ALBERICO di Spoleto
Forse di origine transalpina, compare per la prima volta, alla testa di un contingente di cento Camertini, sul campo della Trebbia, dove nel gennaio dell'889 si affrontarono Berengario, re d'Italia, e Guido (III), marchese di Spoleto (Gesta Berengarii imperatoris, 1, Il, vv. 25-30). Dopo un primo scontro, che aveva avuto luogo a Brescia nell'autunno dell'anno precedente, Guido si era assicurato l'arrivo di rinforzi, provenienti dalla Francia occidentalis, terra d'origine della sua famiglia, e dalla marca di Spoleto e Camerino. Una glossa al passo dei Gesta attribuisce ad A. il merito di aver ferito Berengario nel corso della battaglia: ma nel testo, a proposito di tale episodio (l. II, vv. 253-255), è menzionato invece un Ildebrando.
Gli stessi versi che danno notizia di A. sul campo della Trebbia accennano anche al suo avvenire: "Pauper adhuc Albricus abit iamiamque resultat / Spe Camerina, utinam dives sine morte sodalis". Una glossa precisa che A. divenne marchese di Camerino, dopo che "interfecit comparem suum Widonem in ponte". In un luogo immediatamente successivo dei Gesta, il poeta, dovendo introdurre uft Alberico diverso dal nostro, chiarisce - ad evitare un possibile equivoco - che non si tratta di colui il quale ha sporcato di sangue le acque del Tevere (1. II, vv. 88-90). Il ponte, presso cui fu consumato il delitto cui fa riferimento il commentatore, si trovava quindi su questo fiume; l'ucciso era Guido (IV), marchese di Spoleto, cugino (?) dell'altro Guido, che, con ogni probabilità, gli affidò il governo della marca nel momento in cui diventava re d'Italia, nel febbraio 889.
L'ultima testimonianza relativa a Guido (IV) segnala la sua presenza in Roma, insieme con Lamberto ed Ageltrude, al tempo del sinodo del cadavere (fine 896 - inizio 897), ed all'896-897, come data d inizio del marchesato di A., ci riportano anche le indicazioni cronologiche di uno dei quattro documentj farfensi in cui ricorre il suo nome (Liber largitorius, doc. 73). Ma, tralasciando il quarto (doc. 74), che non è databile con sicurezza, il computo degli anni di governo di A. negli altri due documenti (docc. 71 e 72) presuppone invece come punto di partenza una data compresa fra l'aprile e Vagosto 892. Lo Zucchetti ha tentato di risolvere tale difficoltà affacciando l'ipotesi che A. sia diventato signore di Camerino nell'892 (i docc. 71 e 72 si riferiscono a territori del versante adriatico dell'Appennino) e che, dopo l'assassinio di Guido, abbia esteso il suo dominio anche su Spoleto. Ma non risulta altrimenti che le due parti del marchesato si siano scisse dopo la riunificazione avvenuta nell'882, ad opera di Guido (III); inoltre, stando alla lettera del passo dei Gesta e della glossa relativa, solo l'assassinio di Guido (IV) permise ad A. di impadronirsi di Camerino; e in un diploma di Guido, re d'Italia ed imperatore, del settembre 892, A. è menzionato semplicemente come "fidelis noster". È certo però che gli interessi di A. gravitavano verso l'Adriatico: nell'897, Lamberto riconosceva al monastero di S. Croce sul Chienti il possesso di alcuni beni donati da A.; nel 920, Berengario I confermava al monastero di Farfa la proprietà di terre donate in parte da A., e site "in comitatu Firmano". L'ipotesi dello Hofmeister, secondo cui A. sarebbe stato dapprima conte di Fermo, ha dunque un buon fondamento.
Nell'899, contro gli Ungari, Berengario ebbe ai suoi ordini anche forze provenienti da Spoleto e Camerino: è probabile che, durante il viaggio compiuto nello stesso anno nell'Italia centrale, egli avesse riconosciuto il governo di Alberico. Ma solo al momento del ritorno in Roma di Sergio III, il marchese di Spoleto si afferma come figura di primo piano nella vita italiana. Come ha dimostrato il Fedele, i Franci, che, appoggiando dall'esterno le "machinationes quorumdam Romanorum", avreb bero validamente concorso, secondo quanto riferisce Ausilio (In defensionem sacrae ordinationis papae Formosi, a cura di E. Dimmler, nel vol. Auxilius und Vulgarius, Leipzig 1866, p. 60), a insediare Sergio sul trono papale (904, inizio) erano proprio gli Spoletini, chiamati Franci nelle fonti contemporanee dell'Italia meridionale. E non è necessariamente in contrasto con questa la testimonianza di Liutprando (Antapadosis, 1. I, c. 30), che accenna invece all'appoggio prestato all'esule Sergio da Adalberto Il, marchese di Toscana, dato che è possibile ammettere che i due marchesi si siano mossi insieme, in una concordia di intenti che si manifesterà anche in un altra occasione.
Quando, intorno al 906, l'arcivescovo di Ravenna, Giovanni (il futuro papa Giovanni X), aveva già portate molto innanzi certe trattative con Berengario, per cui sembrava imminente la venuta di questo a Roma per l'incoronazione imperiale, A. ed Adalberto unirono le loro forze e corsero ad occupare i passi dell'Appennino parmense, sbarrando il cammino al re (cfr. la lettera III del rotulo opistografo del principe Antonio Pio di Savoia). Non sempre, però, i due marchesi adottarono un atteggiamento comune di fronte ai progetti di Berengario: la lettera IV del rotulo testimonia infatti una situazione diversa. Mentre l'illecita appropriazione di alcuni beni della Chiesa ravennate ad opera di Didone, vassallo di Berengario, provocava una crisi nei rapporti fra Giovanni ed il re, A., mettendo a tacere le preoccupazioni che lo avevano indotto a schierare i suoi uomini accanto a quelli di Adalberto, sembra propenso ad approfittare della nuova situazione brigando con Berengario.
Nel 915, A. si copri di gloria sul campo del Garigliano: "factus est Albericus marchio ut leo fortissimus inter Sarracenos" (Benedicti Chronicon, p. 157). Benedetto accenna anche alla parte avuta da A. nella fase preparatoria dell'impresa (pp. 156 s.), ma il suo nome non compare nell'atto con cui Giovanni X ed i nobili romani confermarono ai duchi di Gaeta la donazione dei patrimoni di Traetto e Fondi, un atto che - nella più completa ed attendibile delle due tradizioni in cui ci è stato conservato - si configura come lo schema del patto di alleanza contro i Saraceni.
Al ritorno di A. in Roma, dopo la vittoria, il monaco del Soratte fa seguire l'inizio dei rapporti fra il "marchio elangiforme" (A. era, dunque, un bell'uomo) e la figlia di Teofilatto, Marozia (pp. 158 s.). Sulla natura di questi rapporti, Benedetto si esprime in modo non equivoco ("accepit una de nobilibus Romani... non quasi uxor sed in consuetudinem malignam); un passo di Liutprando, Antapodosis, 1. II, c. 48, che, a prima vista, sembrerebbe invece alludere ad un'unione legittima, giustifica anche un 'interpretazione nel senso indicato da Benedetto. La polemica sorta al riguardo fra il Fedele, che sostiene essersi trattato di nozze legittime ed attribuisce ad A. tutti i figli di Marozia, meno uno, ed il Duchesne, che difende l'altro punto dì vista, non ha portato ad una conclusione.
Anche l'epoca in cui le presunte nozze avrebbero avuto luogo resta incerta: prestando fede a Benedetto, si dovrebbe ammettere che Alberico di Roma, nato da quell'unione, avesse solo sedici o diciassette anni nel momento in cui affermò il suo potere sulla città (nel 932).
Il terreno su cui ci muoviamo è più solido, quando si consideri il significato politico dell'unione di A. e Marozia.
Fino dai tempi di Giovanni VIII, gli elementi più attivi dell'aristocrazia romana avevano cercato appoggi a Spoleto; ed ora che, sullo slancio della lotta antiformosiana, le forze locali avevano avuto un'affermazione decisiva proprio perché quell'alleanza aveva funzionato a dovere, era necessario che i vincitori garantissero anche sotto tale aspetto la stabilità del nuovo equilibrio politico cittadino. Nulla meglio di un rapporto personale e dinastico giovava alla famiglia di Teofilatto, interessata a tutelare tale equilibrio, ma anche a consolidare la propria funzione egemonica all'interno del gruppo dirigente. Per comprendere invece appieno l'atteggiamento di A., occorrerebbe chiarire come nei suoi rapporti con Sergio III e Teofilatto abbiano interferito, nei vari momenti, i rapporti ch'egli intrattenne con Berengario e l'arcivescovo di Ravenna.
Non sappiamo quando A. sia morto; il suo nome compare per l'ultima volta in un documento databile 917 (Liber largitorius, doc. 74).
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