GUIDALOTTI, Alberto
Figlio di Nino, della nota famiglia perugina, e di Ceccola di Assisi, nacque nel quinto decennio del '300.
Così suggerirebbero la data del primo importante ufficio ricoperto nel 1376 e la morte sopraggiunta, dopo circa dieci anni di matrimonio, nel 1389 o 1390, quando i figli Tomassa, Angelo, Alberto, Elisabetta (m. 1460; sposata con Bartolomeo di Onofrio Bartolini) erano ancora in tenera età e Benedetto era appena nato.
La nobiltà del casato e la scelta popolare consentirono al G. e ai fratelli Francesco, omonimo dell'abate di S. Pietro loro parente, e Paoluccio di ricoprire reiteratamente uffici prestigiosi, pur nell'alternanza delle fazioni. Conseguito il titolo dottorale forse a Padova - nei documenti è sempre qualificato miles e legum doctor -, appartenne al Collegio perugino dei dottori, ma, in concorrenza con giuristi del calibro di Baldo e Angelo degli Ubaldi, forse suoi maestri, e del coetaneo Onofrio Bartolini, non risulta aver trovato spazio nello Studio perugino (contrariamente a quanto sostenuto da Zdekauer, seguito da Ermini).
Considerato tuttavia superiore per rango familiare a Baldo e ad Angelo, tanto da risultare in testa in ogni elencazione che includa uno o entrambi i fratelli, e dotato di altrettanta capacità dialettica e persuasiva, in una Perugia sempre più costretta ad aprirsi a orizzonti extracittadini, condivise con i suoi colleghi o sottrasse loro delicati incarichi politici e diplomatici, senza subire i reiterati rovesci di fortuna di Angelo e senza cambiar quartiere per aggirare i turni di attesa.
Nel 1376, dopo la cacciata da Perugia di Géraud Dupuy, abate di Marmoutier, vicario generale in temporalibus di Gregorio XI, fu inviato ambasciatore a Bologna per sollecitare o definire l'adesione alla lega che, auspice Firenze, si stava costituendo, insolitamente tra città per lunga tradizione guelfe, contro il Papato avignonese. Nel 1379 risulta insegnare a Padova insieme con Baldo, lontano dallo Studio perugino in temporanea crisi: lo rivela una risoluzione decemvirale che impegnò il G. e Baldo, "Padue commorantes", a unirsi agli inviati Angelo degli Ubaldi e Niccolò Michelotti per contattare Carlo d'Angiò Durazzo (il futuro re Carlo III) allora a Padova e aspirante, col sostegno di Urbano VI, alla successione di Giovanna I nel Regno di Napoli.
Per i buoni rapporti stabiliti, nel novembre del 1380 il G., tornato a Perugia, insieme con Angelo degli Ubaldi e Girolamo Buonguglielmi, fu inviato a Foligno con ricchi doni della Comunità per rendere omaggio a Carlo diretto a Roma: ma l'incontro non avvenne perché Carlo, nella fretta di raggiungere il papa, aveva anticipato il passaggio. Sul finire dell'anno il G. venne designato per il semestre successivo podestà di Città di Castello, terra raccomandata di Perugia che preoccupava la dominante per le divisioni interne. L'impegno suo e di altri perugini, inviati per ristabilire la pace, non impedì l'andata al potere, nell'agosto 1381, di Branca Ghelfucci, resosi accetto ai concittadini prospettando il ritorno all'autonomia.
Lo stesso anno, nell'eccitazione determinatasi soprattutto a Firenze per l'annunciata venuta in Italia dell'imperatore Venceslao di Lussemburgo, il G. fu designato capo di un'ambasceria che però non ebbe luogo. Nel dicembre fu nominato podestà di Bologna per il semestre successivo. Nel 1382 il G. fu inviato presso Luigi d'Angiò, fratello del re di Francia, dichiarato figlio adottivo da Giovanna I, regina di Napoli, e come tale pretendente al Regno in concorrenza con Carlo d'Angiò.
I Perugini, compromessisi con l'avversario, miravano quanto meno a contenere i danni d'un eventuale passaggio di Luigi d'Angiò in marcia verso il Sud con un grande esercito. Il Pellini segnala la missione come compiuta a Firenze e subito dopo ne indica un'altra affidata al medesimo G. presso Rodolfo (II) da Varano, signore di Camerino, per riferire la difficile situazione di Perugia e sollecitare una sua presenza armata al fine di scongiurare cambiamenti di regime. Sul finire dell'agosto e nei primi giorni di settembre 1382 l'esercito di Luigi d'Angiò si trovò ad attraversare la Marca da Nord a Sud con l'aiuto determinante di Rodolfo da Varano. I tafferugli che nello stesso mese ebbero luogo a Perugia contro i raspanti, accusati per il loro estremismo di tradire alla fin fine la fazione popolare, furono ritenuti ispirati dai Guidalotti. Forse al rischio determinato da quest'accusa si ricollega il testamento del 14 ott. 1382, dettato dal G. nel convento dei domenicani di Perugia, cui legava i propri libri designando la cappella di S. Nicola in S. Stefano come luogo di sua sepoltura. Dall'atto, con cui disponeva la restituzione alla moglie degli 800 fiorini della dote e l'usufrutto della casa di abitazione, apprendiamo che era sposato con Giovanna "domini Nicole", che al momento aveva una sola figlia Tomassa, cui riservava una dote di 600 fiorini, lo stesso importo destinato alle altre eventuali figlie. Designava eredi i figli maschi che fossero nel frattempo nati e, in loro mancanza, i cugini Ugolino e Ludovico di Lippo Guidalotti.
L'invio del G. sullo scorcio dell'anno ancora a Camerino per comporre la discordia fra i da Varano, i Chiavelli di Fabriano e gli Ottoni di Matelica e la nomina dei fratelli a podestà - di Paoluccio ad Ascoli Piceno e di Francesco a Nocera Umbra - fanno ritenere superate per la famiglia le difficoltà di inizio autunno: la designazione e l'avallo perugini erano forse già finalizzati al disegno di pace generale che si attuò nella primavera del 1384 con la riammissione in città di tutti i banditi. Gli incarichi ottenuti dal G. dopo l'evento lo attesterebbero temporaneamente accetto agli opposti partiti: dapprima, con Paoluccio d'Andrea e Giovanni di Tolomeo, entrò nella commissione incaricata di accertare e restituire i beni tolti in pendenza di bando ai rientrati; raggiunse in seguito varie città toscane incaricato, con Iacopo di Lello, di negoziare una lega militare che fu resa pubblica nel mese di novembre quando, tornato in patria e già inserito nella terna di esperti incaricati di gestire la guerra contro Assisi, il G. era in procinto, insieme con Oddo Baglioni, di raggiungere come ambasciatore la corte pontificia.
Nel 1385 trattò il recupero di Montone e di Fratta, castelli sottrattisi al dominio di Perugia: il successo, quasi insperato, gli procurò un premio di 150 fiorini, nonché il mandato di riformare gli ordinamenti di Fratta e di erigere nella località una rocca. Nella primavera, insieme con Oddo Baglioni, fu inviato ambasciatore a Urbano VI residente a Genova: i Perugini, sollecitati dalla consorte di Carlo III, Margherita, intendevano infatti favorire la riconciliazione fra il sovrano e il pontefice. Nel luglio del 1387, ancora con Oddo Baglioni e Giacomo degli Arcipreti, rappresentò Perugia nelle trattative con gli ambasciatori di Firenze e Siena giunti in città. Nel settembre, con Giovanni di Tolomeo, raggiunse Lucca per rimuovere gli ultimi dubbi di Urbano VI sul suo trasferimento a Perugia e per scortarlo quindi fino alla città, dove il papa fece solenne ingresso il 2 ottobre. Poco dopo, insieme con Bartolomeo Armanni, raggiunse Firenze per convincere i reggitori, collegati con Rinaldo Orsini, a far desistere il capitano di ventura dalle continue irruzioni contro Perugia e dall'occupazione di Orvieto e Spoleto, reclamate dalla Sede apostolica. I Perugini, dal canto loro, si impegnarono a convincere il papa alla pace con Firenze e garantirono la benevola accoglienza di ambasciatori inviati allo scopo, ma Urbano VI umiliò Perugia licenziando, dopo un'unica burrascosa udienza, la delegazione fiorentina prontamente giunta. Nel dicembre il G., con Oddo Baglioni e Armanni, fu delegato a trattare con i Fiorentini inviati per favorire il ritorno di Cannara sotto Perugia e l'allontanamento di mercenari bretoni che infestavano il territorio. Il recupero non avvenne, se, nella primavera del 1388, fu investito dello stesso problema, insieme con altri, suo fratello Francesco.
Risalgono al 12 e 23 maggio e al 10 giugno tre lettere (cfr. Zdekauer) scritte dal G. a Bartolomeo di Biagio, dottore senese, interessato a ottenere copie dei commenti di Innocenzo IV, di Bartolo, di Baldo. Tali copie dovevano essere eseguite ovviamente a Perugia, per intervento del G., che era interpellato evidentemente come cultore di diritto non estraneo ai commerci librari. Il G. profittò della richiesta per sollecitare la nomina di un suo nipote, Rinaldo, nel primo collegio da costituirsi per il sindacato del podestà di Siena; consigliò, inoltre, di aggiungere alle opere da riprodurre la Lectura in Codicem di Cino da Pistoia; chiese autorizzazione a far copiare le opere di grande mole "cum aliis scartabellis" al fine di ripartire su più scritti, scelti comunque per la loro utilità, le gabelle esatte per ogni volume in varie località lungo il percorso da Perugia a Siena.
Una missione compiuta a Firenze dal fratello del G., Paoluccio, per rafforzare l'alleanza e possibilmente arginare la politica di espansione di Gian Galeazzo Visconti, si risolse in un fallimento: fu imposto a Perugia, accusata di aver ceduto la sovranità al papa durante il soggiorno appena concluso (agosto 1388), di pacificarsi e allearsi con Antonio da Montefeltro e di accogliere in città i fuorusciti, scelta per altro indifferibile per mettere insieme le risorse necessarie a stipendiare mercenari utili all'alleanza e in grado di garantire la libertà.
Sul finire del 1388 il G. venne posto a capo della commissione incaricata di realizzare fortilizi nei territori di Assisi e Chiusi con le contribuzioni imposte alle due Comunità. Destinato ancora come ambasciatore a Firenze per il perdurare di relazioni difficili, dovette rinunciare per il sopraggiungere della nomina a capopriore, ottenuta in rappresentanza del Collegio dei mercanti, per il bimestre marzo-aprile 1389.
Non del tutto ordinarie le iniziative portate avanti dal magistrato presieduto dal G.: si intensificarono i contatti col pontefice per un suo ritorno a Perugia, si rimisero ai collaterali del podestà e del capitano del Popolo le funzioni di sindaco e procuratore pubblici, si potenziò con nuovi ordinamenti e più adeguate risorse l'ufficio del Conservatore della giustizia per il contado, cui competeva la sicurezza del territorio; si affidò alle corporazioni l'accertamento della condizione di cittadino originario, di cittadino rurale e di forestiero, accertamento indispensabile per una corretta compilazione delle "borse" degli uffici, fu deliberata ed eseguita la demolizione d'una fortificazione non ultimata, eretta da Assisi, in spregio della condizione di terra raccomandata, per fronteggiare quella eretta a Bastia dai Perugini.
In seguito al sopravvento in Perugia della fazione nobiliare (settembre 1389) Paoluccio Guidalotti fu condannato a morte.
Non risultano chiari i motivi di questa sentenza, eseguita sul sagrato della cattedrale il 27 settembre di quell'anno e inflitta dalla magistratura straordinaria dei Cinque dell'arbitrio, varata con poteri assoluti per garantire "pace e libertà" il 9 precedente, subito dopo il successo del tumulto di nobili. L'appartenenza alla migliore nobiltà e al relativo partito dei Cinque e dei due priori integranti il consesso fa ritenere convinta e operosa l'adesione del nobile G. alla fazione popolare; non appare invece credibile l'accusa diffusa a posteriori secondo la quale avrebbe voluto consegnare la patria ai Fiorentini, interessati in realtà a instaurare a Perugia un governo che fosse in sintonia politica con il loro.
L'ostilità manifesta del nuovo regime e l'adesione dell'intera famiglia alla fazione contrapposta indussero i fratelli del giustiziato ad abbandonare Perugia: Francesco, a capo di armati, si mise a battere il territorio occupando alcuni castelli e intercettando i rifornimenti destinati alla città che, provata dalla carestia e dalla peste, decretò l'abbattimento delle case dei Guidalotti sul colle Landone; il G. preferì riparare a Roma, all'ombra della corte pontificia, dove, per la lunga frequentazione, non doveva mancare di appoggi e a Roma morì sul finire del 1389 o all'inizio dell'anno successivo, all'incirca nei giorni in cui un'ambasceria perugina sostava in città per onorare Bonifacio IX da poco eletto. Dopo la sua morte la vedova svolse attività negoziale come tutrice dei figli maschi.
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