad speciem, via generationis ") che l'Aquinate ha sempre combattuto come assurdo (v. B. Nardi, Studi, cit., pp. 52 n. 1, e 51 n. 3). Secondo il Nardi (ibid. 51-54), si possono intendere i versi in questione solo alla luce della seconda teoria di A.; la virtute attiva del seme, divenuto anima vegetativa (Anima fatta... / qual d'una pianta), si arresta nella pianta ormai giunta al termine del suo sviluppo (quella è già a riva), ma non nell'animale, che deve ulteriormente evolvere (questa è in via). Onde, tanto attua ed evolve (tanto ovra poi) da essere e agire quale anima sensitiva (già si move e sente; cfr. A. Nat. et orig. an. I 4 " ipsae virtutes vegetabilis non vegetant nisi ad formam sensus, eo quod in sensitivo complentur "). Ma anche questo per gradi; dapprima raggiunge lo stadio inferiore della vita sensitiva, quello indifferenziato e confuso della spugna (spungo marino), che occupa il livello inferiore della scala zoologica (cfr. Arist. Hist. animal. VIII 1, 588b 21; V 16, 548b 10-12; A. Animal. XXI 1 6). Poi, via via, imprende / ad organar le posse, quelle ond'è semente. Del corpo vivente l'anima è non solo atto ma anche causa e principio (Arist.An. II 4, 415b 8), come osserva anche D. in Cv III VI 11 (e se ella è suo atto, è sua cagione).
D. si discosta da s. Tommaso, per chiarirsi in A., anche nel modo con cui rappresenta l'avvento dell'intelletto (ossia, dell' ‛ intelletto possibile ': cfr. Cv IV XXI 5), in Pg XXV 68-75 e sappi che, sì tosto come al feto / l'articular del cerebro è perfetto, / lo motor primo a lui si volge lieto / sovra tant'arte di natura, e spira / spirito novo, di vertù repleto, / che ciò che trova attivo quivi, tira / in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira.
L'anima sensitiva non evolve a intellettiva senza intervento dell'intelligenza prima, " quando cor et cerebrum inveniuntur " (Avicenna Animal. XVI 1). La dottrina è comune, ma non è comune il modo di intenderla o di formularla. Per es., Kilwardby e Peckham l'affermano, ma per dire che l'anima è un tutto sostanziale in cui vegetativa, sensitiva e intellettiva rimangono realmente distinte (B. Nardi, Studi, cit., pp. 16 e 32). Secondo A., " sensitivum se habet ad vegetativum sicut actus ad potentiam " (Nat. et orig. an. I 4; cfr. II 9). All'interpretazione di A. il Busnelli (Cosmogonia, cit., 224-226, 231-274) vorrebbe piegare Tommaso, citando cont. Gent. III 22. Ma il contesto dimostra (B. Nardi, Studi, cit., p. 55 n. 4) che per l'Aquinate " anima vegetabilis est in potentia ad sensitivam, sensitiva ad intellectivam " solo in senso finalistico, non genetico, come vogliono A. e Dante. Il motor primo non sostituisce ma completa un processo di natura generativa (si volge lieto / sovra tant'arte di natura) e spira / spirito novo, cioè l'intelletto possibile, di vertù repleto (cfr. Cv IV XXI 4-5), senza corredarlo di facoltà vegetativa e sensitiva, che già esistono e agiscono (ciò che trova attivo) e che esso assorbe (tira / in sua sustanzia). Proprio come asserisce A., " ipsa [l'anima razionale] est in se colligens omnium formarum se ordine naturae praecedentium potentias [quella vegetativa e sensitiva]: quae omnes in intellectuali natura complentur tamquam in ultimo termino et fine... propter continuitatem motus continue exeuntis de potentia ad actum " (Nat et orig. an. I 6). Il nuovo rapporto assunto dall'intelletto con la materia conferisce a questo la caratteristica di forma individuale: il che contrasta con l'opinione di Averroè, per il quale l'intelletto possibile è sostanza separata che si congiunge con l'anima sensitiva solo nell'atto dell'intendere, senza mai esserne forma (fé disgiunto / da l'anima il possibile intelletto, / perché da lui non vide organo assunto, Pg XXV 64-66), così come conferma anche l'immagine dei vv. 77-78 il calor del sol... si fa vino, / giunto a l'omor che de la vite cola: la luce dell'intelletto puro si congiunge alla sensitiva al modo del calore solare, il quale si fa vino unendosi all'umore che cola dalla vite.
La teoria di A. offre la chiave per interpretare anche il passo di Cv IV XXI 4-5 E però dico che quando l'umano seme cade nel suo recettaculo, cioè ne la matrice, esso porta seco la vertù de l'anima generativa e la vertù del cielo e la vertù de li elementi legati, cioè la complessione; e matura e dispone la materia a la vertù formativa, la quale diede l'anima del generante; e la vertù formativa prepara li organi a la vertù celestiale, che produce de la potenza del seme l'anima in vita. La quale, incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza è.
Il seme maschile porta con sé i tre principi che i commentatori descrissero sulla base di Aristotele (Gen. animal. II 1 e 3): le tre vertù dell'anima generativa o virtù formativa; del cielo (derivano dalla virtù informante degli astri le forme attuate nella materia del mondo sublunare) e della complessione (risultante dalle proprietà degli elementi singoli e dal modo della loro combinazione). In particolare, la vertù formativa passa dal seme nell'embrione, e nell'embrione dispone gli organi alla vertù del cielo, il quale interviene come agente di produzione, nel principio attivo (potenza del seme), che non è semplice agente di produzione qual era secondo s. Tommaso (trasmette l'azione del generante alla materia materna, dissolvendosi poi insieme al seme che non passa nell'embrione; cfr. Sum. theol. I 118 1 ad 4), ma soggetto e terminus a quo del processo genetico (produce de la potenza del seme) che termina ne l'anima in vita. La quale anima in vita non è la razionale (come vuole il Busnelli [L'origine dell'anima razionale secondo D. e A.M., Roma 19292, 8 ss.]), ma la sensitiva: " perché è prodotta dalla potenza del seme per opera della virtù celestiale, che è un agente naturale, e perché è il soggetto che riceve l'intelletto possibile " (B. Nardi, Studi, cit., p. 42). E vien descritta come anima in vita, perché si attua solo nell'embrione che ha raggiunto una struttura vitale, mentre nell'embrione non ancora fornito di organi adeguatamente sviluppati esiste solo in potenza: proprio come voleva la tesi di A. combattuta da s. Tommaso in cont. Gent. II 89. Quanto all'avvento dell'intelletto possibile, va notato che questo adduce potenzialmente le forme universali, non perché si tratti di ‛ capacità passiva a diventare idealmente tutte le cose ', nel senso di Aristotele (An. III 4, 429a 27-28 e 5 430a 15), ma perché reca in sé i germi attivi, o " rationes seminales " delle idee di cui parla Proclo (Instit. theol. § 194: l'anima contiene tutte le forme intellettuali che appartengono alla mente da cui è prodotta), come rileva il Nardi (Studi, cit., p. 44). Ne parlano gli scolastici agostiniani e ne parla anche A., che nel De Intellectu et intelligibili (II 2) cerca di conciliare questa dottrina con quella di Aristotele, anche in questo caso sulle orme di Avicenna.
L' " Averroismo Latino ". L' " averroismo latino " di Dante. - Per il Nardi, " Dante è, nella Monarchia, averroista al cento per cento " (Dal " Convivio " alla " Commedia ", cit., p. 201 ; cfr. anche 83 ss., 291 ss., Saggi, cit., 229 ss. e 306 ss., Nel mondo, cit., 228 ss., Studi, cit., 61), perché concepisce l'Impero e il Papato secondo il rapporto di ragione e fede fissato dagli averroisti, mentre si allontana dallo schema corpo-anima di cui fanno uso gli ierocratici. L'Impero ha il suo principium... directivum (Mn I III 2) nel finis totius humanae civilitatis (§ 1), che si identifica con la beatitudine naturale (beatitudinem... huius vitae) che consiste in operatione propriae virtutis (III XV 7). Dato quod proprium opus humani generis totaliter accepti est actuare semper totam potentiam intellectus possibilis (I IV 1), e dato che l'attuazione di questo opus si concretizza nell'Impero, autonomo dalla Chiesa (ordinata al fine di altra beatitudine), nella Monarchia D. suppone, da un lato, una netta distinzione tra ragione e fede (Ad has quidem beatitudines, velut ad diversas conclusiones, per diversa media venire oportet. Nam ad primam per phylosophica documenta venimus ... ad secundam vero per documenta spiritualia quae humanam rationem transcendunt, III XV 8) e, dall'altro, la possibilità di attuare il fine (o beatitudine) naturale: tanto più che D. ritiene attuata per intero la sapienza umana (ab humana ratione quae per phylosophos tota nobis innotuit, § 9). Secondo il Nardi, il " dualismo averroistico ", " che costituisce la premessa logica dalla quale è dedotta l'indipendenza dell'Impero dalla Chiesa " (Dal " Convivio ", cit., p. 309), non è abbandonato nemmeno nell'ultimo capitolo della Monarchia (Nel mondo, cit., pp. 238 ss.; Dal " Convivio ", cit., pp. 300 ss.), e ciò contro la comune interpretazione, rinnovata da M. Maccarone (Il terzo libro della " Monarchia ", in " Studi d. " XXXIII 1 [1956] 5-142).
Nel Convivio (cfr. III XV 7-10) e nella Commedia la visione politica di D. si articola secondo il rapporto che tomisti e francescani avevano stabilito tra beatitudine terrena e beatitudine eterna, tra ragione e fede, tra filosofia e teologia (B. Nardi, Saggi, cit., pp. 302 ss., Dal " Convivio ", cit., 118 e 309-310); tuttavia anche nella Commedia D. riserva un trattamento di riguardo a Sigieri di Brabante: lo colloca fra i luminari della sapienza cristiana, nel cielo del Sole, e lo fa lodare da s. Tommaso (Pd X 136-138), cioè da colui che in vita combatté il suo averroismo col De Unitate intellectus, in cui dichiara il Commentatore " non tam... Peripateticus quam philosophiae peripateticae depravator " (II 59; ed. Keeler, Roma 1957, 38). Con tutta probabilità (B. Nardi, Studi, cit., pp. 61-65) D. ha in mente non il Sigieri del primo periodo, che commenta il De Anima secondo il più schietto averroismo (nell'uomo l'intelletto non è propriamente " forma corporis " e inoltre " homo non intelligit " perché intende solo l'intelletto separato, unico per tutta la specie umana; cfr. Ioannes Bachonis [di Baconthorp] Quodlibeta, Venezia 1527, I 1, f. 2, col. 4; Aegidius Rom. Sent. II 17, 2 1) e che vien combattuto da A. non meno che da s. Tommaso, bensì quello del secondo, che attenua la sua esegesi eterodossa nelle Quaestiones de anima intellectiva, fino ad accettare, non per fede ma " via rationis naturalis " (P. Mandonnet, Siger de Brabant, II, Lovanio 1908, 169), che l'intelletto è " forma corporis " in quanto " est operans intrinsecus ad corpus per suam naturam " (ibid. 155).
Non tutti concordano sul concetto di averroismo, che il Nardi credette di scoprire in Dante. Se per averroismo s'intende la subordinazione della religione alla filosofia, Gilson (v.) ha motivo di respingere qualsiasi venatura averroistica dal pensiero dantesco; ma se si parla di semiaverroismo o di averroismo latino, e se per esso null'altro s'intende che la consapevolezza di un disaccordo di fatto delle conclusioni della filosofia da quelle della teologia e l'esigenza metodica di interpretare il pensiero di Aristotele quale fu espresso dallo Stagirita o quale noi possiamo ricostruire, vuoi mediante l'analisi comparata dei testi, vuoi mediante una coerente deduzione dalle implicanze del suo modo di pensare, senza assumere mai un postulato della fede come criterio esegetico, alla negativa di Gilson si può preferire l'affermativa del Nardi (v. anche gli Studi, cit., pp. 58-68). Di certo, la tesi del dantista italiano non è contraddetta dal pensiero cristiano dell'Alighieri, in quanto l'averroismo latino non implicava l'accettazione del pensiero di Aristotele per il semplice fatto che ne accoglieva una particolare interpretazione (B. Nardi, Studi, cit., p. 135); piuttosto potrebbe trovare difficoltà nel fatto che D. accetta e cerca l'impegno teorico, non appagandosi in alcun modo di erudizioni puramente esegetiche e storiche sui testi del Filosofo. Tuttavia D. potè assorbire dottrine e prospettive teoriche da veri e propri averroisti latini, e in particolare da A., così come il Nardi prima prospettò e poi credette d'avere " ampiamente dimostrato " (Dal " Convivio ", cit., p. 293) nei suoi Studi di filosofia medievale (pp. 105-159).
L' " averroismo latino " di A. - Se A. combatte l'averroismo puro con il II libro del De Intellectu et intelligibili, con il De Natura et origine animae, soprattutto con il De Unitate intellectus contra Averroem (conservato in due redazioni e inserito in Summa Theologica II XIII 77 3; v. Roland-Gosselin, in " Arch. d'hist. doctr. et littér. du Moyen Age " I [1926] 309-312) e con il De Quindecim problematibus (cfr. Salman, A. le Grand et l'averroïsme latin, in " Revue des sciences philos. et théol. " 24 [1935] 38-64; B. Nardi, Studi, cit., pp. 133-135), tuttavia la sua posizione è caratteristica: mentre combatte gli eccessi dell'averroismo, ne accoglie alcune istanze fondamentali, che interessano D., quanto alla netta distinzione tra cultura di ragione e cultura di fede; quanto alla natura dell'atto intellettivo; e quanto alla possibilità di attuare la beatitudine naturale pienamente e in questa vita.
Ragione e fede. - Il Mandonnet documentò un'esigenza fondamentale dell'averroismo di Sigieri con un passo delle Quaestiones de anima intellectiva (Siger, cit., II, 153-154): " Quaerimus enim hic solum intentionem philosophorum et praecipue Aristotelis, etsi forte Philosophus senserit aliter quam veritas se habeat et per revelationem aliqua de anima tradita sint, quae per rationes naturales concludi non possunt. Sed nihil ad nos nunc de Dei miraculis, cum de naturalibus naturaliter disseramus " (Siger, cit., I, Lovanio 19112, 149-151).
Questa formula, prima secondo il Nardi (nello studio Intorno alle dottrine di Pietro d'Abano del 1920-1921, ora in Saggi sull'aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI, Firenze 1958, 73) e poi secondo il Van Steenberghen (Siger de Brabant d'après ses oeuvres inédites, II Siger dans l'histoire de l'aristotélisme, Lovanio 1942, 683 n. 1) dipende dal commento di A. al De Generatione et corruptione (I I 22), dove si prospetta il problema se, per volere di Dio, possa cessare la generazione che la dottrina aristotelica vuole eterna (" nunquam enim secundum naturam cessavit nec cessabit generatio "): " Si autem quis dicat quod voluntate Dei cessabit aliquando generatio, sicut aliquando non fuit et post hoc incepit, dico quod nihil ad me de Dei miraculis, cum ego de naturalibus disseram ".
Ovviamente i due scolastici hanno in comune il presupposto che scienza e religione si fondino su principi e su metodi nettamente distinti. Dice A.: " Si autem est aliqua alia irradiatio superioris super inferiora, sicut dixit Plato et sicut dicunt theologi, illa per rationem investigari non potest, sed oportet quod ad illam investigandam ponantur alia principia et revelatione spiritus et fide religionis: et de hac non est loquendum in philosophia Peripateticorum, quia cum eis ista scientia non communicat in principiis " (Met. XI II 21).
La demarcazione tracciata dalle distinte esigenze della teologia e della filosofia era accentuata dal fatto che, caricandosi di un senso storico ed erudito, per molti scolastici, tra cui A., la ‛ filosofia ' significava semplicemente " dottrina dei filosofi " (B.Nardi, Studi, cit., p. 126; cfr. Met. XIII II 4). A fortiori A. non vede come la filosofia possa prestare alla teologia i moduli delle sue realtà (De Causis et processu universitatis II V 24), o come la filosofia possa desumere dalla teologia nozioni e procedimenti senza perdere sé stessa: " Quidam autem neutram istarum sequuntur viam, putantes incedere per viam philosophiae, et confundunt philosophiam in theologiam, dicentes quod in veritate ab uno simplici primo agente per essentiam non est nisi unum: si ergo quod est ab ipso, sit multum et multiplex, non agit per essentiam... sed sicut nos in antehabitis protestati sumus, nos istas positiones non prosequimur: quia non suscepimus in hoc negotio explanare nisi viam Peripateticorum... theologica autem non conveniunt cum physicis in principiis, quia fundantur super revelationem et inspirationem, et non super rationem: et ideo de illis in philosophia non possumus disputare " (Metaph. XI III 7).
Dottrina dell'intelletto. - A. combatte l'unità dell'intelletto possibile (An. III II 7, Intell. et intellig. I I 7, Nat. et orig. an. I 7, Metaph. XI I 9, oltre che nel De Unitale Intell. e nel De Quindecim problematibus); però considera degne di tutto riguardo alcune ragioni per le quali Averroè la sostiene: in special modo il convincimento che solo un intelletto entitativamente universale può produrre un conoscere universale: " omne quod suscipit aliquid, suscipit illud secundum suae propriae naturae potestatem; intellectus autem in se recipit universale, neque est universale secundum quod huiusmodi, nisi in intellectu; oportet igitur quod natura intellectus sit universalis, quia, si esset individua, individuaretur omne id quod est in ipso. Omnis enim forma individuatur per individuitatem sui subiecti in quo est " (Intell. et intellig. I I 7).
S. Tommaso conosce e respinge siffatto argomento (" defectus Commentatoris... qui voluit ex universalitate formae intellectae unitatem intellectus in omnibus hominibus concludere ", De Ente et essentia 3; ed. Roland-Gosselin, Parigi 1948, 28, 16-18), e afferma, sulla scia di Avicenna (Met. V 1): " non est universalitas ipsius formae secundum hoc esse quod habet in intellectu, sed secundum quod refertur ad res ut similitudo rerum " (De Ente et essentia 3, ed. cit., 28, 18-20), enunziando il principio per cui la species non è " id quod cognoscitur " bensì " id quo cognitum cognoscitur " (Sum. theol. I 85 2); ma dei latini che accolgono questa opinione A. dice che " nunquam bene intentionem Aristotelis intellexerunt " (An. III II 11), perché una entità individua, anche se intenzionale come la specie, non può spiegare l'universalità dei concetti: " per intentionem individuam res universales intelliguntur vel universaliter: et hoc intelligi non potest " (ibid.); " mentiuntur omnino qui dicunt quod forma, quae est in anima, duplicem habet comparationem: unam quidem ad rem cuius est forma, et sic dicunt ipsam esse universalem; et aliam ad intellectum, et sic dicunt individuam esse per intellectum in quo est. Forma enim ex comparatione quam habet ad rem, numquam est univeralis; et ex comparatione ad intellectum in quo est, semper est universalis " (Nat. et orig. an. I 7).
In breve: per s. Tommaso l'universalità del conoscere ha una spiegazione psicologica (intenzionalità); per A. ne può avere solo una ontologica. L'intelletto agente è di natura divina, e agisce universalmente come agiscono le sostanze separate: " et hoc est proprium intelligentiarum separatarum et maxime intelligentiae primae et causae primae " per cui " non... est differentia inter intelligens et intellectum ", onde " secundum actum sua scientia est res scita " (An. III II 18).
Ovviamente resta da spiegare l'elemento antiaverroistico, comune ad A. e a s. Tommaso: ossia come l'intelletto possa individuarsi unendosi a un corpo. Anche nella soluzione di questo problema A. non converge con s. Tommaso, ma batte una strada che ha in Averroè, se non un punto di arrivo, certo un punto di partenza. S. Tommaso dice che " anima per se ipsam est actus corporis ", non " mediantibus suis potentiis " (Unit. Intell., ed. cit., I 28). A. ritiene opinione aristotelica che l'anima si unisca al corpo non per la sua essenza ma per le sue facoltà organiche: " licet intellectus secundum se sit separatus, tamen... est potentia coniuncti, quoniam est potestas animae, quae secundum potentias quasdam coniungitur corpori... licet non communicet corpori, tamen communicat communicanti corpori... communicat non corpori, sed potestati quae communicat corpori, scilicet phantasiae et imaginationi et sensui; et ideo... anima... efficitur una numero: quia per naturales potestates communicat corpori. Quia tamen in essentia sua et perfectiori potestate non communicat corpori, ideo habet potestates absolutas a corpore " (An. III II 12). La separazione d'intelletto e materia è originaria ed essenziale, nonostante l'individualità stabilita col rapporto a un corpo mediante senso e fantasia; grazie a questa separazione l'intelletto è principio di universalità, per sé stesso e per sua natura: " sed universalis est intellectus secundum se, et ideo quod est in ipso secundum se, est etiam secundum actum universale: et hoc oportet secundum Peripateticos concedi esse commune apud omnes et idem intellectum universale in anima mea et in anima tua... Licet enim intellectus meus sit individuus et separatus ab intellectu tuo, tamen, secundum quod est individuus, non habet universale in ipso; et ideo non individuatur id quod est in intellectu... Sic igitur universale, ut universale, est ubique et semper idem omnino et idem in animabus omnium, non recipiens individuationem ab anima: non tamen scientia unius est scientia alterius, vel speculatum ab uno est speculatum ab altero, quoniam speculatio perficitur ex motu phantasmatis " (ibid. cap. 13).
Contro Tommaso Sigieri può obiettare: " Non contingit substantiam aliquam esse unitam materiae et potentiam illius substantiae esse separatam a materia " (P.Mandonnet, Siger de Brabant, cit., II 152). Preoccupandosi dello stesso principio, A. garantisce la singolarità dell'intelletto adottando una tesi opposta a quella tomistica: l'anima si unisce al corpo per via delle facoltà organiche, ma la vera essenza dell'anima razionale, come dice Aristotele (Gen. animal. II 3), viene dal di fuori (Nat. et orig. an. I 5 " partim est ab intrinseco et partim ab extrinseco ") e, non unendosi al corpo " secundum se ", mantiene l'universalità che caratterizza i prodotti della sua facoltà (cfr. sopra An. III II 12).
Quale sia la collocazione storica di siffatta dottrina ce lo dice lo stesso A.; schivando i latini (" in istarum quaestionum determinatione omnino abhorremus Doctorum Latinorum verba ", An. III II 1), egli si àncora ad Averroè, con cui crede di andare sostanzialmente d'accordo: " speculativi intellectus sunt unus in eo quod speculativi intellectus sunt, sed sunt multi secundum quod illorum vel illorum sunt: et hac in determinatione convenit nobiscum Averroes, licet in modo abstractionis intellectus parumper differat a nobis " (An. III II 13).
La beatitudine in questa vita. - A. fa sua anche la tesi averroistica che è possibile attuare la beatitudine naturale in questa vita, in opere (il commento al De Anima e il De Intellectu et intelligibili I) composte fra gli anni 1254-1257 o 1258-1260, cioè prima di un anno cruciale per l'averroismo latino (condanna del 1270): perciò anche con tale dottrina A. può aver contribuito non all'arginamento ma al costituirsi di un aristotelismo latino di tipo più o meno averroistico (F. Van Steenberghen, Siger, cit., II 478; B. Nardi, Studi, cit., 128-129, 149).
A. respinge numerose dottrine di Alessandro, Teofrasto, Temistio, Avenpace e Alfarabio, Avicenna e Algazel, mentre solo in parte si allontana da quella esposta da Averroè nel comm. 36 al III libro del De Anima (" Nos autem dissentimus in paucis ab Averroe ", An. III III 11) e, parteggiando per Averroè, critica " fere... omnes moderni latini ", i quali non attribuiscono all'uomo la capacità di conoscere le sostanze separate in questa vita (An. III III 10). Ignorando la gnoseologia del vero peripatetismo, costoro ritengono che a costituire l'universalità del sapere basti l'astrazione (idee) o l'argomentazione (concetti dedotti dai mutamenti che si osservano nel mondo sensibile), senza che intervenga un rapporto positivo e costitutivo con l'intelletto universale, comunque lo si voglia intendere secondo le tesi dei vari interpreti.
A. attribuisce all'anima un intelletto agente proprio, quale sua potenza o facoltà (An. III II 18). Secondo Sigieri, questo intelletto agente è Dio stesso: pertanto, unendosi all'intelletto agente, l'intelletto possibile si congiunge con Dio. A. non identifica l'intelletto agente con Dio; però giunge al medesimo risultato grazie allo schema platonico della sua metafisica. L'attività intellettiva irraggia dall'intelligenza prima, da cui derivano le forme, la loro intelligibilità e l'attività stessa dell'intelletto agente (" continet omnia in lumine suo... et hoc lumen iungitur animae et iungitur formis in anima existentibus, et sub actu huius luminis formae movent animam ", Intell. et intellig. II 2). L'atto dell'intelletto agente è continuo e rende intelligibili le immagini sensibili, causando l'atto dell'intelletto possibile, che è discontinuo. Però l'atto dell'intelletto possibile coincide con quello dell'intelletto agente, l'atto del primo altro non essendo che l'atto attuato dal secondo. A sua volta, l'atto dell'intelletto agente, essendo una " resultatio " della luce divina, coincide con l'attualità pura dell'intelligenza e della causa prima a deificarsi (" intellectus assimilativus vel assimilans ").
Questo processo ha luogo quando l'intelletto agente si congiunge al possibile non solo come causa, ma come forma (An. III III 11), producendo non solo un conoscimento, ma la scienza, grazie alla quale si attua l'" intellectus speculativus ", che realizza appieno l'essenza dell'uomo, in quanto prende coscienza di sé (" intellectus adeptus "): " per hoc quod efficiuntur ipsa intelligibilia in effectu; et totus adeptus est et acceptus, quando in effectu positus est omnium intelligibilium quae ipse est in potentia: et sic adipiscitur homo suum proprium intellectum. Et ideo dixit Plato quod verissima philosophiae diffinitio est suiipsius cognitio: et dixit Alpharabius quod anima posita est in corpore, ut seipsam inveniat et cognoscat; et hoc dicit Aristotelem dixisse, sed ubi dixit ad me non pervenit " (Intell. et intellig. II 8). " Et tunc homo perfectus et divinus effectus est ad suum opus, in quantum homo et non in quantum animal est perficiendum " (An. III III 11), perché l'" intellectus adeptus ", risalendo per l'irradiazione dell'" esse " e dell'" intelligere ", tende a deificarsi (Intell, et intellig. II 9).
S. Tommaso, che non attribuisce la facoltà di conoscere Dio per essenza nemmeno alle sostanze separate (cont. Gent. III 49), respinge la tesi averroistica della " copulatio " (III 43). Per A. l'anima umana è " substantiata et formata in esse divino " (Intell. et intellig. II 12) quando " in illo stat sicut in fine: et ideo, cum omnes homines natura scire desiderant, finis desiderii est stare in intellectu divino " (II 9).
Da notare: anche A. esprime in termini temperati e circospetti la dottrina della " deificatio " che svolge dalla mistica neoplatonica (Avicenna Met. X 5) e averroica (Averroè An. III 36). L'uomo si fa divino, simile a Dio ma non Dio, mediante una deificazione ontologica che implichi la perdita della natura intellettiva umana, così come si vuole nel movimento mistico contro cui A. redige una Determinatio (ed. in W.Preger, Geschichte der deutschen Mystik im Mittelalter, I, Lipsia 1878, 461-469; cfr. H.Grundmann, Religiöse Bewegungen im Mittelalter, Berlino 1935, 402-438; R.Guarnieri, Il movimento del libero spirito, in " Archivio italiano per la storia della pietà " IV [1965] 380-381; A. Patschovsky, Der passauer Anonymus, Stoccarda 1968, 38-41, 49-51 e passim); la natura umana resta e si attua, e proprio per questo compie e soddisfa le aspirazioni naturali nel senso indicato dalla Metafisica e dall'Etica di Aristotele: " Qui autem simplici primo et divino intellectui coniunctus est, divinus est et optimus in scientiis et virtutibus, ita quod, sicut dixit Homerus, non videbitur viri mortalis filius esse, sed Dei " (Intell. et intellig. II 9); " Mirabilis autem et optimus est iste status intellectus adepti; sic per eum enim homo fit similis quodammodo Deo, eo quod potest operari sic divina et largiri sibi et aliis intellectus divinos et accipere omnia intellecta quodammodo. Haec igitur dicta sunt ad praesens de solutione istius quaestionis. Aristoteles autem distulit eam usque ad X Ethicae suae ad solvendum. Est autem sciendum quod ille solus in veritate modus est, quo omnes homines naturaliter scire desiderant " (An. III III 11).
Bibl. - Dell'Opera omnia di A.M., pubblicata a c. dell'Istituto A.M., di Colonia, presieduto da B. Geyer, sono usciti i voll. XII, De Natura et origine animae, De Principiis motus processivi, Quaestiones super de animalibus (1955); XIV, p. I, fasc. 1, Quaestiones super Ethica (1968); XVI, I-II, Metaphysica (1960 e 1964); XIX, Super Isaiam, Super Ieremiam, Super Ezechielem (1952); XXVI, De Sacramentis, De Incarnatione, De Resurrectione, De IV coaequaevis (1958); XXVIII, De Bono (1951). Per le altre opere, oltre ad alcune edd. particolari, vedi l'Opera omnia edita da P. Jammy (21 voll., Lione 1651) e A. Borgnet (38 voll., Parigi 1890-1899). Rassegne bibl.: H. Laurent - J. Congar, Essai de bibliograph. albertinienne, in " Revue thomiste " XXXVI (1931) 422-468; G. Meersseman, Introductio in opera omnia b. A.M., Bruges 1931; P. Castagnoli, La vita e gli scritti di Sant'A. M. (Rassegna bibliografica), in " Divus Thomas " (Piacenza) s. 3, XI (1934) 129-144. Per la recente bibl. su A.M., vedi: A. Naviani, Il libro " De mineralibus " erroneamente attribuito ad A. M., Roma 1944; A. Ghigi, La parafrasi aristotelica nel trattato degli animali di A. M., Bologna 1944; I. Gobbo, Il pensiero geografico di s. A. M., Torino 1950; R. Haubst, Iohannes Wenck aus Herrenberg als Albertist, in " Rech. de théol. anc. et méd. " XVIII (1951) 308-323; ID., Zum Fortleben A.s des Grossen bei Heymerich v. Kamp und Nikolaus v. Kues, Münster i. W. 1952; Studia Albertina. Festschrift für Bernhard Geyer, ibid. 1952; A. Cortabarria, De Alpharabii et Alkindi operibus et doctrinis in scriptis s. A.M., Las Caldas de Besaya 1953; H. Chr. Scheeben, Albertus Magnus, Colonia 1955; L. Thorndike, Further consideration of the ‛ Experimenta ', ‛ Speculum astronomiae ' and ‛ De secretis mulierum ' ascribed to A. M., in " Speculum " XXX (1955) 413-443; Fr. Ruello, Les ‛ noms divins ' et leurs ‛ raison ' selon s.A, le Grand, Parigi 1963; A. Pelzer, Études d'histoire littéraire sur la scolastique médiévale, Lovanio-Parigi 1964, 272-335; B. Geyer, Die Universitätspredigten des A. M., Monaco 1966; J. Schneider, Das Gute und die Liebe nach der Lehre A.s des Grossen, Monaco 1967. Per gli argomenti della voce, vedi: B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672; ID., Nel mondo di D., Roma 1944; ID., D. e la cultura medievale, Bari 19492; ID., Studi di filosofia medievale, Roma 1960; ID., Dal " Convivio " alla " Commedia", ibid. 1960; G. Busnelli, Cosmogonia e antropogenesi secondo D.A., ibid. 1922; ID., L'origine dell'anima razionale secondo D. e A. M., ibid. 19292; PH. L. Gaul, A.s des Grossen Verhältnis zu Plato, Münster i. W. 1913; M. Grabmann, Mittelalterliches Geistesleben, Il, Monaco 1936, 286-312, 324-412; A. Maier, Die scholastischen Wesensbestimmung der Bewegung als forma fluens oder fluxus formae und ihre Beziehung zu A. M., Roma 1944; G. Meersseman, Geschichte des Albertismus, I-II, ibid. 1933-1935.