Mussato, Albertino
Storico, poeta e uomo politico (Padova 1261 - Chioggia 1329): il più eminente tra quei letterati di Padova che si sogliono indicare con il titolo di ‛ preumanisti '. A delineare la sua posizione nei riguardi dell'Umanesimo basterebbero le tre sue epistole (la IV, la VII e soprattutto la XVIII, in polemica con fra Giovannino da Mantova) nelle quali egli tratta un tema che sarà ripreso dal Petrarca, dal Boccaccio, dal Salutati, la " difesa della poesia "; un vecchio problema che nel ripresentarsi, in modo così insistente, attesta il rinnovato interesse per la letteratura pagana. Questa sua professione umanistica, la qualità dei suoi scritti (tutti in latino, tranne un mediocre sonetto in tenzone con Antonio da Tempo), la sua azione politica (fautore di Enrico VII, a cui era legato da rapporti di personale amicizia, fu insieme, e poi dopo la morte di Enrico, strenuo difensore della libertà di Padova contro il vicario imperiale, Cangrande): tutto contribuisce a ravvicinarlo e contrapporlo a D., a farne per così dire un suo interlocutore ideale. " Quanto piacerebbe sapere se Albertino vide e conobbe mai Dante! " esclamava il Carducci, che sentiva vicini i due nel comune ideale di libertà cittadina, e indugiava a cercare luogo e tempo di un possibile incontro. La critica più recente preferisce mettere in evidenza i motivi di contrasto fra i due e ricerca negli scritti dell'uno e dell'altro allusioni polemiche donde si possa dedurre un giudizio. Ma, per quello che risulta allo stato attuale delle nostre conoscenze, incontri non ci furono, giudizi non furono espressi.
Il primo a contrapporre il M. a D. fu Giovanni del Virgilio nell'egloga responsiva (Eg III 88-89; e v. EGLOGHE): se Titiro, cioè D., disdegnerà il suo invito (di venire a Bologna e forse, implicitamente, di comporre poemi in latino), Mopso, cioè Giovanni, estinguerà la sua sete nel Musone, fiume della sua patria (" Me contempne: sitim frigio Musone levabo "). Il Musone è un fiumicello del padovano che, secondo la comune opinione, deve rappresentare allegoricamente la poesia del Mussato. Sebbene qualche giustificazione possa trovarsi nell'egloga virgiliana che Giovanni ebbe a modello, dove Coridone pensa di consolarsi con altri, se respinto da Alessi (Virg. Buc. II 73 " invenies alium, si te hic fastidit, Alexim "), il discorso non manca di meravigliarci in un contesto destinato a conquistare la simpatia e l'affetto di Dante. Non sappiamo se questo intese l'allusione nel senso in cui noi l'intendiamo e come l'accolse: nell'egloga di risposta l'ignora. Dopo la morte di D., Giovanni del Virgilio diresse al M. un'egloga (scritta nel 1325 ma inviata più tardi), nella quale ricorda la corrispondenza poetica avuta con D. in stile bucolico. L'accostamento D. e M. suggerisce e autorizza altre considerazioni, sempre nell'ambito di tale corrispondenza. L'invito di Giovanni a scrivere non in volgare ma in latino proviene da convinzioni umanistiche, o se vogliamo ‛ preumanistiche ', molto vicine al Mussato. Giovanni propone a D., come degni di essere svolti in latino, quattro argomenti di storia, simili a quelli trattati dal M. nelle opere di prosa e nell'Ecerinide (il De Obsidione domini Canis Grandis, in esametri, non era ancora scritto a quell'epoca), ma conformi alle idee politiche di D.: il terzo, riguardando le vittorie di Cangrande sui Padovani (" dic Phrygios damas laceratos dente molosso ") avrebbe potuto dar luogo a una specie di anti-Ecerinide. Nel 1315 Albertino era stato coronato a Padova storiografo e poeta, per la tragedia e per il De Gestis Henrici VII Caesaris (detto anche Historia Augusta); e Giovanni del Virgilio si esprime nella sua epistola in termini tali, che D. può interpretarla come un invito a cingersi, in Bologna, della fronda peneia. L'immagine del M. si presenta spesso alla mente di chi legge la corrispondenza poetica fra D. e Giovanni del Virgilio: in realtà l'unica allusione diretta è quella al fiume Musone, che nella risposta di D. non trova eco.
Sembra difficile pensare che D. abbia ignorato l'opera del M., soprattutto l'Ecerinide che per il suo contenuto s'inseriva nella pubblicistica antiscaligera.
Composta in metri senechiani (che il M. aveva studiato sulle orme di Lovato Lovati), dipinge a fosche tinte la tirannide di Ezzelino, da quando la madre Adeleita, prima di morire (1214), gli rivela di averlo avuto dal demonio, fino alla morte di lui e del fratello Alberico e alla strage dei suoi familiari (1259). Ma in Ezzelino è raffigurato Cangrande, sicché la tragedia si anima della passione politica del M.; la nascita infernale di Ezzelino (leggenda accolta nella storiografia guelfa) e il contrasto con il frate Luca, che tenta di richiamarlo a più umani consigli, conferiscono alla vicenda un significato religioso che sembra avvicinarsi alla tradizione tragica greca, ma resta nell'ambito della religione attuale. L'Ecerinide dà inizio al teatro classico italiano, ma nella storia di esso rimane, dunque, qualche cosa di unico. Anche nelle forme è una tragedia sui generis: non è destinata alla rappresentazione ma alla lettura; l'azione, che dura più di quarant'anni, è sempre narrata da qualcuno; il luogo in cui si dovrebbe collocare di volta in volta la scena non è facilmente determinabile; in un punto l'azione scenica è descritta da una sequenza di cinque versi che non sono pronunciati da alcuno dei personaggi presenti. Il titolo nella sua forma si richiama a quelli della poesia epica (Eneide, Achilleide) e da un lungo accessus premesso dal M. al teatro di Seneca, si vede che egli considerava la tragedia e l'epica come due branche di un medesimo genere letterario (" dicitur tragoedia altae materiae stylus, quo dupliciter tragoedi utuntur "): in metro giambico l'una, che tratta " de ruinis et casibus magnorum regum et principum ", in esametri l'altra, che narra guerre in campo aperto e vittorie.
È possibile che D. abbia inteso polemizzare col M. in Pd IX 25-33, dove, descrivendo l'incontro con Cunizza da Romano, ne trae occasione per riprendere il discorso intorno al fratello di lei Ezzelino, che nell'Inferno aveva ricordato con vivace ma rapido cenno fra i tiranni, insieme con Obizzo d'Este (v. EZZELLINO III da Romano). Nel Paradiso Cunizza si ferma a descrivere la rocca avita con un verso (si leva un colle, e non surge molt'alto) che, a prescindere dall'ascendente classico (Lucano Phars. IV 11-12 " Colle tumet modico lenique excrevit in altum / pingue solum tumulo "), potrebbe suonare come una rettifica della descrizione che ne fa M. nell'Ecerinide (vv. 8-10 " Arx in excelso sedet / antiqua colle, longa Romanum vocat / aetas "). E i versi che seguono (là onde scese già una facella / che fece a la contrada un grande assalto. / D'una radice nacqui e io ed ella...), mentre accettano un tratto della leggenda ezzeliniana (il sogno della madre di partorire una face ardente), respingono con decisione la credenza della nascita diabolica, che il M. aveva accolto.
Se si ammette la conoscenza dell'Ecerinide da parte di D., lo scritto più polemico nei riguardi di essa dovrebb'essere, se autentica, la lettera a Cangrande; sicché si è proposto dal Pastore Stocchi di leggere in questo senso la definizione che D. vi dà della tragedia, in principio... admirabilis et quieta, in fine seu exitu foetida et horribilis (Ep XIII 29). Nell'accogliere tale definizione D. avrebbe avuto di mira l'Ecerinide che, nella sua sostanza antiezzeliniana e antiscaligera, proporrebbe invece, dal punto di vista del coro, cioè dei Padovani e del M., un andamento opposto, dalla tirannide alla libertà, dalla burrasca al sereno.
Tra gli scritti del M., per passare all'altro termine del binomio, non mancano passi che sembrano attestare una qualche conoscenza della Commedia.
Il primo in ordine di tempo, e forse il più pertinente (Raimondi), è nell'epistola IX, a frate Benedetto, dove, trattando di astrologia, il M. dichiara di non aver ali per levarsi al cielo né voglia di scendere nell'Averno, ma di voler restare " media aura ", commisto al comun gregge. Più tardi, nel 1319, mandato in missione in Toscana per chiedere aiuti contro Cangrande, il M. si ammalò in quel di Siena e fu portato a Firenze in casa del vescovo Antonio dell'Orso e ivi curato da Dino del Garbo e da un altro medico. Per ringraziare il vescovo scrisse poi il Somnium in aegritudine apud Florentiam, dove racconta la sua avventura: 150 versi circa sono dedicati alla narrazione di un sogno, che ha preceduto immediatamente la guarigione e durante il quale il M. ha visitato il Limbo, l'Averno, in cui i dannati sono distribuiti in un certo ordine, e infine i Campi Elisi. Che si tratti di un sogno è detto nel titolo; in realtà la visione è introdotta per mezzo di una metamorfosi che ricorda quella della maga Panfila di Apuleio: due medici ungono " variis liquoribus " il malato, che subito vede il suo corpo ricoprirsi di piume, le braccia mutarsi in ali e così via fino a diventare una palombella. Solo alla fine si viene a sapere che la palombella è l'anima del M., quando al termine del viaggio, deposte le piume, essa rientra per una " tenuis rima " nel corpo mortale. Gl'incontri con D., per ciò che riguarda le figure infernali di Cerbero e di Caronte e le categorie dei dannati, possono spiegarsi anche con la comune fonte, Virgilio. Nei versi " Est locus inferior... in terrae centro, cui semper dicitur Orco ", il Dazzi (M. preumanista, p. 72 n. 80) vorrebbe vedere, a causa di quel semper, un'allusione polemica a D. che aveva chiamato Antenora una sezione dell'ultimo cerchio; e bisogna tener presente che proprio il maestro del M., Lovato Lovati, aveva restaurato in Padova la memoria di Antenore. Ma il discorso sembra molto sottile; e neppure conviene dare troppa importanza al viaggio ultraterreno, inserito com'è in una poesia di occasione, alcune parti della quale sono tenute in un tono di leggera e scherzosa familiarità. Una visione è anche nel De Lite inter Naturam et Fortunam, scritto nel 1327, in cui la disputa tra Natura e Fortuna è interrotta alla fine da una specie di trionfo di Cristo, paragonabile in qualche modo alla processione che appare a D. sulla cima del Purgatorio.
Mentre è difficile pensare che il M. abbia ignorato per tutta la sua vita l'opera di D., bisogna pur riconoscere che manca nei suoi scritti, per quanto ne sappiamo finora, un accenno esplicito a essa. I due sembrano ignorarsi: un silenzio di cui si potrebbero tentare spiegazioni psicologiche di varia natura. Se non intervengono altri documenti, il problema dei rapporti fra D. e M. resterà aperto all'ingegnosità e alle sottigliezze dei commentatori.
Bibl. - Un'edizione critica delle opere del M. è nel desiderio di tutti e si spera che a essa possano giungere le fatiche di Giuseppe e Guido Billanovich e di A. Campana. Nell'attesa bisogna accontentarsi delle vecchie edizioni: P. Osius, L. Pignorius, L. Villanus, A. Mussati Historia Augusta Henrici VII Caesaris et alia quae extant omnia, Venezia 1636; J.G. Graevius, P. Burmannus, Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, VI 2, Lione 1722; L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores X 2, Milano 1727. Tali edizioni, che dipendono l'una dall'altra, pubblicano come del M. opere che non gli appartengono (alcune egloghe e la tragedia Achilleide che è di A. Loschi); dei 14 libri del De gestis Italicorum posti Henricum VII, pubblicano solo i primi sette libri integrandoli col De obsidione domini Canis Grandis de Verona circa moenia Paduanae civitatis, poema in esametri, e con il De traditione Patavii ad Canem Grandem, in prosa. I rimanenti libri del De gestis Italicorum furono stampati, in ediz. diplomatica, da L. Padrin, Sette libri inediti del ‛ De gestis Italicorum ', Venezia 1904 (Monumenti storici pubblicati dalla R. Deputazione Veneta di St. Patria, s. 3, III). Dell'Ecerinide si ha l'ediz. di L. Padrin (con uno studio di G. Carducci), Bologna 1900; la tragedia ha avuto numerose traduzioni, tra cui, più recenti, quella di E. Franceschini (Teatro latino medievale, Milano 1960, 117-137), non priva di errori, e quella di M. Dazzi (Il Mussato preumanista, Venezia 1964, 140-158). Per altri componimenti poetici, v. L. P[adrin], Lupati de Lupatis, Bovetini de Bovetinis, Albertini Mussati... carmina quaedam..., Padova 1887; F. Novati, Nuovi aneddoti sul cenacolo letterario padovano, in Scritti storici in memoria di G. Monticolo, Venezia 1912, 167-192 (vi è edito il De Prole, tenzone poetica con Lovato Lovati); [V. Crescini], Poesie inedite di A.M., in " Giorn. degli Eruditi e dei Curiosi " V (1884-1885) 125-128 (ediz. di Priapeia e di Cunneia; su cui v. anche C. Calì, Due epistole di A.M. a Giovanni da Vigonza, in " Rivista Etnea " I [1893] 21-24). I due trattatelli filosofici in A. Moschetti, Il ‛ De lite inter Naturam et Fortunam ' e il ‛ Contra casus fortuitos ' di A.M., in Miscellanea di studi critici e ricerche erudite in onore di V. Crescini, Cividale del Friuli 1927 (ma l'estratto venne in luce nel 1913), 567-599; e v. anche Guido Billanovich - Guglielmo Travaglia, Per l'edizione del ‛ De lite inter Naturam et Fortunam ' e del ‛ Contra casus fortuitos ' di A.M., Padova 1955, estratto del " Boll. del Museo Civico di Padova " XXXI-XLIII (1942-1954). Gli scritti filologici su Seneca, in A.Ch. Megas, Ὁ προουμανιστικὸς κύκλος τῆς Πάδουας καὶ οἱ τραγωδίες τοῦ L.A. Seneca, Salonicco 1967; A. Mussato, Οἱ ὑποθέσεις τῶν τραγωδίῶν τοῦ Σενέκα a c. di A.Ch. Megas, ibid. 1969. In generale su A.M.: M. Minoia, Della vita e delle opere di A.M., Roma 1884; A. Zardo, A.M. Studio storico e letterario, Padova 1884; F. Novati, Nuovi studi su A.M., in " Giorn. stor. " VI (1885) 177-200; VII (1866) 1-47; M. Dazzi, Il M. storico, in " Arch. Veneto " LIX (1929) 357-472; ID., Il M. preumanista, Venezia 1964 (con antologia di scritti del M., tradotti). Sull'Ecerinide: G. Carducci, Della Ecerinide di A.M., nell'ediz. cit. di L. Padrin, pp. 249-283; E. Raimondi, L'Ecerinis di A.M., in Studi Ezzeliniani, Roma 1963, 189-203. Sulla " difesa della poesia ": G. Vinay, Studi sul M.: Il M. e l'estetica medievale, in " Giorn. stor. " CXXVI (1949) 113-159. Per la conoscenza dei poeti latini: Guido Billanovich, Veterum vestigia vatum, in " Italia Medioev. e Uman. " I (1955) 155-243. In particolare, per i rapporti con D., A. Belloni, D. e A.M., in " Giorn. stor. " LXVII (1916) 209-264; ID., Una visione d'oltretomba contemporanea alla dantesca, in " Rass. Nazionale " XLIII (1921); E. Raimondi, D. e il mondo ezzeliniano, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 51-69; M. Pastore Stocchi, D., M. e la tragedia, ibid. 251-262.