MANFREDI, Alberigo
Nacque a Faenza tra il secondo e il terzo decennio del XIII secolo da Ugolino Bozzola dei Manfredi, potente famiglia di Faenza.
Il lignaggio deteneva il primato all'interno dello schieramento guelfo faentino e fu coinvolto negli scontri civili che insanguinarono la città. I primi tumulti contro la parte ghibellina risalgono al 1238: si conclusero con il bando comminato alla fazione degli Accarisi e con l'invio a Faenza del podestà bolognese Fabbro Lambertazzi. Nel volgere di un biennio la situazione mutò in seguito all'assedio posto alla città da Federico II nel 1240, che consentì, nell'aprile del 1241, ai ghibellini di Faenza di entrare in città, mentre i Manfredi furono costretti a prendere la via dell'esilio. Nel 1248, quando Federico II subì una pesante sconfitta a Vittoria, i Manfredi, coadiuvati dalle milizie del legato pontificio Ottaviano degli Ubaldini, riconquistarono la città. Nel febbraio 1251 venne siglata una pace che il podestà Ugolino de' Fantolini tentò vanamente di consolidare nel 1253. Il podestà permise l'ingresso in città ai fuorusciti Accarisi e stabilì che bisognasse da allora procedere a una duplice elezione podestarile: la compresenza di un ufficiale di parte guelfa e di uno di parte ghibellina ai vertici della magistratura cittadina avrebbe dovuto garantire la quiete del Comune romagnolo. I fatti che seguirono mostrano la labilità della tregua: nel 1255 la parte manfrediana suscitò nuovi scontri, pacificati solo temporaneamente l'anno successivo dall'intervento del Comune bolognese; nel 1257 i Manfredi reagirono alla tutela posta sulla città dal Comune felsineo e favorirono la ribellione contro i magistrati bolognesi, intravedendo la possibilità di fondare un dominio signorile in Faenza, nel nome della difesa dell'autonomia della città.
Il tumulto armato che scoppiò in città fu violento e le fonti individuano i capi della parte manfrediana nel M. e in suo padre. L'esito della battaglia vide il M. e la sua parte sconfitti e cacciati dalla città, dove poterono fare rientro l'anno successivo, inaugurando una fase di relativa pacificazione. A quegli anni risalgono le prime testimonianze documentarie riguardanti il M., che nel 1255 rilasciò una quietanza per il pagamento dello stipendio dovutogli per avere esercitato l'ufficio di podestà nel Comune di Bagnacavallo. A partire dai primissimi anni Sessanta sono poi documentati i rapporti di natura economica e politica intrattenuti dal M. con il capitolo dei canonici della cattedrale di Faenza e con il monastero di S. Chiara di Faenza, che in alcuni casi lo vedono agire insieme con il cugino Manfredo Manfredi. Nel settimo decennio il M. entrò a far parte dell'ordine religioso della milizia della beata Vergine gloriosa, detto dei frati gaudenti.
Quegli anni furono caratterizzati dal conflitto originatosi nel 1274 a Bologna, che vide prevalere la parte guelfa dei Geremei su quella ghibellina dei Lambertazzi, che fu costretta a lasciare la città. Il conflitto si estese e una delle conseguenze dell'allargamento delle operazioni belliche in Romagna fu l'occupazione di Faenza da parte di Guido da Montefeltro, cui la fazione accarisia aprì a tradimento le porte della città nell'aprile 1274, costringendo il M. e la sua parte ad abbandonare la città per rifugiarsi a Solarolo.
Il castello fu assaltato il 25 aprile: il M. fu catturato e condotto nelle carceri forlivesi, dove rimase per due anni.
Dopo la liberazione il M. partecipò, in qualità di garante, insieme con il figlio Ugolino, alla pacificazione delle fazioni bolognesi dei Geremei e Lambertazzi. Grazie a quell'atto i Manfredi poterono fare rientro in Faenza il 31 genn. 1279, anche se per poco tempo, poiché il 22 dicembre i Geremei mandavano in esilio per la seconda volta i Lambertazzi, che si riversarono in Faenza, costringendo i Manfredi ad abbandonare la città; senonché il 13 nov. 1280 Tebaldello dei Zambrasi "aprì Faenza, quando si dormia" (Inf., XXXII, v. 123) ai Geremei di Bologna e ai Manfredi fuorusciti, i quali provocarono una carneficina dei ghibellini, costretti a fuggire dalla città. Tale evento consentì al M. e alla sua parte di ottenere una vittoria importante contro i nemici, che in quegli anni in più di un'occasione, anche grazie all'intervento di Guido da Montefeltro e di Maghinardo Pagani da Susinana, li avevano duramente sconfitti.
In questo periodo il M. aveva acquistato una posizione di sempre maggiore rilievo all'interno di Faenza. Egli compare tra i firmatari del patto siglato con l'arcivescovo di Ravenna il 27 marzo 1281, con cui il Comune di Faenza si impegnava a impedire ulteriori attacchi al castello di Oriolo. Durante le aspre lotte civili, il M. aveva acquisito un ruolo di primo piano nella conduzione della parte guelfa faentina, ma al contempo aveva dovuto contendere il primato di comando all'interno del lignaggio al cugino Manfredo. Il dissidio era stato alimentato con ogni probabilità da questioni di natura patrimoniale riguardanti la tutela dei possessi di Francesco Manfredi, nipote dei due, affidati dal padre Alberghetto al M., preferito al cugino.
Al M. non sembrava ormai praticabile altra via che quella dell'eliminazione fisica del cugino. Il 2 maggio 1285 organizzò, insieme con il figlio Ugolino e il nipote Francesco, un banchetto presso la Castellina, villa situata presso la pieve di Cesato, apparentemente per una conciliazione con Manfredo e il di lui figlio Alberghetto: ma, alla fine della riunione, ordinò l'assassinio di questi ultimi a tradimento. I colpevoli furono condannati in contumacia al bando e al pagamento di una grossa ammenda dal rettore di Romagna Guillaume Durand. Il M., con i suoi fautori, si ritirò a Pratovecchio e poi nelle terre di Maghinardo Pagani da Susinana, loro antico nemico, con il quale tentò di impadronirsi di Imola e di Faenza. Il M., dal confino di Oriolo, tentò allora di percorrere la via della riconciliazione con gli Accarisi di Faenza, riuscendo a fare rientro in città grazie alle armi e all'aiuto di Maghinardo Pagani, il 15 ag. 1286.
Il 20 dicembre, in un periodo in cui Dante poteva trovarsi a Bologna, nel Liber preceptorum dei massari e depositari del Comune bolognese venivano registrate le spese occorse per esemplare a Imola il processo promosso da Guillaume Durand contro il M. e i suoi seguaci. L'anno successivo furono intavolate dal M. trattative con Malatesta Malatesta (Malatesta da Verucchio) per ratificare una pace con Alberico del conte Bernardino di Cunio che aveva sposato Beatrice, figlia di Manfredo Manfredi. La strategia perseguita dal M. era chiara; essa si prefiggeva di concludere un accordo di natura politica con lo schieramento ghibellino che gli permettesse di stringere un legame con la parte accarisia, sancito, infatti, dal matrimonio di suo figlio Ugolino con Patrizia degli Accarisi di Ghiozzano. A due anni di distanza da quegli accordi il M. poteva cogliere i frutti della sua condotta politica prendendo parte attiva alla vita politica di Faenza. Il M. è infatti presente a un atto di concordia siglato dal Comune di Faenza con Manfredi dei conti Guidi, riguardante il possesso di un molino presso Faenza, ma il rapido volgere della situazione portò nel biennio successivo a un ennesimo mutamento dell'ambiziosa e disperata condotta del M., disponibile ancora una volta ad allearsi con la Chiesa di Roma, cui recò soccorso nel febbraio 1292 quando il conte di Romagna, Ildebrandino dei conti Guidi di Romena, vescovo di Arezzo, si trovava a guerreggiare presso Forlì. L'impresa, però, risultò vana a causa dell'intervento armato di Maghinardo Pagani, che, in qualità di capitano del Popolo di Faenza, obbligò il M. a ritirarsi con il figlio nel castello di Rontana, possesso del nipote Francesco Manfredi. Il castello fu cinto d'assedio dal contingente ghibellino, che costrinse il M. alla resa.
Le conseguenze di quella nuova sconfitta furono gravose per il M., costretto con il figlio Ugolino a trovare rifugio a Bologna. Nel 1295 l'azione energica del nuovo conte di Romagna, l'arcivescovo di Monreale Pietro Guerra, fattosi eleggere podestà e capitano del Popolo di Faenza, impose una nuova concordia tra le parti, ratificata presso il castello di Oriolo e giurata pubblicamente nella piazza di Faenza. Nel monastero delle clarisse all'Isola di S. Martino di Faenza fu invece giurata una riconciliazione particolare tra il M., suo figlio Ugolino e suo nipote Francesco da una parte e il conte Alberico di Cunio, che agiva a nome della moglie Beatrice Manfredi, dall'altra.
La pace fu ancora una volta di breve durata e già ai primi di agosto esplosero gravi tumulti, organizzati ad arte da Ugolino, figlio del M., che impossessatosi di porta Ravegnana fu costretto alla fuga da Maghinardo Pagani, accorso in aiuto dei ghibellini faentini.
Furono, allora, confezionati due solenni atti che avevano lo scopo di ricostruire gli avvenimenti occorsi in città. In essi i Manfredi venivano duramente accusati di avere tradito i patti siglati e venivano incolpati di avere provocato gli scontri civili. Ugolino e Francesco Manfredi si rifugiarono a Cunio e poi a Ravenna, dove li raggiunse la sentenza di condanna al confino. Nel gennaio 1296 un altro documento del medesimo tenore veniva inviato a papa Bonifacio VIII. Il documento redatto nella cattedrale faentina alla presenza del vicario del vescovo Lottieri della Tosa individuava nel M., Ugolino e Francesco Manfredi i responsabili della rottura della pace giurata. Faenza sembrava prendere definitivamente le distanze dalla azione violenta del M. dal suo disperato e inappagato desiderio di dominio, prefigurando in un certo senso il giudizio che Dante dà delle lotte civili negli ultimi canti dell'Inferno. Si tratta di un'esecrabile eredità quella che il M. trasmise ai discendenti, come ebbe modo di sottolineare anche Giovanni Villani.
Il M. trascorse gli ultimi anni in esilio, dove assistette nel gennaio 1301 alla morte del figlio Ugolino. L'anno seguente, ammalato, il M. faceva redigere a Ravenna il proprio testamento; morì presumibilmente poco dopo.
Quell'atto, al quale era presente, tra gli altri, Guido da Polenta da Rimini, è ricco di informazioni. Da esso sappiamo che il M. aveva avuto da sua moglie Beatrice, di cui non conosciamo il casato, quattro figlie (Ermellina, Nobile, Contessina e Agnese, quest'ultima andata in sposa al conte Guglielmo di Castrocaro, capitano del Popolo di Faenza nel 1289) e tre figli (Rigo, Giovanni e Ugolino). Ne emerge per l'ultima volta lo stretto legame che vincolò il M. al figlio Ugolino e al nipote Francesco; proprio a quest'ultimo il M. raccomandava la tutela dei nipoti nati dal figlio premorto. Il terribile lascito che aveva caratterizzato l'agire del M. fu anch'esso ereditato dal nipote Francesco, primo del casato a riuscire a farsi signore della città di Faenza nel 1313, coronando quei sogni egemonici che lo zio aveva perseguito a caro prezzo e a ogni costo nel corso della sua esistenza.
La notorietà del M. trova conferma a pochi anni dalla morte nel serventese O peregrina Italia, citato da Torraca, e in un'invettiva anonima del 1321, scritta contro un podestà delle terre senesi, anche se è plausibile ritenere che i due testi dipendano dalla diffusione dell'Inferno dantesco. La fortuna dell'episodio dantesco è del resto confermata dalla citazione che di esso si ha nell'Acerba di Cecco d'Ascoli, poema scritto prima del 1327.
La figura storica del M. fu eternata da Dante, che ne fece uno dei dannati incontrati nella Commedia. Egli si trova conficcato nel peggiore inferno per avere procurato la strage dei parenti del 1285. Il fatto era noto, ma il poeta preferisce, a una verità storica restituitaci dalla documentazione archivistica e cronachistica, una verità letteraria che egli propone quale alternativa parziale ai dati noti. In essa si prevede l'esclusione dalla trama del racconto di due dei protagonisti dell'omicidio, Francesco e Ugolino, condensando il proprio disprezzo in un'inappellabile sentenza di condanna contro la crudele mostruosità dell'ideatore di quel disumano massacro. Sappiamo che i contrasti, documentati da una serie di atti registrati nei memoriali bolognesi tra il 1275 e il 1277 recuperati da Zaccagnini, avevano determinato una frattura insanabile all'interno del lignaggio, degenerata, secondo le fonti storiche, in un diverbio conclusosi con uno schiaffo a mano aperta assestato sul volto del M. da parte del cugino Manfredo, come ricorda il commento scritto nel 1461 dal romagnolo Matteo Chiromono, maestro di grammatica e versificatore vissuto alla corte dei Manfredi. Le conseguenze di quell'atto costituiscono lo sfondo dell'episodio inserito da Dante nel XXXIII canto dell'Inferno, che si apre con un appello all'alleviamento del dolore rivolto ai presunti nuovi compagni di pena, cui Dante replica con una promessa artatamente illusoria, capace d'ingannare il reo ingannatore. Il M. soddisfa le curiosità del pellegrino (vv. 118-120): "Rispuose adunque: "I' son frate Alberigo; / i' son quel da le frutte del mal orto, / che qui riprendo dattero per figo". Il nome del dannato è posto intenzionalmente in rima, in posizione eminente ed enfatica, conferendo il massimo rilievo al soggetto, che conserva un titolo, quello di "frate" che lo inchioda a quel passato politico che lo condanna, ma anche a un ordine religioso che non pare essere stato amato da Dante. La rivelazione dell'identità del dannato crea stupore in Dante, che così viene a sapere il destino singolare toccato in sorte alle anime e ai corpi dei dannati. Il M. è infatti ancora vivo nella primavera del 1300 e ciò costituisce una caratteristica dei dannati della Tolomea, come egli stesso asserisce (vv. 122-139), parlando di se stesso e di Branca Doria. Al termine dello scambio Dante è pertanto autorizzato a frustrare le aspettative del M. che attende di essere ripagato per le informazioni fornite al pellegrino, il quale però non lo ritiene degno di risposta (vv. 148-150): "E cortesia fu lui esser villano". L'ossimoro lapidario del poeta sottolinea la distanza esistente tra l'intenzione del pellegrino Dante e l'illusione dell'ingannato traditore, il cui epitaffio ricorda al lettore che egli fu il "peggiore spirto di Romagna" (v. 154).
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