BURRI, Alberto
Nacque a Città di Castello (Perugia) il 12 marzo 1915, primogenito di Pietro, commerciante di vini, e di Carolina Torreggiani, insegnante elementare.
Dopo aver conseguito la maturità classica presso il liceo Annibale Mariotti di Perugia, nel 1934 s’iscrisse alla facoltà di medicina all’Università della stessa città.
Nell’estate del 1935, poco prima che l’Italia invadesse l’Etiopia, presentò domanda di arruolamento alla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN, le ‘camicie nere’ del regime fascista) e l’8 agosto fu assegnato alla 104ª legione Santorre di Santarosa, compagnia universitaria Principe di Piemonte, inquadrata nella divisione 3 gennaio. Il 3 novembre, circa un mese dopo l’inizio delle ostilità, partì da Napoli per l’Africa, dove rimase fino alla fine d’ottobre 1936, quando da Gibuti (Somalia francese) s’imbarcò per l’Italia.
Tra il 9 novembre 1936 e l’11 novembre 1937 prestò servizio militare, come sottotenente di complemento, nel 46° reggimento fanteria dell’esercito italiano, alloggiato a Cagliari.
Negli anni successivi riprese gli studi medici fino alla laurea che discusse il 12 giugno 1940, con una tesi dal titolo L’influenza dei batteri fotodinamici sul rachitismo sperimentale nei ratti, valutata 90/110.
Il 9 ottobre 1940, quattro mesi dopo l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, con il grado di sottotenente medico di complemento, fu richiamato alle armi e assegnato al comando deposito del 52° reggimento fanteria Spoleto. Ma 20 giorni più tardi fu congedato per consentirgli di seguire il tirocinio presso un istituto ospedaliero ai fini dell’abilitazione all’esercizio della professione.
Conseguito il diploma, tornò al 52° reggimento prima di essere trasferito al 102° battaglione ‘camicie nere’ della MVSN, con il quale raggiunse Durazzo (Albania) nell’aprile 1941. Fino al gennaio 1942, quando rientrò in Italia, fu impegnato nelle operazioni belliche nei dintorni di Cettigne, antica capitale del Montenegro. All’inizio di marzo 1943 fu nuovamente mobilitato dal comando Milmart (Milizia marittima d’artiglieria, forza speciale della MVSN) di Roma e assegnato alla 10ª legione in Africa settentrionale. Poco prima della partenza, gli giunse la notizia della morte del fratello Vittorio, un anno più giovane di lui e medico militare sul fronte russo (m. 24 gennaio 1943).
Nei giorni della resa italiana in Africa, fu catturato dagli inglesi l’8 maggio 1943, in località La Marsa, poco distante da Tunisi. Passato in mano agli statunitensi, fu condotto in Texas e rinchiuso nel campo di prigionieri di guerra di Hereford, a circa 30 km dalla città di Amarillo, dove giunse nell’agosto 1943 e rimase per 18 mesi. Nella primavera del 1944 rifiutò di firmare una dichiarazione di collaborazione propostagli e fu catalogato tra i fascisti ‘irriducibili’.
Fu in questo periodo che maturò la convinzione di dedicarsi alla pittura. Al suo arrivo gli fu sequestrata la borsa con le attrezzature; privato così della sua identità di medico, sfruttò le possibilità offerte ai detenuti di svolgere varie attività all’interno del campo (lettura, sport e lavori vari) e cominciò a dipingere. Una delle rare testimonianze delle prime prove pittoriche è costituita dal quadro Texas (1945; Roma, collezione privata) che raffigura, con modi realistici, il paesaggio visibile dal campo di prigionia in cui era rinchiuso.
Rientrò dalla prigionia americana molto dopo la fine delle ostilità. Giunse a Napoli il 27 febbraio 1946, con altri 600 ufficiali e 240 soldati di leva. Visse per un breve periodo a Città di Castello, prima di trasferirsi a Roma, avendo ormai scelto di dedicarsi a tempo pieno alla pittura: prima fu ospite del musicista Annibale Bucchi, primo violino nell’orchestra di S. Cecilia e cugino della madre, poi condivise uno studio in via Mario de’ Fiori, nei pressi di piazza di Spagna, con l’amico scultore Edgardo Mannucci.
La prima mostra personale di Burri, favorita dall’architetto Amedeo Luccichenti, si svolse nel luglio 1947, presso la galleria La Margherita di Gaspero del Corso e Irene Brin, e fu presentata dai poeti Libero de Libero e Leonardo Sinisgalli. Le opere esposte erano ancora di carattere figurativo con qualche debito verso la pittura tonale della Scuola romana degli anni Trenta. Nei giorni dell’esposizione conobbe lo scultore Pericle Fazzini, vicepresidente dell’Art Club, importante sodalizio artistico romano aperto anche alle novità dell’arte astratto-concreta. Probabilmente grazie alla sua mediazione, ebbe la possibilità di partecipare con le proprie opere alle iniziative dell'associazione, diretta in quel momento da Enrico Prampolini: già nel dicembre 1947 prese parte alla II Mostra annuale del sodalizio e continuò ad esporre con l’Art Club fino ai primi anni Cinquanta, sia in Italia sia all’estero. Nello stesso 1947 ottenne il primo riconoscimento ufficiale del suo lavoro, vincendo il secondo premio nella prima edizione del Premio Perugia (27 settembre-20 ottobre), con Pesca a Fano (Perugia, Accademia di belle arti).
Nella sua seconda mostra personale, sempre presso la galleria La Margherita, nel maggio 1948, propose per la prima volta opere astratte che, con le loro forme ora amebiche e organiche, ora filiformi e reticolari, rivelavano alcune affinità con il linguaggio di Jean Arp, Paul Klee e Joan Miró.
Successivamente iniziò a elaborare i primi catrami in cui le qualità dei materiali (erano realizzati con olio, catrame, sabbia, vinavil, pietra pomice e altri materiali su tela) cominciavano a prendere il sopravvento sulla semplice organizzazione formale della composizione. Non è chiaro quando ciò avvenne esattamente e quanto possa aver influito, in questi lavori, la conoscenza delle opere del francese Jean Dubuffet o del tedesco, attivo a Parigi, Wols (Alfred Otto Wolfgang Schulze). Ma è un fatto che Burri si recò a Parigi alla fine del 1948 e lì ebbe la possibilità di visitare lo studio di Miró, di vedere le opere astratte più recenti dell’italiano Alberto Magnelli, punto di riferimento per i giovani italiani desiderosi di novità, e di conoscere quanto si esponeva presso la galleria René Drouin, che si stava affermando come uno dei centri più importanti della nuova stagione artistica, poi denominata 'informale'.
L’anno dopo, grazie a una segnalazione alla III Mostra annuale dell’Art Club, una sua opera (Composizione, 1948; collezione privata) fu esposta al Salon des réalités nouvelles di Parigi che, dal 1946, promuoveva l’arte astratto-concreta nella capitale francese. La tela fu apprezzata dal critico Christian Zervos che, in seguito, visitò lo studio di Burri e pubblicò Catrame (1949; Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini, Collezione Burri) nel fascicolo del 1950 della sua rivista Cahiers d'Art.
Il 1950 fu un anno di grande sperimentazione per Burri, durante il quale dipinse diverse muffe, sfruttando le efflorescenze prodotte dalla pietra pomice combinata alla tradizionale pittura a olio, ma anche il primo gobbo, dal caratteristico rigonfiamento ottenuto con rami di legno sistemati su retro della tela, e il primo sacco, realizzato interamente con la juta, rattoppata e ricucita. Sempre nel 1950, eseguì il grande Pannello Fiat (un quadrato di quasi 5 m di lato) per la sala espositiva di una concessionaria di automobili romana.
Nel gennaio 1951 firmò il manifesto Origine (con Mario Ballocco, Giuseppe Capogrossi ed Ettore Colla) che, muovendosi su un terreno non-figurativo e auspicando la scoperta di un «momento di partenza» diverso per ogni artista, proponeva la «rinunzia stessa ad una forma scopertamente tridimensionale», la «riduzione del colore alla sua funzione espressiva più semplice ma perentoria e incisiva» e l’«evocazione di nuclei grafici, linearismi e immagini pure ed elementari» (I mostra del gruppo Origine, 1951, pp. n.n.). Burri partecipò alla mostra inaugurale del gruppo, scioltosi l’anno dopo, e inoltre alcune sue opere, tra cui Gobbo (1950, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), furono incluse nella mostra Arte astratta e concreta in Italia, allestita presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, nel febbraio del 1952.
Il 1952 si aprì con la mostra personale Neri e Muffe, presso la galleria dell’Obelisco di Roma, ben recensita da Lorenza Trucchi (1952), che ne apprezzò la «tremenda e splendida» materia, e da Angelo Canevari (1951-52). Ad aprile, presso la Fondazione Origine dell’amico Colla, si tenne la mostra Omaggio a Leonardo in cui espose tra gli altri Lo Strappo, uno dei primi sacchi che solo pochi mesi dopo fu rifiutato dalla giuria della Biennale di Venezia. Fu invece accolto, nella sezione del ‘bianco e nero’ della mostra veneziana, il disegno Studio per lo strappo, acquistato da Lucio Fontana. Il 17 maggio Burri fu tra i firmatari del Manifesto del movimento spaziale per la televisione, promosso dallo stesso Fontana. Nel corso dell’anno lasciò gli spazi di via Mario de’ Fiori e si trasferì in via Margutta, in uno studio confinante con quello del pittore Franco Gentilini e con il terrapieno del Pincio.
La prima mostra personale americana (Alberto Burri: paintings and collages), allestita presso la Allan Frumkin Gallery di Chicago, si svolse tra il 13 gennaio e il 7 febbraio 1953; fu poi trasferita nella newyorkese Stable Gallery di Eleanor Ward alla fine dell’anno.
Nel frattempo Burri aveva conosciuto il critico James Johnson Sweeney, allora direttore del Solomon R. Guggenheim Museum di New York, che all’inizio del 1953 si trovava a Roma, con il mercante d’arte Curt Valentin. Impressionato dai suoi lavori e in particolare da ZQ 1 (1953; collezione privata), esposto nella sede della Fondazione Origine, Sweeney volle conoscerlo e decise di promuoverne il lavoro attraverso il sostegno critico, che sfociò nella prima monografia a lui dedicata (1955), e l’inclusione di alcune sue opere nell’attività espositiva del museo. Due opere di Burri furono così inserite nella mostra collettiva Younger European painters, organizzata dal Solomon R. Guggenheim Museum, che, dopo la tappa di New York (dicembre 1953-febbraio 1954), si spostò nei due anni successivi in varie città americane (Minneapolis, Portland, San Francisco, Dallas, Fayetteville, Dayton, Andover, South Hadley, Middletown).
Nel marzo 1953, ricevette nello studio di via Margutta due visite del giovane pittore americano Robert Rauschenberg, in procinto di rientrare negli Stati Uniti.
Un mese dopo, tra il 18 e il 30 aprile, fu allestita, presso la Fondazione Origine, una nuova personale di Burri presentata dal poeta Emilio Villa che sottolineava lo sforzo dell’artista di liberare le sue opere da ogni aspetto superfluo, per recuperare «i primi principi, i sapori germinali di un organismo assai grande e non sconosciuto» attraverso l’utilizzo di mezzi «addirittura trasandati, consunti, acidi» (Villa, 1953). La collaborazione con Villa si protrasse anche negli anni successivi: nel 1955 fu stampato il volume 17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica, in cui i componimenti plurilinguistici del poeta trovavano una precisa rispondenza nelle illustrazioni di Burri; alla fine dello stesso anno la rivista Civiltà delle macchine pubblicò un reportage di Villa e Burri, trascritto da Giuseppe Cenza, dai pozzi di petrolio di Casalbordino (Abruzzo), in cui erano riprodotti anche un disegno e due combustioni dell’artista.
Il 1954 fu caratterizzato oltre che dalle ormai consuete mostre personali (galleria dell’Obelisco di Roma, aprile; Allan Frumkin Gallery di Chicago, maggio) e dal trasferimento nello studio di via Salaria, anche dall’ingresso nel gruppo di artisti sostenuti dal critico francese Michel Tapié, padre dell’Art autre. Infatti, prese parte alla collettiva Caratteri della pittura d’oggi, allestita presso la galleria Spazio di Roma e curata dallo stesso Tapié e Luigi Moretti, poi trasferita nella galleria Rive Droite di Parigi. Verso la fine dell'anno, iniziò a servirsi nei suoi lavori del fuoco, realizzando le prime piccole combustioni su carta.
Il 15 maggio 1955 sposò, a Westport (California), la ballerina americana d’origine ucraina Minsa Craig (1928-2003), conosciuta a Roma l’anno precedente. Nello stesso periodo apriva la mostra collettiva The new decade: 22 European painters and sculptors, organizzata dal Museum of Modern Art di New York (maggio-agosto), dove erano esposti cinque suoi lavori. Risale a quella mostra una delle poche dichiarazioni di poetica dell’artista, che nel catalogo (p. 82) scriveva, tra l’altro: «Le parole non mi sono d’aiuto quando provo a parlare della mia pittura. Questa è un’irriducibile presenza che rifiuta di essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione. È una presenza nello stesso tempo imminente e attiva. Questa è quanto essa significa: esistere così come dipingere. La mia pittura è una realtà che è parte di me stesso, una realtà che non posso rivelare con parole». Con le due personali dello stesso anno (Stable Gallery di New York, Fine Arts Center di Colorado Springs), questa esposizione rappresentò la sua definitiva affermazione in territorio americano. Sempre nel 1955, un buon esito ebbe la partecipazione alla Quadriennale romana, con la presentazione di James Johnson Sweeney, e alla Biennale di San Paolo del Brasile.
Nonostante i successi e il sostegno dell’amico Afro Basaldella, che provò a insistere col segretario Rodolfo Pallucchini affinché gli assegnasse una sala, alla Biennale di Venezia del 1956 gli fu concesso di esporre due sole opere. Tuttavia, a settembre, mentre la Biennale era ancora in corso, la veneziana dalleria del Cavallino gli dedicò una mostra con molti dei suoi ormai noti sacchi. Alla fine dell’anno Tapié gli organizzò un’altra personale presso la galleria Rive Droite di Jaen Larcede, diventata uno dei santuari dell’Informale parigino, dopo la chiusura della galleria Drouin nel 1951.
Mentre nelle esposizioni erano soprattutto i sacchi a riscuotere i consensi, Burri continuava a realizzare numerose combustioni (con legno, tela e plastica) e sperimentava le caratteristiche del legno. Ma erano effettivamente le combustioni con la plastica a offrire l’idea di un pittore pienamente inserito nel clima dell’Informale: la prima di queste opere a essere esposta fu Rosso Combustione Plastica (1957, collezione privata) in occasione della mostra inaugurale della Rome-New York Art Foundation (luglio 1957), istituita a Roma dalla pittrice Frances McCann, su suggerimento di Peggy Guggenheim, per alimentare le relazioni artistiche tra Italia e Stati Uniti.
Il 1957 di Burri fu caratterizzato da numerose mostre personali presso le gallerie del Naviglio di Milano, dell’Obelisco di Roma, La Loggia di Bologna, con la presentazione di Francesco Arcangeli, poi trasferita alla galleria La Bussola di Torino. Con gli amici Afro e Toti Scialoja espose alla galleria La Tartaruga di Roma. Inoltre, ebbe luogo la sua prima importante retrospettiva presso il Carnegie Institute di Pittsburgh (19-29 novembre e poi trasferita a Chicago, Buffalo e San Francisco).
Verso la fine dell’anno , con un’inattesa svolta rispetto alla recente produzione, realizzò i primi ferri, in cui sfruttava le possibilità offerte dalla tecnica della saldatura all’interno di un discorso pittorico bidimensionale. Le prime di queste opere mantenevano analogie compositive con sacchi, legni e plastiche, mentre successivamente Burri maturò un’impaginazione più rigorosa e consona alle caratteristiche del nuovo materiale utilizzato. La prima mostra dedicata ai ferri fu allestita presso la milanese galleria Blu di Peppino Palazzoli, allora mercante anche di Lucio Fontana, alla fine del 1958 (24 novembre-31 dicembre), poche settimane dopo la chiusura della Biennale di Venezia, dove l’artista aveva esposto le sue opere più conosciute. Sempre alla fine del 1958 ottenne il terzo premio alla mostra The 1958 Pittsburgh bicentennial international exhibition of contemporary painting and sculpture, allestita presso il Carnegie Institute di Pittsburgh.
L’attività espositiva fu piuttosto intensa nel 1959: da ricordare le mostre personali a Basilea (Galérie d’Art Moderne Marie-Suzanne Feigel, 14 febbraio-19 marzo) e Roma (galleria La Tartaruga, dal 13 maggio), la retrospettiva a Bruxelles (Palais des Beaux-Arts, 11-22 aprile, presentata da Giulio Carlo Argan) e la mostra itinerante tra Austria e Germania (Krefeld, Vienna, Dortmund); partecipò, inoltre, alle collettive Arte nuova (Torino, Palazzo Graneri, maggio-giugno) e Vitalità dell’arte (Venezia, Palazzo Grassi, agosto-ottobre), oltre che alla seconda edizione di Documenta a Kassel (luglio-ottobre) e alla quinta Biennale di San Paolo del Brasile (settembre-dicembre).
Il 10 aprile 1959 il vicepresidente del Senato, Ettore Ribaldi, lesse in aula un’interrogazione parlamentare del senatore comunista Umberto Terracini che chiedeva spiegazioni sulla cifra spesa per l’acquisto di un’opera di Burri (Grande sacco, 1952) da parte della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma (dove ancora è conservata). Fu il senatore Angelo Di Rocco, sottosegretario alla Pubblica Istruzione, a chiarire che il quadro non era stato acquistato, ma si trovava in deposito dopo essere stato esposto, qualche anno prima, in una mostra collettiva organizzata dalla stessa Galleria.
Dopo altre due mostre personali all’estero nei primi mesi del 1960 (New York, Martha Jackson Gallery, e Londra, Hannover Gallery), Burri ottenne finalmente una sala alla Biennale di Venezia (giugno-ottobre 1960), dove ricevette anche il premio dell’Associazione internazionale dei critici d’arte. Nello stesso anno, durante il quale trasferì la sua residenza in via Grottarossa, fuori Roma, tra le vie Cassia e Flaminia, Giovanni Carandente realizzò il primo documentario della sua opera, che fu proiettato nei cinematografi italiani.
Un lungo viaggio tra Messico e Stati Uniti e i postumi di un delicato intervento chirurgico rallentarono la sua produzione, sebbene continuasse a esporre in mostre personali e collettive. Alcune sue opere, soprattutto sacchi, furono incluse nell’importante esposizione The art of assemblage allestita nel Museum of Modern Art di New York (2 ottobre-12 novembre 1961).
Alla fine del 1962, anno in cui acquistò la villa di Case Nove di Morra, presso Città di Castello, ed Enrico Crispolti curò una ricca mostra antologica a lui dedicata all’Aquila (Castello cinquecentesco, luglio-agosto), si ripresentò al pubblico con gli esiti degli ultimi mesi di lavoro. Tra dicembre 1962 e gennaio 1963, la galleria Marlborough di Roma ospitò un’esposizione dedicata alle plastiche che, dopo i ferri, rappresentarono una nuova, e inattesa, svolta. Forse rimeditando alcune plastiche di metà anni Cinquanta, decise di concentrare la sua attenzione sulla pellicola di plastica trasparente, una materia «lucida e sgradevole, per la sua pretesa asettica, per quel “vedere e non toccare” che è quasi una provocazione e che chiede, invoca una lacerazione», come scrisse Cesare Brandi (1963, pp. n.n.) nel suo testo di presentazione alla mostra.
La nuova stagione delle plastiche si protrasse per tutto il decennio e Brandi ne fu l’esegeta principale: introdusse molte mostre e scrisse su Burri una fondamentale monografia (1963). Tra le occasioni in cui le plastiche furono presentate vi furono la III edizione di Documenta a Kassel (giugno-ottobre 1964), l’VIII Biennale di San Paolo del Brasile (settembre-dicembre 1965), dove vinse il Gran Premio, e la Biennale di Venezia del 1966, con una sala curata da Vittorio Rubiu. Anche nel confronto con le opere di Lucio Fontana, nella mostra itinerante organizzata dal Museum of Modern Art di New York sempre nel 1966, Burri propose alcune plastiche recenti.
Nel 1963 disegnò, prima di una lunga serie d’ideazioni in questo settore, la scenografia e i costumi per cinque balletti del pianista, direttore d’orchestra e compositore americano Morton Gould alla Scala di Milano. L’anno successivo fu insignito del Premio Marzotto per la pittura.
Gli avvenimenti più significativi alla fine degli anni Sessanta, quando acquistò una casa a Los Angeles (California) dove trascorse i mesi invernali fino al 1990, furono la grande mostra retrospettiva allestita presso la Kunsthalle di Darmstadt nel 1967 (8 aprile-14 maggio), l’inaugurazione della sala a lui dedicata alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma nel giugno 1968 e la realizzazione delle scene per L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone per la XXIV Festa del teatro a San Miniato (Pisa), messo in scena da Valerio Zurlini per il teatro Stabile dell’Aquila, nel 1969.
All’inizio degli anni Settanta, si dedicò a due nuovi allestimenti teatrali: nel 1972 realizzò le scene del balletto November steps, musica di Toru Takemitsu e coreografie di Minsa Craig; l’anno dopo eseguì Teatro continuo per la Triennale di Milano (Parco Sempione), un complesso di scene mobili e quinte rotanti che offrivano a regista e scenografo innumerevoli varianti in base alle esigenze di rappresentazione (l’opera fu demolita nel 1989).
Nello stesso 1973 utilizzò i soldi del Premio Feltrinelli per la grafica, conferitogli dall’Accademia dei Lincei, per contribuire al restauro del ciclo di affreschi di Luca Signorelli nell’oratorio cinquecentesco di S. Crescentino a Morra.
In quegli anni cominciò a lavorare anche ai cretti, originati da una misurata miscela di collanti acrovinilici con altri materiali utilizzati per ricoprire il supporto (creta, caolino, bianco di zinco). La miscela granulosa ottenuta, a contatto con l’aria, si rigonfiava e si crepava sotto l’azione del calore. Compito dell’artista era di controllare il processo di crettatura e bloccarlo, con uno strato di colla vinavil, quando avesse raggiunto l’equilibrio compositivo voluto. I cretti, sui quali lavorò per tutto il decennio, furono esposti per la prima volta nell’ottobre del 1973 a Bologna (galleria San Luca).
Tra 1975 e 1976, dopo aver viaggiato in Messico e Guatemala, ideò gli ultimi due allestimenti teatrali: realizzò le scene di Tristano e Isotta di Wagner per il teatro Regio di Torino (direzione di Peter Maag e regia di Francesca Siciliani) e progettò Teatro Scultura per 'Operazione Arcevia. Comunità esistenzialeˈ (iniziativa promossa dall’architetto Ico Parisi), tra le prime realizzazioni scultoree dell’artista, presentata anche alla Biennale di Venezia del 1984.
Una mostra antologica allestita presso il convento di S. Francesco d’Assisi, nel maggio 1975, propose al pubblico anche un cellotex di recente realizzazione. Il cellotex era un materiale generalmente utilizzato in edilizia come isolante e realizzato con una mistura di colle e segatura di legno. Burri, dopo averlo usato per anni come supporto per le sue opere, lo scelse per le proprie sperimentazioni dalla metà degli anni Settanta: raschiato e inciso con sapiente precisione, il cellotex perdeva la sua anonima natura industriale per diventare il luogo di un serrato dialogo tra luce e ombra.
Intanto l’attività espositiva proseguiva senza interruzioni, sebbene con minore intensità rispetto alle decadi precedenti. Le retrospettive organizzate dalla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, a cura di Bruno Mantura (gennaio-marzo 1976), e dalla Frederick S. Wight Art Gallery della University of California di Los Angeles (UCLA), a cura di Gerald Nortland (settembre-dicembre 1977, poi trasferita anche al Solomon R. Guggenheim Museum di New York), furono la più significative esposizioni degli ultimi anni Settanta.
Prima di questa seconda retrospettiva, Burri aveva già collaborato con l’UCLA, realizzando il primo cretto di dimensioni monumentali per il Franklin D. Murphy sculpture garden della medesima istituzione, nel 1976. Nel biennio successivo realizzò il suo secondo grande cretto (15 m x 5) per il Museo di Capodimonte di Napoli.
L’evoluzione più spettacolare dei cretti fu, tuttavia, il cretto di Gibellina (Trapani). Convocato nel 1981 da Ludovico Corrao, sindaco della cittadina distrutta dal terremoto nel gennaio 1968, propose di realizzare un cretto di quasi 90.000 m² sulle macerie della vecchia Gibellina. I lavori, iniziati nell’agosto del 1985, furono interrotti nel dicembre 1989 per mancanza di fondi con l’opera non ancora completata.
Il Viaggio (1979), formato da dieci monumentali composizioni che ripercorrevano i momenti più significativi della sua produzione artistica, inaugurò invece la stagione dei grandi cicli pittorici. Negli anni successivi realizzò Orti (1980), Sestante (1984), Rosso e nero (1984), Annotarsi (1985), Non ama il nero (1988), ora esposti permanentemente presso gli Ex Seccatoi del tabacco di Città di Castello.
A Palazzo Albizzini, sede della omonima Fondazione, costituita per volere dello stesso Burri nel 1978, e negli Ex Seccatoi, inaugurati come luogo espositivo nel luglio 1990, l'artista allestì infatti la collezione che donò alla città natale. Attraverso il percorso museale organizzato in queste due sedi e il catalogo sistematico delle sue opere, maturato alla fine degli anni Ottanta e realizzato sotto la sua attenta regia, offrì così una precisa ipotesi di lettura della sua produzione in cui trovarono posto anche le sculture di grandi dimensioni (Grande Ferro Sestante, Grande Ferro K, Grande Ferro U), cui cominciò a dedicarsi in contemporanea ai grandi cicli pittorici.
All’inizio degli anni Novanta, Burri e la moglie lasciarono la California e si stabilirono a Beaulieu-sur-Mer, in Costa Azzurra (Francia), località adatta per curare il suo enfisema polmonare, continuando a trascorrere i mesi estivi a Città di Castello. Nonostante l’età avanzata proseguì la sperimentazione di nuovi materiali: l’ultimo suo lavoro fu Metamorfex, un ciclo di nove opere presentate, dall’amico Nemo Sarteanesi, negli Ex Seccatoi.
Morì a Nizza il 13 febbraio 1995.
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