CECCHI, Alberto
Nacque a Roma l'11 ott. 1895, unico maschio dei cinque figli di Luigi e Anna Moraldi. Il padre, capitano dei bersaglieri, era toscano, mentre la madre apparteneva a una famiglia della buona borghesia romana. Rimasto presto orfano di padre, il C. compì a Roma gli studi classici, che risultarono un punto di riferimento assai importante anche per la sua formazione di scrittore. Lettore infaticabile, conobbe soprattutto la letteratura francese contemporanea da Flaubert a Valéry, da Proust a Gide ed A. France. Partecipò alla prima guerra mondiale come tenente dei bombardieri, rammaricandosi in verità più per la perifericità della sede assegnatagli all'inizio, l'Albania, che per l'interruzione degli studi o gli altri disagi; ma fu poi inviato sul fronte italiano, ove nella primavera del 1917 A. Baldini lo vide "sbalestrato, un'azione dopo l'altra nei punti più infernali del fronte...", e poi farglisi incontro uscendo "da certe rovine isolate fuori Monfalcone, baffetti corti e cravatta di bucato rigirata intorno al collo, tenendo in mano un girasole enorme, esagerato, come una bandiera di pace". Rivelava così un lato caratteristico del suo temperamento di dandy dannunziano, e insieme risentiva degli effetti di una educazione familiare in cui una parte importantissima era stata recitata dai severi esempi militari e dalle mitologie guerresche.
Le prime prove di scrittura, che risalgono per l'appunto agli anni della guerra, non corrispondevano d'altra parte all'affermazione prepotente di una vocazione, che mal si sarebbe conciliata con l'immagine di amabile scetticismo e di ironico disincanto che di sé egli volle sempre rilasciare, ma prolungavano verso il futuro e traducevano in memoria elegiaca quegli esempi e quelle mitologie.
Ritornato dal fronte dopo l'armistizio, entrò nella redazione dell'Idea nazionale, sulla cui terza pagina tenne fino al 1924 la colonnina "arguta e preziosa dei Piccoli cabotaggi, dandysmi e ramonismi, fumisterie e pastiches, tutto un giuoco astuto e cangiante di specchi, un caleidoscopio d'innocenti furfanterie mentali, prese di bavero, estri ..., divaghi" (Pavolini).
Nel 1919, non ancora congedato, interruppe la sua esperienza giornalistica per recarsi, come funzionario della Commissione interalleata, nell'Alta Slesia, ove il 20 marzo 1921 si tenne il plebiscito previsto dal trattato di Versailles che portò alla spartizione tra Germania e Polonia della parte della Slesia non assegnata alla Cecoslovacchia.
Tornato a Roma, si laureò in giurisprudenza; nella redazione dell'Ideanazionale conobbe S. D'Amico, V. Fracchia, A. Campanile, A. Frateili, C. E. Oppo, O. Vergani, ma subì soprattutto l'influenza del tentativo di restaurazione culturale condotto dagli uomini della Ronda, della quale egli rappresentò una specie di corrispettivo e correttivo mondano, e segnatamente quella di Vincenzo Cardarelli. Proprio al Cardarelli, dopo una breve parentesi milanese, durante la quale il C. fu direttore della Donna e redattore capo di Giro giro tondo, è dovuto, in data 27 dic. 1924, il suo esordio come critico teatrale sul Tevere di Roma.
Con il suo nome o con il trasparente pseudonimo di "Alce", il C. collaborò a questo quotidiano fino alla morte, segnalandosi per non comuni doti di equilibrio e rigore intellettuale, ma - non sempre per tempestività e perspicacia. L'incontro del critico con i massimi rappresentanti della drammaturgia contemporanea (da Pirandello a Shaw) "si risolse in un'operazione drasticamente riduttiva, anche se non, sia chiaro, in una svalutazione. Nonostante la curiosità per il nuovo, il letteratissimo C. non percepiva la portata e soprattutto non accettava la crisi del teatro della parola. Perciò finiva per farsi banditore spiritoso e pungente di un moderato ritorno all'antico, che gravava poi come un'ipoteca sulla sua stessa intelligenza dei contemporanei. Si pensi alla sua paradossale riproposta di Goldoni come autore di novità, o, in altro ambito, alla sua visitazione ironica, se non proprio irrisoria, del pirandellismo, con gli atti unici E se non vi piace è lo stesso, pubblicato dall'Italia letteraria del 27 apr. 1930, e Questa mattina non si recita per niente affatto, sulla Gazzetta del Popolo del 22 giugno 1932. Analoghe ragioni di "purismo" letterario sostengono il suo rifiuto del teatro dialettale, che per il C. è però una formidabile palestra di attori: i Viviani, i Musco, i Petrolini, i Govi.
L'elzevirista puntiglioso e sottile che fu il C., capace di adibire i modelli più diversi (da Flaubert a Collodi, a Proust) alla realizzazione di un suo personale ideale di prosa e al perseguimento di un tonodi ironia di volta in volta aristocratica e popolaresca, non si espresse al meglio di sé nei cinque poemetti in prosa di Parole a Clemenza, Roma 1928. Qui infatti il "genere" stesso del poemetto in prosa sembrava autorizzare un certo abbandono intimistico e sentimentale, togliendo mordente all'ironia e senso a una scrittura linguisticamente tanto controllata.
Altrettanto insoddisfacente, ancora una volta forse per una impropria utilizzazione della sottigliezza analitica, la commedia in tre atti che il C. fece rappresentare al teatro Valle di Roma nel gennaio 1929, La Stella sul pozzo, una insistita variazione sul tema del triangolo borghese, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dell'autore, dimostrare la compatibilità dell'intellettualismo contemporaneo con gli istituti drammatici tradizionali e con l'impianto naturalistico della vicenda. Ma quella della moglie che, senza sua colpa, perde progressivamente le sue attrattive agli occhi del marito per la sottile opera di persuasione di un suo corteggiatore, resta una situazione ai limiti del pirandellismo deteriore e sembra materialmente impedita a svolgersi in modi diversi da quelli del solito gioco verbale tra la brillantezza ironica e il sentimentalismo manierato.
Visto che anche le prose di memoria, raccolte postume a cura degli amici A. Baldini e O. Vergani, sotto il titolo di Cuore d'una volta, Milano 1935 (presso l'editore Valentino Bompiani, anche lui amico e compagno di lavoro del C.), delineano una figura assai scialba di narratore-calligrafo e spesso avviliscono un autentico impulso autobiografico nei tipi convenzionali di una vita filtrata attraverso la letteratura, la produzione più interessante del C. andrà individuata nel Teatro francese, con prefazione di S. D'Amico, Milano 1935 (la testimonianza, postuma e incompiuta, di una curiosità vivissima e di un consuetudine ininterrotta per la cultura d'Oltralpe), e soprattutto nella Parete di cristallo, a cura di E. Falqui, Milano 1941, in cui i frutti della quotidiana attività del critico teatrale sembrano superare la propria occasionalità e si compongono in un discorso organico, altrettanto definito sul piano concettuale che su quello stilistico. Si scopre così che ripulse e predilezioni discendono da una concezione complessiva della letteratura e del teatro, senz'altro rapportabile a una ascendenza rondesca, e da una autonoma riflessione sulla funzione e sui doveri del critico, che non tradisce la nomea di raffinato snobismo e di anticonformismo intelligente di cui, nella Roma degli anni Venti, si circondò il Cecchi.
Dopo una lunga malattia, il C. morì a Roma, il 18 nov. 1933.
Fonti e Bibl.: Necrologi: R. De Mattei, A.C.,in Quadrivio, 26 nov. 1933; C. Pavolini, A.C.,in L'Italia letter.,26 nov. 1933; S. D'Amico, La morte di A.C., in Nuova Antologia, 1º dic. 1933, pp. 470-472. Inoltre: C. Pellizzi, La letteratura ital. del nostro secolo, Milano 1929, pp. 27, 377 s.; A. Bocelli, A. C., in Nuova Antologia, 1º ag. 1935, pp. 470 58; O. Vergani, Breve storia di Alberto, in Quadrivio, 10 febbr. 1935; A. Baldini, A.C., in Corr. della Sera, 26 febbr. 1935; E. Falqui, Prosatori e narratori del Novecento ital., Torino 1950, pp. 236, 238-248 (si riproduce la Nota su A. C. premessa alla edizione citata nel testo della Parete di cristallo, pp. 5-24); Diz. univ. della letter. contemp., I,Milano 1959, pp. 739 s.