BOSCHETTI, Albertino
Nacque da Alberto e da Giovanna Rangoni intorno alla metà del sec. XV, presumibilmente in San Cesario, feudo dei Boschetti, elevato al titolo comitale da Lionello d'Este nel 1446.
Rivoltosi al mestiere delle armi, ben poche notizie si hanno sulla sua prima attività e non si sa neppure in quale anno questa effettivamente cominciasse. Solo si sa che fu tra gli uomini d'arme di Roberto Sanseverino al servizio della Repubblica di Genova, presumibilmente partecipando con lui alle lotte contro i Fieschi e contro gli Sforza. Scoppiata la guerra del sale e affidato al Sanseverino il comando dell'esercito veneto contro Ferrara (1482), il B. ritenne incompatibile la milizia veneziana con i propri doveri feudali verso gli Estensi e preferì ritirarsi nel suo castello di San Cesario. Stipulata la pace di Bagnolo, l'8 sett. 1484, cadevano le difficoltà al servizio veneto del B., che tornò agli ordini di Roberto Sanseverino dapprima nella campagna contro Sigismondo d'Austria e poi in quella contro i baroni dello Stato pontificio (1486). Abbandonò il servizio veneziano dopo la morte del Sanseverino, avvenuta nel 1487: a Venezia non si doveva essere molto soddisfatti di lui, a giudicare almeno da quanto riferiva, parecchi anni dopo, il residente ferrarese presso la Repubblica, G. A. Pigna: "l'è stato fatto intendere a questa Ill.ma Signoria come dito conte Albertino stete già cum lo Signore Oberto da Santo Severino et se portò molto male con lui et che non ne hanno da fidarse de lui et molto male dito de lui" (Balan, I, doc., p. 33).
Dal servizio veneziano il B. passò di lì a poco a quello del re di Napoli Ferdinando d'Aragona. In questa corte egli fu tenuto in singolare favore: Ferdinando lo colmò di doni e di benefici e nella primavera del 1492, quando si profilò una minaccia della flotta turca contro il Regno, lo inviò in Puglia con le cariche di luogotenente generale e di maestro di campo, a presidiare la regione e particolarmente a rafforzare le difese sul Gargano, a San Giovanni Rotondo ed a Sant'Angelo. Ma le fortune napoletane del B. non durarono a lungo: morto Ferdinando e successogli Alfonso, questi mostrò presto verso il capitano modenese la stessa diffidenza che rivolgeva ai principali esponenti politici e militari del governo del padre. Non si sa quali accuse precisamente il nuovo re rivolgesse al B.: secondo qualche fonte il re "allegava che era debitore della corte" (Bacchelli, I, p. 134). Fatto sta che quando il B. chiese licenza di lasciare il servizio aragonese, Alfonso pretese dapprima una sicurtà di 1.000 ducati e poi, non contento, minacciò di fare imprigionare il B.: se non arrivò a questa estrema misura fu perché due personaggi illustri, i milanesi Giangiacomo e Teodoro Trivulzio, intervennero in favore del gentiluomo modenese. Ma il risentimento di Alfonso non si acquietò, poiché "vedendo non poter saziare l'animo suo per questa via, trovò un'altra via da consumarlo perché lo tenne circha cinque mesi in Napoli suso l'hosteria per modo che'l se mangiò la vita, et in ultimo ge tolse la compagnia et li suoi chavalli grossi tutti et lassollo venire in qua in calze et capelina" (Balan, I, p. 21).
L'esperienza napoletana dovette lasciare una traccia durevole nell'animo del B.: egli era un piccolo feudatario, un personaggio senza dubbio di secondo piano nella splendida corte ferrarese, sebbene non dovesse mancare di qualche cultura, come sembra dimostrare il fatto che egli poté prestare a Pandolfo Collenuccio, lo storico del reame di Napoli, una preziosa cronaca aragonese che poi il Collenuccio dispose per testamento che gli fosse restituita; non doveva essere neanche ricco, poiché le rendite del feudo di San Cesario, già di per sé esigue, dovevano non soltanto essere divise con numerosi parenti, ma gli erano anche validamente contestate dai frati del monastero di S. Pietro di Modena: il favore goduto alla corte di Ferdinando di Napoli, le ricchezze conseguite (forse troppo facilmente, come sembra dimostrare l'atteggiamento ostile di Alfonso d'Aragona), le cariche di notevole responsabilità esercitate dovettero spropositatamente sollecitare le sue ambizioni. Tanto più cocente dovette dunque essere la disgrazia, tanto più umiliante il ritorno alla corte estense "in calze et capelina". E non è improbabile che le sue disavventure gli attirassero in patria una commiserazione che doveva essergli tuttaltro che di conforto. Di qui dovette derivare al B. una perenne scontentezza, alimentata dai successivi alti e bassi della sua fortuna, che lo portò sempre alla soglia del successo e del prestigio senza innalzarvelo definitivamente mai; donde il curioso atteggiamento verso gli Estensi, la cui protezione cercò sempre di evitare, ma alla quale, in definitiva, non poté mai rinunciare: tanto gli doveva pesare l'aiuto dei primi testimoni delle sue frustrate ambizioni. In questa psicologia del B. sembra essere prevalentemente da cercare la spiegazione dell'ultima sua iniziativa, la congiura contro Alfonso ed Ippolito d'Este, tragicamente conclusa dal boia.
È in questo senso significativo che nel settembre del 1494, poco dopo il ritorno da Napoli, il B. si allontanasse ancora dalla patria per cercare fortuna presso altri signori: questa volta alla corte di Ludovico il Moro, dove dovette ritenere che il suo braccio potesse essere utile in quella vigilia di guerra, mentre Carlo VIII cominciava la sua avventurosa impresa. Non trovò tuttavia le offerte che sperava, sicché dovette ritornare a Ferrara ed acconciarsi al servizio che gli offriva Ercole d'Este, l'ufficio cioè di maestro d'armi del primogenito Alfonso, inviato al servizio di Ludovico il Moro nel 1495, con il comando di venticinque uomini d'arme ed una provvisione di 400 ducati. Partecipò così alla battaglia di Fornovo contro Carlo VIII, il 6 luglio 1495, a capo delle milizie ferraresi dell'assente Alfonso d'Este, che si distinsero lasciando sul terreno una trentina di morti, perdita del tutto sproporzionata all'esiguità del contingente ferrarese e perciò a Ferrara attribuita ai disegni del capitano della lega, Francesco Gonzaga, che non avrebbe sostenuto adeguatamente le milizie estensi a causa delle sospettate simpatie ferraresi per i Francesi. In ogni modo il Gonzaga si mostrò soddisfatto del comportamento del B. e dei suoi due figli Roberto e Sigismondo, che avevano anche loro partecipato alla battaglia, e li gratificò munificamente.
Dopo Fornovo il B. partecipò all'assedio di Novara dove le genti della lega stringevano Luigi d'Orléans, il futuro Luigi XII, che si era impadronito della città sulla quale vantava i diritti dell'eredità di Valentina Visconti. Ma soprattutto ebbe una parte di rilievo nelle trattative preliminari tra Carlo VIII ed i rappresentanti della lega, concluse poi con la pace di Vercelli del 10 ott. 1495, quale mediatore tra le parti in rappresentanza e sulla base delle istruzioni di Ercole d'Este, che sin da prima di Fornovo si era prodigato per un accordo. Carlo VIII fu così soddisfatto del lavoro svolto dal B., "pro concordia et pace inter nos et Ducem Mediolani", da concedergli in premio, nella sua qualità di "rex Siciliae utriusque", i feudi pugliesi di Civita e Rodi (4 ott. 1495), già appartenuti a Gian Luigi Carafa, ribellatosi a Carlo VIII dopo avergli giurato fedeltà.
Si trattava nelle intenzioni del re di un premio adeguato, poiché, anche se il B. non poteva prendere immediatamente possesso dei feudi, lo avrebbe potuto fare una volta tornati nel Regno i Francesi, cosa che Carlo VIII non metteva minimamente in dubbio: è verosimile però che, se non allora, certamente negli anni seguenti, il B. si dovesse sentire ancora una volta truffato dalla sorte, in una circostanza in cui sembrava arridergli il migliore successo.
Non avendo tratto né dalla sua opera di diplomatico né da quella militare i vantaggi desiderati, nell'agosto del 1496 il B. accettò una nuova condotta, questa volta dai Fiorentini, che gli attribuirono cinquanta uomini d'arme, venti balestrieri e 1.000 ducati di provvigione annua. Partecipò così alla guerra di Siena, distinguendosi alla difesa del ponte di Vagliano contro Giovanni Savelli. Quando Massimiliano d'Asburgo fu chiamato in Italia da Ludovico il Moro, per intervenire nella guerra di Pisa, e si spinse inutilmente in armi contro Livorno, anche il B. ebbe qualche merito nella vittoriosa resistenza delle milizie fiorentine. Quindi fu inviato a Volterra, per difenderla contro il signore di Piombino Iacopo Appiani che intendeva approfittare delle difficoltà fiorentine nella guerra di Pisa per impadronirsene. Nel 1497, assunto il comando della guerra da Paolo Vitelli, fu tra i capitani fiorentini che per protestare contro questa elezione abbandonarono il servizio della Repubblica. Entrò nuovamente così, nel 1498, al servizio di Ercole d'Este: il suo compito fu analogo a quello affidatogli da Ercole nel 1495, quello di maestro d'armi, questa volta per il secondogenito Ferrante, inviato dal padre al servizio della Repubblica di Venezia. Il B. ebbe per questo servizio una provvisione di 700 ducati. Ritornò così a combattere nell'annosa guerra di Pisa, adesso però nel campo opposto, mentre con i Fiorentini rimanevano i suoi figli Roberto e Sigismondo. Fu forse questo fatto che indusse i Veneziani al campo, ma soprattutto i Pisani, a sospettare il B. di collusione con i nemici, e ad accusarlo a Venezia. Ercole d'Este fu quindi costretto a richiamare il B., sebbene questi fosse tenacemente difeso da Ferrante. In effetti il B. ebbe agio di spiegarsi con Ercole e, inviato da questo a Venezia, anche qui poté dire - a quanto riferiva il residente ferrarese - "molto gaiardamente la sua rasone... in modo che'l tuto piaque ad ognuno, et per la Serenità del Principe et de alcuni altri fu usato de molte bone parole in modo che la prefacta Signoria si è assai ben rimasa satisfacta" (Balan, I, doc. p. 36). Niente si opponeva dunque a che il B. riprendesse il proprio posto presso Ferrante d'Este al campo di Pisa, ma egli aveva già a sufficienza "gustato, il cervello di quelli veneziani" (Bacchelli, II, p. 3) e preferì rinunziare al servizio per entrare, nel novembre, a quello di Caterina Sforza.
Su tutto l'episodio il Bacchelli fa l'ipotesi, non priva di verosimiglianza, che il B. avesse effettivamente avuto dal suo campo pisano contatti con i Fiorentini, che a questi contatti lo aveva autorizzato lo stesso Ercole d'Este col proposito di farsi mediatore tra i contendenti, e probabilmente essi fossero più o meno esplicitamente sollecitati da una fazione dello stesso Senato veneziano, desiderosa di trarsi in qualche modo fuori dalla inutile e dispendiosissima guerra di Pisa. Questo spiegherebbe come fosse così agevole al B. giustificarsi sia presso la Repubblica sia presso Ercole: e spiegherebbe anche il suo finale ritiro dall'intrigo, una volta scoperto il quale - senza approdare ad un risultato diplomatico definitivo - egli solo ne avrebbe fatte le spese, se non altro con una accusa di tradimento rovinosa per un condottiero. Ma è questa niente più che un'ipotesi, che nessun documento probante interviene a confermare.
Dalla signora di Forlì il B. fu affiancato al figlio Ottaviano Riario, condottiero agli ordini dei Fiorentini: ritornò dunque ancora alla guerra di Pisa ed il Sanuto annota, alla data del 1º dic. 1498, da una lettera inviata da Firenze all'oratore di Faenza in Venezia, che "il ducha di Milan et fiorentini haveano zà do mexi praticha in Pisa, maxime per quel conte Albertino Boscheto che hora è con fiorentini" (II, coll. 182 s.). Il B. dovette comunque ritornare assai presto a Forlì, donde nel 1499, insofferente della scarsa considerazione in cui era tenuto da Caterina Sforza, ritornò a San Cesario, più che mai deluso. Un'ultima volta lo vediamo assumere una condotta militare nell'ottobre dell'anno successivo, allorché Giovanni Bentivoglio, tra i numerosi capitani che arruolò per far fronte alla minaccia di Cesare Borgia contro Bologna, affidò al B. il comando di cinquanta uomini d'arme, di cento cavalli leggeri e di duecento "provisionati". Da allora il B. si ritirò definitivamente a San Cesario, a coltivare l'amarezza delle sue trentennali delusioni e ad alimentare assiduamente nell'animo i rancori e le paure che lo portarono alla definitiva rovina.
Il feudo di San Cesario, per sua natura giuridica duplicemente dipendente dalla signoria ferrarese e da quella ecclesiastica, povero di rendite, frammentate del resto e controverse, aveva tuttavia una notevole importanza militare, situato com'era in situazione da dominare le comunicazioni tra Modena ed il territorio di Bologna e tra Ferrara e la Garfagnana: questo dava un particolare significato, agli occhi degli Estensi, alle simpatie politiche della famiglia Boschetti, tanto più in un periodo in cui il dominio di Ferrara, per l'ambiziosa politica di Ercole e poi di Alfonso fattisi protagonisti dei grandi contrasti tra le potenze europee, e per le convergenti mire sul territorio di Venezia e di Roma, poteva essere mantenuto agli Estensi soltanto con quella decisione che effettivamente Ercole e Alfonso dimostrarono nei confronti dei feudatari minori e di incomodi vicini come i Gonzaga, i Pio, i Pico. In questa situazione il B. non avrebbe potuto assumere atteggiamento migliore che quello di sottomessa fedeltà ai signori di Ferrara, mancandogli le forze, e anche le personali capacità, per una politica di indipendenza e di prestigio. Ma a questo atteggiamento si opponeva l'orgoglio ombroso del B., il quale nel suo feudo amava atteggiarsi a ospite fastoso e cavalleresco, a mecenate illuminato, quasi a rivaleggiare con la corte di Ferrara ed a sottolineare la propria autonomia di fronte a quei signori dei quali principalmente doveva soffrire l'incurante benevolenza: perciò aveva costituito in San Cesario un campo franco dove, armi alla mano, i nobili di tutta Italia avevano agio di dirimere le proprie questioni d'onore, e di dar saggio della propria abilità di duellanti, arbitro il B. stesso, erettosi ad autorità in materia cavalleresca, e spettatori i gentiluomini delle corti dei Gonzaga, dei Bentivoglio, degli Estensi, tra i quali, spesso, lo stesso Alfonso; oppure faceva stampare e dedicare a se stesso, in una tipografia provvisoriamente approntata in San Cesario, opere letterarie delle quali è rimasto un esempio nella Meditatione a contemplare la passione del nostro Signore... composta per lo devotissimo sancto Bernardo, nel frontespizio della quale si faceva trattare dallo stampatore Ugo Ruggiero da "divo principe".
Ma se l'esiguità di questi conati di grandezza doveva tutt'al più parere patetica alla corte di Ferrara, con assai minore indulgenza dovevano essere considerati invece i rapporti dei Boschetti con la corte emula di Mantova: qui, agli ordini di Francesco Gonzaga, un figlio del B., Roberto, aveva iniziato la sua carriera militare; un altro, Giacomo, vi era stato mandato fanciullo e vi si tratteneva ancora, come gentiluomo di camera del marchese, da questo beneficiato di feudi e prebende; un terzo, Sigismondo, manteneva in Mantova relazioni e protezioni; una figlia, Giovanna, era dama di compagnia della marchesa Isabella e alla corte gonzaghesca brillava per bellezza e spirito, se non proprio per ostentazione di virtù. Ma soprattutto era proprio il B. a dimostrare verso Francesco Gonzaga un ossequio e una devozione ben lontani dall'atteggiamento velleitario tenuto per tutta la vita nei riguardi dei signori di Ferrara: verso i quali - e questa può forse essere una ulteriore spiegazione dell'atteggiamento del B. - egli non doveva sentirsi troppo obbligato come feudatario, poiché non era da loro che la sua famiglia aveva ottenuto il titolo comitale, ma da Lionello, di un ramo collaterale. In ogni modo, una volta successo al padre, Alfonso d'Este cominciò una politica di supremazia nei confronti dei feudatari minori del suo Stato che non poteva risparmiare i signori di San Cesario: il B. seppe leggere nelle minacciose intenzioni del giovane duca e se i suoi risentimenti aumentarono, dovette anche essere ricondotto dalle sue fantasticherie di potenza e di prestigio a una più adeguata valutazione della realtà, tanto da dover temere una decisiva iniziativa dell'Estense non soltanto contro il proprio feudo, ma anche contro la vita. Questa preoccupazione si rivela chiaramente in una lettera dello stesso B. del 15 luglio 1505, nella quale significativamente chiede protezione proprio a Francesco Gonzaga, in occasione di "certi omicidii" che Alfonso d'Este sembra voler prendere a pretesto contro di lui: "questo nostro illustrissimo duca - egli afferma - fa una mala masseria delli gentiluomini suoi, e per sorte tocca a me... per modo che, spinto da chi si sia, da qualche mio emulo, la eccellenza del duca parmi che mi prema forte suso l'onore, forse anche suso altro. Onde ch'io posso dir essere abbandonato" (Bacchelli, II, p. 131). Ed alle profferte di protezione del Gonzaga, replicava con toni rivelatori sia della sua preoccupazione sia, ormai, della sua definitiva rottura con casa d'Este, giacché la sua sudditanza al Gonzaga era ora proclamata senza riserve: "in tutto e per tutto gli dono l'anima e il corpo, facoltà e figli e ciò che ho" (ibid., p. 148). Così il B. si avviava ad assumere la parte di protagonista e quella di maggiore vittima nella congiura contro Alfonso d'Este e il cardinale Ippolito.
In questo fosco episodio di odi familiari, che opposero ai due maggiori Estensi il cadetto Ferrante e il bastardo Giulio, il ruolo del B. è stato variamente giudicato dal contemporanei e dagli storici: l'Ariosto, che diede un primo giudizio sulla congiura nell'egloga contemporanea "Dove vai Melibeo, dove sì ratto...", mostra di credere che il B., adombrato sotto il nome di Silvano, fosse trascinato nella congiura dal genero Gherardo di Nicolò Ariberti o Roberti, che poi divise con lui il patibolo: "Al canuto Silvan gran colpa dasse; / Al gener più, che quasi per le chiome / Il rimbambito suocero vi trasse". Ma soprattutto in quest'egloga, dettata dall'intenzione politica di giustificare la prevista condanna capitale di Giulio e Ferrante d'Este, è a questi due che si fa risalire la maggiore responsabilità del misfatto. Più tardi, ritornando sulla questione nel terzo canto dell'Orlando furioso, quando ormai Giulio e Ferrante, per gli accordi tra Alfonso d'Este e Francesco Gonzaga, avevano ottenuto la minore pena del carcere perpetuo, mentre gli altri congiurati erano stati giustiziati, l'Ariosto sembrò far ricadere su questi ultimi le colpe maggiori.
In realtà sembra che la prima interpretazione del poeta fosse la più esatta: il B. fu veramente trascinato per i capelli nella congiura, alla quale una sua frase sconsiderata, sulla facilità di uccidere il duca di Ferrara, dette l'avvio. Ma quando si trattò, sospinto dal livore patologico di Ferrante e Giulio d'Este verso i due più fortunati fratelli, dall'ambizione del genero, dagli oscuri motivi del buffone di corte, il guascone Giovanni d'Artiganova, di tradurre in pratica i suoi fieri propositi, di dar soddisfazione con un colpo d'audacia al suo risentimento ed alle sue mai appagate ambizioni, il B. si rivelò il più inetto, il più esitante dei congiurati: assai maggior coraggio dimostrò sotto le più spietate torture, allorché si ostinò disperatamente a scagionare il figlio Sigismondo, che pure nel complotto aveva avuto una parte notevole.
Del resto tutta la congiura fu condotta con tale irresolutezza che proprio a proposito di essa il Machiavelli, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ebbe occasione di sentenziare: "Nasce in tali esecuzioni inconveniente o errore per poca prudenza o per poco animo, perché l'una e l'altra di queste due cose ti invasa e, portato da quella confusione di cervello, ti fa dire e fare quello che tu non debbi" (Il principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di S. Bertelli, Milano 1960, p. 404).
Così sul finire del maggio 1506 Ippolito d'Este ebbe, da un familiare di Giulio, le prime notizie sul complotto; il 25 luglio il B. fu arrestato e via via, dopo vani tentativi di porsi in salvo, anche gli altri. Durante il processo il B. riconobbe di aver aderito alla congiura per la scarsa considerazione in cui lo teneva il duca e con la speranza di poter conseguire a corte, se don Ferrante fosse succeduto ad Alfonso, una posizione adeguata ai propri meriti. E non mancava di accennare, sia pure oscuramente, alla consapevolezza cui era giunto delle proprie pericolanti prospettive politiche nel quadro degli orientamenti accentratori ed egemonici del governo di Alfonso. Si comportò in ogni modo con grande dignità di fronte alle torture e al patibolo, al quale fu condotto assieme al genero e a Franceschino da Rubiera il 12 sett. 1506. Subito dopo il suo arresto il duca Alfonso aveva ordinato ai reggenti di Modena di prendere possesso "senza interposizione alcuna" (Bacchelli, II, p. 245) del feudo di San Cesario, dimostrando così con la sua stessa fretta che le preoccupazioni del B. non erano ingiustificate.
Fonti eBibl.: M. Sanuto, Diarii, I-VI, Venezia 1879-1881, passim;F. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di C. Panigada, Bari 1929, II, p. 184; P. Balan, Roberto Boschetti e gli avvenimenti ital. dei suoi tempi, I-II, Modena 1879-1884, passim;A. F. Boschetti, San Cesario... dall'anno 752 fino al presente, Modena 1922, passim; R. Bacchelli, La congiura di don Giulio d'Este, I-II, Milano 1931, passim;A. F. Boschetti, La fam. Boschetti di Modena e i Boschetti di Chieri, Modena 1938, tav. V; C. Argegni, Condottieri,capitani,tribuni, III, Milano 1937, p. 406.