ALBERICO di Roma
Nato da Alberico di Spoleto e da Marozia, figlia di Teofilatto "senator Romanorum" e della senatrice Teodora, A. è generalmente menzionato come Alberico II, ma tale denominazione - respinta anche da altri studiosi (cfr. Gerstenberg, p. 26) - presuppone un inesistente rapporto di successione dinastica fra A. ed il padre: in effetti A. non raccolse l'eredità del governo paterno sul marchesato di Spoleto, ma, nei limiti consentiti dall'originalità della sua creazione politica, va piuttosto considerato come appartenente alla dinastia cittadina romana di Teofilatto, primo, perciò, del suo nome.
Secondo Benedetto di S. Andrea, A., oltre che il nome, ripeté dal padre la bellezza dei lineamenti: "... vultum nitentem sicut pater eius" (Chronicon, p. 167). La casa dove egli nacque si trovava sull'Aventino; quanto alla data della sua nascita, non è facile conciliare la precisa testimonianza del monaco Benedetto, che pone l'inizio dei rapporti fra Marozia e Alberico di Spoleto all'indomani della battaglia del Ganigliano (915), con la considerazione secondo cui è molto improbabile che A. fosse un ragazzo di appena sedici o diciassette anni, quando si impadronì del potere in Roma: comunque, nulla sappiamo della sua giovinezza fino ai giorni decisivi della fine del 932 o dell'inizio dell'anno successivo. Alla morte di Alberico di Spoleto (intorno al 920), Marozia non era stata in grado di garantirgli l'accesso ad una parte almeno dell'eredità paterna. Andando sposa ad Ugo di Provenza, ella creava ora una situazione per cui anche il retaggio politico della sua famiglia minacciava di essere perduto per Albenico.
Arrivato a Roma in piena estate (932), Ugo si era stabilito in Castel S. Angelo; solo pochi Borgognoni si trovavano stanziati in città. Liutprando e Benedetto dissentono circa il motivo immediato che indusse A. ad agire: il primo racconta di uno schiaffo che Ugo avrebbe dato al figliastro, colpevole di avergli spruzzata addosso dell'acqua, mentre, per ordine di Marozia, lo aiutava a lavarsi le mani; il secondo riferisce invece che A. si mosse quando venne a sapere di un progetto del re di accecarlo. È probabile che un motivo del genere di quelli esposti dai due cronisti sia stato all'origine della reazione di A.; come è probabile che, su questo medesimo piano di reazioni istintive, la sollevazione generale della cittadinanza sia stata provocata da un'insofferenza largamente diffusa nei confronti degli intrusi Borgognoni, restando impregiudicata la questione se A. abbia contribuito ad esasperare tale risentimento con un appello ai Romani del tono di quello che Liutprando gli attribuisce.
Il monaco Benedetto conserva forse qualche eco lontana della cronaca di quella giornata: "ceperunt tuba canere maxime voces ecclesiarum, unanimiter loricis indutis, resonabant terra voces eorum" (Chronicon, p. 166). L'insurrezione ebbe completo successo: Ugo abbandonò in fuga Roma (il 16 gennaio il re era ad Arezzo), Marozia e papa Giovanni XI - ad evitare sorprese - furono posti sotto buona guardia.
Ma l'attenzione degli studiosi si è rivolta soprattutto alle scarse indicazioni fornite dalle fonti sui rapporti che intercorsero in tale occasione fra A. ed i cittadini romani, per ricavarne qualche orientamento circa le basi politiche e giuridiche su cui poggiava il suo potere. Il Sickel (pp. 92 ss.) attribuisce grande valore alla testimonianza di Liutprando, per cui i Romani, dopo avere ascoltato il discorso di A., "Hugonem regem cuncti deserunt atque eundem Albericum sibi dominum ehgunt" (Antapodosis, III, 45).La direzione della cosa pubblica sarebbe così venuta nelle mani di A. in seguito ad una regolare elezione da parte del popoìo romano. Ma l'imprecisione di cui Liutprando dà prova in genere nel qualificare il regime di A. (cfr. Antapodosis, III, 46: i Romanae urbis Albericus monarchiam tenuit); e l'inattendibilità dell'unica fonte (sec. XII) che conferma quella sua notizia inducono a non prestargli fede su questo punto. Con maggiore verosimiglianza Benedetto di S. Andrea accenna genericamente ad accordi giurati che avrebbero preceduto la sommossa.Figlio di Marozia, ed ora capo vittorioso dell'insurrezione cittadina contro di lei, A. rappresentava insieme "la tradizione dinastica e la rivoluzione"(Falco, La Santa Romana Repubblica, p. 226).
Scrivendogli in uno degli anni immediatamente successivi al 932 (prima del 935), l'abate di S. Benigno di Digione si rivolgeva a lui come al "vestararius, primus senator nec non unicus Romanorum dux" (cfr. O. Bertolini, in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, LXII [1939], pp. 369-375).
Più che un'enumerazione dei titoli e delle cariche di A. nella prima fase del suo regime, abbiamo qui la prova di come nel mondo circostante si cercava di interpretare, per approssimazione e con riferimenti al passato, la situazione radicalmente nuova che si era determinata a Roma. ("Vestararius", funzionario di Curia, come era stato Teofilatto; "primus senator nec non unicus Romanorum dux" - e non, semplicemente: "dux", "magister militum" e "senator Romanorum", come l'avo - per la posizione di assoluto predominio, acquistata da A. sia in città sia nell'ambito dell'aristocrazia). Ma la carica in Curia non era più un attributo necessario ad A. e, quanto ai rapporti con la cittadinanza e lo stesso ceto dirigente, l'investitura rivoluzionaria gli consentiva di adottare una formula molto più sbrigativa di quella suggerita dall'abate di S. Benigno: "senator omnium Romanorum", cioè a dire, come scrisse il Ranke nella Weltgeschichte, senatore senza senato. Questa formula non era, però, che un'appendice del titolo di "princeps", col quale egli espresse nel modo più efficace e diretto la pienezza del suo potere. È, invece, poco probabile che A. si sia intitolato anche "patricius": questo titolo, infatti, non compare mai in documenti ufficiali, o, comunque, emanati da lui, salvo che non si voglia decifrarlo nel monogramma alquanto oscuro di una moneta (cfr. F. Labruzzi, in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, XXXV [1912], pp. 133-149). Ma si tratterebbe in ogni modo della riesumazione del patriziato carolingio o di una presunta dignità antico-romana, non certo di una concessione bizantina, perché altrimenti non si spiegherebbe come mai, nel De cerimoniis di Costantino Porfirogenito, A. sia menzionato due volte come πρίγκιψ.
Il primo dei due passi del De cerimoniis in cui troviamo ricordato il "princeps" A. costituisce la formula di saluto Βασιλεύς, che era prevista per i legati provenienti da Roma. Secondo tale formula, A., insieme con il senato e con il popoìo romano, manifesta all'imperatore bizantino la sua più fedele sottomissione πιστωτάτην δούλωσιν; II, 47). Questa testimonianza, che non può certo intendersi come la prova di una effettiva dipendenza di Roma da Costantinopoli, è, però, l'indice di un orientamento filo-bizantino della politica di A., riscontrabile soprattutto nella prima fase del suo governo (cfr. Kòlmel, pp. 12-14). Del resto, per quanto riguarda tale punto, egli non fece che proseguire nella direzione segnata da Marozia, che era poi una specie di via obbligata che si apriva innanzi ai fautori dell'autonomia romana.
Qualche tempo dopo l'assunzione di A. al potere, giunse a Roma un'ambasceria bizantina con una lettera di Romano Lecapeno per Giovanni XI, nella quale il Βασιλεύς dava notizia dell'intronizzazione sul seggio patriarcale di suo figlio Teofilatto, avvenuta il 2 febbraio alla presenza dei legati romani; chiedeva che, ad evitare complicazioni per il futuro, un sinodo convocato dal papa confermasse la nomina del sedicenne patriarca; ed accennava infine alla progettata unione fra una figlia di Marozia (che era, com'è noto, la madre di Giovanni XI) ed un altro suo figliolo, proponendo che la sposa, accompagnata dalla madre o da altri per lei, si recasse senz'altro a Costantinopoli, a meno che non si ritenesse più conveniente che Romano stesso la mandasse a rilevare con tutti gli onori dovuti. A Costantinopoli, in febbraio, si ignorava dunque quello che era successo a Roma: circostanza dovuta probabilmente alle rallentate comunicazioni invernali, e che dimostra come non sia il caso di pensare a interferenze bizantine nel colpo di stato di Alberico. Ma questi, arrivata la lettera, dovette provvedere a che Giovanni XI venisse incontro alle nuove richieste del Βασιλεύς, guadagnandosi così lo sdegno di Liutprando, che attribuisce a lui solo la responsabilità della connivenza romana all'elezione di Teofilatto (Relatio, c. 62). Le trattative matrimoniali, per lo meno nei termini prospettati nella lettera del Lecapeno, restarono, invece, interrotte. Ma è probabile che su quel progetto fallito si sia direttamente innestato il proposito di A. di sposare, lui, una principessa bizantina: Benedetto di S. Andrea, che riporta tale notizia (riferendola, però, ad un momento successivo), precisa che, a condurre le trattative a Costantinopoli, A. designò Benedetto Campanino. Nell'attesa di una risposta, A. si affrettò ad apprestare una degna accoglienza alla sposa, reclutando alcune bellissime ragazze dell'aristocrazia cittadina, o della Sabina, destinate ad essere le sue damigelle d'onore. Ma non se ne fece niente: "verumtamen ad thalamum nuptiis non pervenit" (Chronicon, p. 171).
Fra la notizia della missione di Benedetto Campanino e quella dei preparativi nuziali, il monaco del Soratte inserisce, senza alcun apparente nesso logico, la notizia di una congiura contro A., capeggiata da due vescovi e dalle sorelle del principe, una delle quali svelò la trama al fratello, permettendogli di intervenire in tempo con una sanguinosa repressione. La presenza delle "sorores senatrices" alla testa dei congiurati, se messa in rapporto, da un lato, con il contesto in cui Benedetto colloca la notizia della congiura, e, dall'altro, con quanto sappiamo del progetto che Marozia accarezzava per una delle sue figlie, induce a pensare che la congiura abbia avuto origine proprio dalle intenzioni matrimoniali del "princeps", che, rispetto al progetto abbandonato, si presentano chiaramente come una affermazione di prestigio personale all'interno della sua stessa famiglia.
Accanto all' orientamento filo-bizantino, notevole più come direttiva di politica generale che per i risultati effettivamente conseguiti, l'attenzione prestata da A. alle cose dell'Italia meridionale costituisce il secondo aspetto di quella, che, con qualche approssimazione, potrebbe essere chiamata la sua politica estera. Nella stessa adozione del titolo di "princeps", meglio che un'eco della tradizione imperiale romana è, forse, da vedere l'imitazione dei reggitori dei potentati meridionali, Capua e Salerno, che proprio allora riaffermavano più vigorosamente la loro autonomia all'interno della sfera d'influenza bizantina.
D'altra parte, il matrimonio di Teodora, figlia di una sorella di Marozia, con Giovanni III duca di Napoli, anche se non è detto che sia stato combinato da A. (le nozze ebbero luogo intorno al 934), venne certamente incontro al suo proposito, che era quello di precostituirsi nel sud qualche appoggio contro eventuali minacce provenienti da altre direzioni. La stessa riforma monastica fu una delle vie attraverso cui A. poté indirettamente influire sulla situazione dell' Italia meridionale: basti accennare al nesso, individuato dal Kolmel, fra la restaurazione di Montecassino, osteggiata da Capua ed appoggiata da Roma, ed i contrasti di carattere politico esistenti fra il principe Landolfo, alleato di re Ugo, ed Alberico. Balduino, il principale collaboratore di Oddone di Cluny nella sua opera di riforma a Roma, si trovò ad essere contemporaneamente abate di due monasteri romani (S. Maria in Aventino e S. Paolo) e di Montecassino; Aligerno, suo successore in quest'ultimo monastero, era un nobile napoletano, ma formatosi a Roma, non si sa se a S. Maria in Aventino o a S. Paolo.
Quale sia stato l'effettivo valore di queste controassicurazioni, cercate ad oriente e nel mezzogiorno (il Kòlmel tende forse a sopravvalutarne la portata), resta il fatto che "a regibus terre Langobardorum seu Trasalpine terre nullus robore suis temporibus (ai tempi, cioè, di A.) in Romane finibus non spnt ingressi" (Benedicti Chronicon, p. 170). Questo vale per Ugo di Provenza che, più volte, cercò di rientrare con la forza in Roma, senza mai riuscirvi (la presenza di Ugo in Roma nel giugno del 941, attestata da due suoi diplomi, non presuppone necessariamente l'espugnazione della città); vale per gli Ungari, che battuti nel 942 presso porta S. Giovanni ("exierunt Romani et pugnaverunt cum Ungarorum gens; et ceciderunt de nobiles Romani, sicuti a portas ipsius ecclesiae inumata requiescunt": Benedicti Chronicon, p. 161) e poi ancora sotto le mura di Rieti, non si fecero più vivi nella regione romana (G. Fasoli, Le incursioni ungare, Firenze 1954, p. 180); vale per Ottone, che, nel 951, senza che in questo caso A. dovesse por mano alle armi, si arrestò innanzi al diniego opposto da Agapito Il alla sua richiesta di essere accolto in Roma.
Il pericolo di gran lunga maggiore, anche per la sua durata, fu rappresentato naturalmente da Ugo di Provenza, soprattutto fino a quando visse Marozia. Quest'ultima dev'essere morta, al più tardi, il 28 giugno 936; e quel medesimo anno vide la stipulazione di una prima tregua fra A. ed il re d'Italia. Il matrimonio che fu allora concluso fra il "princeps" ed una figlia di Ugo, Alda, può essere interpretato indifferentemente come prova della buona volontà dei contraenti (anche se poi smentita dai fatti) o come un tentativo da parte del re di aggirare dall'interno l'ostacolo dell'autonomia romana. Secondo l'autore della biografia di Oddone di Cluny, il santo, che allora si trovava a Roma, ebbe parte nella conclusione dell'accordo. La mediazione di Oddone è testimoniata anche da Flodoardo, ma per una fase successiva delle ostilità (942); in un momento intermedio (939), sarebbe stato Leone VII ad indurre Oddone a recarsi a Pavia per interporre i suoi buoni uffici fra i due contendenti.
Ma la chiusura verso il settentrione implicava uno scotto in termini di consistenza territoriale del Patrirnoniurn Sancti Petri. I legami fra Roma e l'Esarcato, già compromessi dal conflitto giurisdizionale, che aveva opposto la Chiesa ravennate a quella romana lungo il corso del sec. IX, e dalle frequenti intromissioni degli ultimi Carolingi, vennero ora a cessare completamente: al tempo di A., l'Esarcato gravitò nell'orbita del Regnunz Italiae. Eppure, anche sul piano dell'espansione territoriale, il bilancio del regime albericiano ha una voce al suo attivo, rappresentata dalla definitiva annessione della Sabina. Il primo "dux et rector territorii Sabinensis" è il franco Ingebaldo, ricordato in un documento farfense del settembre 939 (n. 372; Ingebaldo era imparentato per via di moglie con l'aristocrazia romana). I diritti vantati dalla Chiesa romana su tale regione risalivano indietro nel tempo (fine sec. VIII); contrariamente a quanto è stato sostenuto dal Muller (nell' opera Topographische und genealogische Untersuchungen zur Geschichte des Herzogturns Spoleto und der Sabina von 800 bis 1100, diss., Greifswald 1930, p. 10), sembra, però, accertato che, prima del sec. X, il loro esercizio si limitasse all'amministrazione dei patrimoni fondiari compresi nella zona, senza rivestire alcun carattere di governo politico-territoriale (cfr. O. Vehse, in Quel/en und Forsch. aus italienischen Archiven und Biblioth., XXI [1929-1930], p. 129; e cfr. anche Gerstenberg, excursus II, pp. 52-56). Resta comunque fuori discussione che, solo al tempo di A., la Sabina divenne stabilmente una parte integrante del Patrimonium. Né l'acquisto di questa fascia montagnosa a nord-est di Roma contraddice in qualche modo alla politica di raccoglimento, e tendenzialmente rinunciataria, cui A. rimase sempre fedele. A differenza del lontano Esarcato, aperto all'influenza di chi regnava a Pavia, il possesso della Sabina costituiva infatti un immediato presidio dell'autonomia romana. Non è, dunque, il caso di ammettere che A. sia stato mosso anche dal desiderio di rivendicare una porzione dell'eredità paterna.
I rapporti di Roma col mondo circostante furono così regolati da A. secondo la logica impostagli dalla natura del suo potere, che, in ultima analisi, risulterà corrispondere anche alle esigenze di conservazione del Patrimonium. C'era, pero, tutto un settore di rapporti esterni, che A. sarebbe stato forse in grado di intraiciare materialmente, ma nel regolamento dei quali egli non poteva certo surrogare i pontefici: Roma non era soltanto il centro di uno stato, ma era anche la capitale ecclesiastica dell'Occidente. Va subito precisato che proprio la diminuita intensità di tali rapporti, dovuta alla situazione generale dell'Europa post-carolingia, fu una condizione favorevole all'affermazione ed alla durata del regime albericiano. Ma ciò non toglie che, nella misura in cui quei rapporti sopravvissero al frazionamento dell'Occidente, A. lasciò liberi i pontefici nell'espletamento delle loro funzioni, limitandosi ad influire, quando ne aveva la possibilità e la convenienza, sulle singole decisioni che venivano da essi adottate. È perciò probabile che il Gerstenberg (pp. 43 ss.) abbia ragione a sostenere, contro l'opinione di molti altri studiosi, che se, nel 951, il rifiuto opposto da Agapito Il ad Ottone corrispondeva perfettamente ai desideri di A., questo non implica che il papa non fosse libero di decidere altrimenti in una materia che, nonostante tutto, era ancora di sua competenza. A maggior ragione è da ritenersi senz'altro infondata la notizia, riferita da Flodoardo nella Historia ecclesiae Remensis (IV, 24), secondo cui l'arcivescovo Artoldo di Reims avrebbe ricevuto il pallio da Giovanni XI e da A., "qui eundem Iohannem fratrem suum in sua detinebat potestate": dove il particolare relativo alla concessione del pallio da parte di A. non è che un' illazione arbitrariamente desunta dalla situazione generale di Roma. D'altra parte, l'intervento di Stefano IX nelle dispute per il trono francese (942), la fattiva presenza dei legati di Agapito Il al sinodo di Ingelheim (948) e l'appoggio fornito dallo stesso papa ai piani di Ottone per l'Est (955)segnano il filo di un'ininterrotta attività del papato in Occidente, attraverso decenni non certo propizi alle istanze centralizzatrici che esso necessariamente incarnava. Né il regime albericiano era di per sé tale da pregiudicare il flusso di pellegrini e di tributi verso i "limina apostolorum": A. stesso riceveva ed onorava gli ospiti più illustri; gli Annales di Flodoardo recano più volte notizia (a. 936, 939, 940, 951) di gruppi di pellegrini, provenienti anche dalle isole inglesi, diretti a Roma ed assaliti al passaggio delle Alpi dai Saraceni del Frassineto; il tesoretto di monete anglosassoni (sec. IX, fine - 944), scoperto nel 1883, durante gli scavi dell'atrio di Vesta, insieme con una fibula di un funzionario di Curia di Marino 11(942-946), dimostra infine che, almeno per una volta, il "denarius sancti Petri" fu regolarmente versato (cfr. Notizie degli Scavi di Antichità, dicembre 1883, pp. 486-497).
Di fronte a queste notizie frammentarie stanno però le testimonianze di Liutprando e di Benedetto di S. Andrea: secondo il primo, A. teneva il papa "quasi servum proprium in conclavi" (Relatio, c. 62); per il secondo, A. stabili un tale giogo sul papato che "Marinus papa non audebat adtingere aliquis extro iussio Alberici principi" (Chronicon, p. 167). Ma se si tiene conto dell'incapacità, in cui dovevano trovarsi i due cronisti, di distinguere concettualmente il volto del papa, signore di Roma, da quello del papa, guida del mondo cristiano, e si considera che i tempi facevano sì che il volume delle decisioni di politica ecclesiastica generale (per le quali il papa aveva libertà di movimento) fosse quantitativamente trascurabile in confronto alle cure richieste dal governo di Roma e del territorio (e che A. si era attribuite), i giudizi di Liutprando e di Benedetto appaiono giustificati e non contraddicenti a quanto s e sostenuto più sopra. Riesce in ogni modo impossibile indicare, come è stato tentato, una linea di sviluppo nei rapporti fra A. ed i vari pontefici: l'appiglio offerto dalle leggende delle monete (recanti dapprima il nome di A. per esteso e quello del papa in monogramma, poi l'inverso) è troppo fragile, ed èevidente il controsenso in cui si cade sostenendo che il monogramma di una delle monete va letto Agapitus e non patricius, e deducendo contemporaneamente dalla comparsa dell'intero nome di Agapito su di un'altra moneta dello stesso pontefice la prova di una ripresa del papato nel corso degli ultimi anni di governo albericiano (cfr., invece, U. Monneret de Villard, in Riv. itai. di numismatica, XXIII [1920], pp. 225-227).
Abbiamo, dunque, alcune monete con il nome di A. inciso dove una volta compariva quello dell'imperatore; a ribadire l'importanza dell'innovazione, una moneta del tempo di Giovanni XI reca la scritta: "Albericus princeps fieri iussit", formula che ha pochi precedenti in numismatica. Ma questo della monetazione è il solo elemento che faccia pensare a un rivolgimento operato da A. sul piano giuridico-istituzionale, come se egli avesse inteso attribuirsi una parte della sovranità.
Il Sickel, che ha indirizzato tutta la sua ricerca nel senso di una caratterizzazione giuridica del regime di A., giunse per conto suo a una ben diversa conclusione: "il regime di A. non ha affatto rappresentato una nuova forma statale, fosse essa una repubblica o una tirannide; A. èstato un organo della società nello Stato della Chiesa, per il quale valgono considerazioni di carattere politico e non giuridico" (Sickel, p. 108). Contrariamente a quanto sembrano indicare le monete, titolare della sovranità restò il solo pontefice. Il senso profondo della ventennale signoria di A. è perciò da ricercarsi in un ambito più vasto che non quello delle vicende costituzionali dello stato della Chiesa.
Nella crisi d'autorità che travagliava l'Europa nella prima metà del secolo decimo il governo albericiano è uno dei vari tentativi di carattere locale con cui qua e là si cominciava a risalire la corrente, per porre le basi di una nuova convivenza civile. Se il tentativo di A. acquista un rilievo tutto particolare, ciò avviene perché esso ebbe come teatro non un borgo qualunque, ma la città universale per definizione, la sede delle due supreme istituzioni in cui si articolava la "communitas ecclesiae"carolingia. Il riferimento al passato è inevitabile: "era sopravvenuto un completo rovesciamento della situazione creatasi nell'800: invece di incontrarsi a Roma, ora i due poteri universali erano tenuti separati per mezzo di Roma" (P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, I, Leipzig 1929, p. 20). Ma la peculiarità del regime di A. non si riduce solo a questo. Anche perché attuato in quelle particolari condizioni, tale esperimento di governo presenta infatti, fin nei dettagli della pratica amministrativa, alcune caratteristiche che meritano di essere attentamente considerate.
A differenza di quello che si riscontra in genere nell'Europa contemporanea, il particolarismo romano non ebbe carattere feudale. Nella storia dell'introduzione degli istituti feudali nel Patrimonium, il periodo di A. non merita alcun speciale rilievo. L'unica concessione di natura quasi-feudale è quella con cui, nel 946, Leone, vescovo di Velletri, dà in enfiteusi a Demetrio "quondam Meliosi" un monte, "ad castellum faciendum" (cfr. E. Stevenson, in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, XII [1889], pp. 73-80). Si può anzi dire che, in complesso, tale periodo segnò un rafforzamento delle istituzioni burocratiche centralizzate di origine bizantina, la cui efficienza, a partire dall'ultimo quarto del sec. IX, era stata gravemente compromessa dalla pressione e dalle infiltrazioni delle forze locali. Ora che, proprio in nome di queste ultime, A. sembra aver vinto la battaglia decisiva, si assiste ad un processo di restaurazione del potere centrale. Come vedremo, non è affatto un caso che, fra i sottoscrittori dell'atto del vescovo di Velletri, citato più sopra, sia compreso anche un giudice di palazzo, il "secundicerius" Leone.
A determinare tale orientamento contribuirono elementi di diversa natura. Da un lato, fino dai tempi di Giovanni VIII, la difesa delle istituzioni burocratiche si trovò ad essere stranamente associata all'affermazione di quell'ideale di una Renovatio romana, di cui, dopo la crisi del papato, s'erano fatti porta-bandiera gli esponenti dell'aristocrazia locale; dall'altro, nella raggiunta compenetrazione di società laica e di società ecclesiastica, l'equilibrio delle forze si era ormai talmente spostato a favore delle istanze particolaristiche dell'aristocrazia che le cariche in Curia, anziché posizioni da conquistare per sabotarne il funzionamento dall'interno (come era stato all'epoca di Giovanni VIII), potevano diventare efficaci strumenti di governo nelle mani del nuovo gruppo dirigente. Non si dimentichi inoltre che, con l'andare degli anni, sul raggruppamento anonimo delle forze locali si era affermata la famiglia di Teofilatto e che, ora, dal seno di questa era emerso clamorosamente il principe A., poco sollecito delle fortune della famiglia e della classe da cui proveniva e disposto a dividere solo con una cerchia di fedelissimi la propria ferma volontà di comando.
In conclusione, il regime albericiano, ben lungi dal favorire la feudalizzazione del l'atrimoniurn, garantì la continuità dei suoi ordinamenti tradizionali attraverso tempi particolarmente difficili.
Quello stesso Benedetto, che A. inviò a Costantinopoli perché gli ottenesse la mano di una principessa bizantina, è stato forse il primo "comes" della Campagna, ed il fatto che l'arcano intervenga come giudice ad un placito presieduto da lui dimostra che "egli, anziché un signore feudale indipendente, è un ufficiale della corte del principe" (cfr. G. Falco, in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, XXX VIII [1915], p. 691). Ma l'ingerenza dell'amministrazione centrale nel governo delle provincie risulta soprattutto chiara da quanto sappiamo della Sabina: qui, a capo dell'amministrazione locale, c'era il "rector", un vero e proprio funzionario anche se si attribuisce talvolta il titolo di "comes" e, a differenza di quello che accadeva per gli altri funzionari, il suo nome compare nella datazione dei documenti; comunque, secondo l'uso antico (a favore del quale s'era pronunciato con grande calore Giovanni VIII, allegando, fra l'altro, l'autorità di Cicerone e del Codex Theodosianus), la durata della sua carica era limitata ad un anno.
Ad un placito tenutosi il 17 ag. 942 "in curte ipsius... Alberici principi iuxta basilica sancti apostoli" presero parte, oltre il vescovo Marino di Bomarzo ed alcuni nobili romani (fra cui Benedetto Campanino e Demetrio de umiliosum), ben cinque dei sette "iudices ordinarii", che solevano assistere il papa in giudizio, e, in più, due funzionari di Curia (il vestarario Teofilatto ed il superista Giorgio), non investiti di funzioni giurisdizionali (ciascuno di essi sottoscrive semplicemente come "consul et dux"); A. stesso presiedeva ed il "secundicerius" Giorgio guidò il procedimento (cfr. Regesto sublacense, n. 155): salvo il luogo insolito in cui ebbe luogo il giudizio, la composizione del tribunale e la procedura seguita non presentano alcuna innovazione. E se, altra volta, non sarà nemmeno più la casa del principe, ma quella di Benedetto Campanino ad ospitare il giudizio, anche qui la presenza di alcuni giudici palatini (il primicerius", il "secundicerius" ed il "protoscriniarius") sta a testimoniare il rispetto della prassi tradizionale da parte di A. e dei suoi (Regesto sublacense, n. 35).
A correggere o a prevenire le tendenze eversive degli amministratori locali, A. utilizzò anche, accanto ai funzionari di Curia, il prestigio dei vescovi: addirittura quattro vescovi assistono al placito presieduto da Benedetto in Campagna; oltre che il "rector", anche il vescovo compare nella datazione dei documenti privati della Sabina, ed è molto probabile che la riunione delle diocesi di Nomento e di Fornovo in un'unica diocesi con sede a Fornovo vada fatta risalire all'iniziativa di A., come una misura atta a facilitare il riordinamento amministrativo della provincia (la prima menzione dell' "episcopus Sabinensis" è contenuta in una bolla di Marino II).
Un ristretto gruppo di esponenti dell'aristocrazia che gli erano legati personalmente (primo fra tutti: Benedetto Campanino), gli organi tradizionali del governo papale (i giudici di palazzo e gli amministratori locali) e i vescovi delle diocesi suburbicarie rappresentano, dunque, i tramiti attraverso i quali A. governò Roma e il suo territorio per più di vent'anni. A tali elementi, presenti nella vita romana anche prima del 932, ne va aggiunto un quarto, in gran parte nuovo, costituito dalla rete di monasteri che, disseminati ovunque - sia in città (S. Maria in Aventino, nella casa natale del principe), sia nel suburbio (S. Paolo, S. Lorenzo, S. Agnese), sia nel cuore del Patrimonium (S. Elia presso Nepi, S. Andrea e S. Silvestro sul monte Soratte), fino ai confini di esso (Subiaco) e alla provincia di nuova accessione (Farfa in Sabina) -, vennero ora stretti insieme dalla riforma che Oddone vi importò da Cluny, durante i suoi numerosi soggiorni romani, incontrando, da parte del principe, una collaborazione di natura tale che, a questo proposito, la formula consueta di appoggio del braccio secolare è del tutto inadeguata.
Poco prima dell'assunzione di A. al potere, Giovanni XI era intervenuto due volte a favore di Cluny; la seconda volta (nel 932, ma il mese è incerto), il papa dichiara di agire "rogatu Hugonis regis". Sulla traccia di questi rapporti recenti fra il papato e Cluny, la venuta a Roma di Oddope nell'estate del 936 non ha nulla di eccezionale. Ed è probabile che l'invito gli sia stato rivolto da Leone VII ("cogente domno papa et universis ordinibus sacrae sedis": Iohannis Vita S. Odonis, I, 27) e non direttamente, come vorrebbe invece la Destructio Farfensis, da Alberico.
Quanto al motivo del viaggio di Oddone, mentre il suo biografo accenna alla riedificazione del monastero di S. Paolo (che costituì in effetti il centro della riforma), la Destructio fa riferimento alla crisi che attraversavano tutti i monasteri del territorio romano e racconta che, fattolo venire a Roma, A. nominò Oddone "archimandritam... super cuncta monasteria Rome adiacentia" (p. 39). Quest'ultima testimonianza difficilmente controllabile ha il merito di concordare con quella che si rivelerà anche in seguito come la caratteristica basilare della riforma cluniacense, cioè a dire la tendenza a riunire monasteri non solo nella stessa osservanza disciplinare, ma anche sotto un unico capo. Proprio in vista di questa ispirazione centralizzatrice che presiedeva all'opera di riforma monastica cui attese Oddone a Roma, A. pensò di poter utilizzare i monasteri riformati come punti d'appoggio della sua costruzione politica. Il monaco Benedetto, che non fa nemmeno il nome di Oddone, attribuisce ad A., "cultor monasteriorum" (p. 167), l'iniziativa ed il merito della riforma. Al di là di un'inutile indagine sulle intenzioni politiche o religiose perseguite dal "princeps" col suo appoggio all'opera dell'abate di Cluny, è Benedetto stesso che ci mostra in concreto le implicazioni politico-sociali dell'intrapresa restaurazione dei chiostri.
Da tempo i monasteri del monte Soratte erano in preda al disordine. Il monastero di S. Silvestro, devastato dai Saraceni, non s'era più risollevato; i monaci vivevano secondo la carne ("carnaliter") e i beni del monastero erano andati dispersi, perché concessi "in bassallatico a (sic!) fidelibus principis" (p. 168), cioè a membri di quell'aristocrazia romana di cui A. era l'esponente più in vista. Ma proprio A. volle porre rimedio a tanto disordine, nominando abate del monastero di S. Andrea il prete e medico Leone, proveniente dalla chiesa romana dei SS. Apostoli, ed inviando sul posto un altro Leone ("dicebatur a Romanis camorlingo"), perché provvedesse a reintegrare i due monasteri nei loro possessi. Il nuovo abate, da parte sua, "edificavit castrum ex utraque partes monasterii, et construxit tres turres ab introitus huius monasterii" (p. 168), meritandosi la gratitudine di Alberico. Così che, nell'atto stesso che veniva inferto un colpo allo strapotere dell'aristocrazia, il monastero restaurato diventava il cardine dell'organizzazione e della difesa del territorio.
Perfettamente localizzabile in un giro di appena tre anni (936-939; cfr. R. Morghen, in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, LI [1928], p. 198), l'inizio delle fortune del monastero di Subiaco rispecchia il preciso disegno di A. di creare un centro di forza, su cui fosse possibile fare costante affidamento, a presidio dell'alta valle dell'Aniene. I privilegi papali, tutti di Leone VII, che segnano le tappe di quella crescita prodigiosa, sono cinque: nei primi tre il papa si richiama esplicitamente alla volontà del principe. Da segnalare il privilegio del 2 ag. 937, con il quale Leone VII, venendo incontro alla pressante richiesta del "misericors Albericus", ed in espiazione delle colpe di quest'ultimo ("pro Alberici veniam delictorum"),concede al monastero di S. Benedetto il castello di Subiaco, in perpetuo e senza alcuna corresponsione (Regesto subiacense, n. 16).
Anche in questo caso, A. procedette in una direzione indicata dai papi della seconda metà del sec. IX (autentici o falsi che siano, i diplomi di Niccolò I e di Giovanni VIII stanno ad indicare una tendenza). Ma all'indirizzo ormai tradizionale A. impose il suggello della sua volontà politica, e lo sviluppo di Subiaco va considerato nell'ambito del disegno complessivo, che mirava all'organizzazione di tutto il territorio intorno a Roma e presupponeva, come freno alle velleità particolaristiche dei monasteri, rafforzati nel loro patrimonio e nella loro autorità, la diffusione dello spirito centralizzatore di Cluny (Oddone visitò il monastero sublacense nel 942, durante la sua ultima venuta a Roma). Del resto, i legami che intercorrevano fra le fortune del monastero ed il regime albericiano risultano chiari da un placito del maggio 958,nel quale si allude ai danni ed alle persecuzioni che Subiaco ebbe a subire "a diebus quibus bone (me)morie domnus Albericus de ac vita obiit" (Regesto sublacense, n. 20).
Se l'azione per Subiaco poté venire espletata per mezzo di semplici privilegi papali, le particolari condizioni dell'abbazia di Farfa imposero il ricorso a misure eccezionali. Un gruppo di monaci mandati da Roma a riformare quel monastero, al tempo della prima venuta di Oddone (936), poco mancò che non venissero accoltellati nel corso della notte, per ordine dell'abate Campone. Dopo di allora, ci vollero nove anni prima che si ritentasse la prova: nel frattempo la Sabina era stata annessa al Patrinzonium, ed il monastero farfense, da potenziale elemento di disgregazione all'interno della nuova provincia, doveva diventare il presidio del nuovo ordine instaurato da Roma; ma i possessi ed il prestigio di Farfa si estendevano molto al di là dei confini della Sabina, e, per lungo tempo, Campone riuscì a tener testa ad Alberico. Occorse l'uso della forza perché l'abate dissipatore si risolvesse a fuggire e si potesse provvedere all'elezione (94v) di un nuovo abate, Dagiberto di Cuma, cui A. si affrettò a restituire "cunctas... curtes que in Sabinis erant ipsius monasterii perditas" (Destructio Farfensis, p. 41). Forte dell'esperienza fatta a S. Andrea del Soratte, ritroviamo qui, investito delle stesse funzioni, Leone "camorlingo" (cfr. il "Leo dux atque missus domnicus" in Regesto di Farfa, n. 389).
Oltre a Campone, che ora si stabilì a Rieti, e a Dagiberto, Farfa aveva un altro abate, preposto ai beni dell'abbazia nella marca di Fermo: "en tres abbates in uno monasterio contra morem auditos, duos malos et unum bonum quamvis non legaliter" (Destructio, p. 41). Ma, nonostante il ricorso ad una procedura così sbrigativa, Farfa diede ancora preoccupazioni ad A.: cinque anni dopo l'elezione ad abate, Dagiberto fu avvelenato, e la nomina del suo successore, Adamo di Lucca, dovette precedere di poco la scomparsa del principe (Regesto di Farfa, nn. 390 e 391).
La disposizione favorevole di A. nei confronti dei monasteri si manifesta anche nella forma usitata di alcune cospicue donazioni, con cui il "princeps" e la sua famiglia beneficarono il monastero dei SS. Andrea e Gregorio ad clivum Scauri (cfr. Iohannes Benedictus Mittarelli, Annales Carnaldulenses, I, Venetiis 1755, app., cc. 39-45) e quelli di S. Silvestro in capite e di S. Agnese (queste due ultime donazioni sono note attraverso i documenti con cui Agapito II e Giovanni XII confermarono a S. Silvestro il possesso del "casale Pelaiolum", che A. aveva assegnato a tale monastero incambio della valle di S. Vito, donata precedentemente, e poi attribuita da lui stesso a S. Agnese (cfr. V. Federici, in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, XXII [1899], pp. 265-292, nn. 3-4). Accanto all' "humilis princeps atque omnium Romanorum senator", nell'atto per S. Andrea, compaiono i fratelli Sergio, vescovo di Nepi (la donazione, del 14 genn. 945, comprendeva beni situati in tale località, oltre che presso Albano e la porta Portuense), e Costantino "illustris vir", la sorellastra Berta (figlia di Guido di Toscana?) e le cugine Marozia (II) e Stefania (figlie di Teodora, sorella di Marozia); nei privilegi di conferma. della "cartula commutationis" per S. Silvestro, oltre a Sergio, Costantino e Berta, è menzionata una seconda Berta ("cum Berta et alia Berta"), che si potrebbe pensare nata dalle nozze di Marozia con Ugo di Provenza.
Per il periodo di A. ci vengono inoltre testimoniate almeno tre nuove fondazioni monastiche, due delle quali ad iniziativa di persone che gli erano molto vicine. Una pia leggenda (conservatasi solo in traduzione: cfr. L. Cavazzi, La diaconia di S. Maria in Via Lata e il monastero di S. Ciriaco, Roma 1908, p. 248) riferisce che il monastero di S. Ciriaco fu fondato dalle due cugine di A., ricordate più sopra, e dalla loro sorella Teodora (III), che abbiamo visto sposa di Giovanni III duca di Napoli; secondo il Fedele (in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria. XXVI [1903], pp. 360 s.), un tale Pietro, "illustris sophus et medicus", fondò il monastero annesso alla chiesa di S. Maria in Pallara proprio al tempo di A.; infine, fu Benedetto Campanino, il fedelissimo del principe, a fondare fra il 936 ed il 939 il monastero dei SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea (cfr. P. Fedele, in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, XXI [1898], pp. 474-480).
Dalla moglie Alda, o da una concubina, A. aveva avuto un figlio di nome Ottaviano. Sentendo approssimarsi la morte, il "princeps" convocò a S. Pietro i nobili romani e strappò loro la promessa che, alla morte di Agapito Il, avrebbero eletto papa suo figlio. "Ordinate germane sue causa et Octabiani filii sui, infra confessione beati Petri apostoli, vita finivit" (Benedicti Chronicon, p. 172): ciò avvenne il 31 ag. 954.
Fra il momento in cui A. impose al figlio il nome di Ottaviano e quello in cui predispose per lui l'assunzione al soglio papale, intervenne certamente un cambiamento di programma. Ma, alla base di entrambe le decisioni del "princeps", c'è un sottofondo, rappresentato dalla coscienza della provvisorietà del proprio regime (cfr. Sickel, pp. 100 ss.) e dall'inclinazione a riversare liberamente e senza ritegno, nei progetti per l'avvenire del figlio, quei motivi di carattere universale, che erano inscindibili dalla vita e dalla tradizione di Roma e che si mostrano vivi in A. stesso, tanto che è possibile far risalire alla loro presenza tutti gli aspetti peculiari della sua azione di governo cittadino e locale. La scelta di un nome come Ottaviano sembra costituire una lmplicita designazione all'impero; il progetto di fare di Ottaviano un papa (maturato forse sotto l'impressione del tentativo ottoniano del 951) implicava la restituzione al pontefice del governo della città, in modo che "la coincidenza degli interessi particolari "con quelli universali avrebbe permesso di assumere le limitate possibilità municipali sotto una istituzione di quasi infinite risorse" (Brezzi, pp. 124 s.).
Per il Gregorovius, A. merita senz'altro "il primo luogo fra i Romani del medio evo che non furono papi" (Storia della città di Roma nel Medio Evo, Torino 1925, Il, I, pp. 32 s.); con maggior senso delle proporzioni, il Burdach (Rienzo und die geistige Wandlung seiner Zeit, I, Berlin 1913, pp. 181 ss.) lo pone agli inizi della tradizione che culmina in Cola di Rienzo. Come scrive uno storico italiano, A. fu "l'interprete della coscienza cittadina, il campione di una Romanità nutrita d'antico, rigermogliata dal profondo, affiorata nelle lettere di Giovanni VIII e nelle poesie di Eugenio Vulgario, nel senato e nel patriziato redivivi, radicata da lui in breve giro di terre, ma tradotta nell'azione e nella creazione politica" (Falco, La Santa Romana Repubblica, p. 239).
Fonti e Bibl.: Benedicti S. Andreac Chronicon, a cura di G. Zucchetti, Roma 1920, in Fonti per la storia d'Italia, LV; Liudprandi Opera, a cura di i. Becker, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores rerum Germanica runi, Hannover-Leipzig 1915; Constantini Porphyrogeniti De cerimoniis aulae byzantinae, a cura di I. I. Reiske, Bonnae 1829, in Corpus scriprorum historiae byzantinae, I. II, CC. 47 e 48, pp. 680 e 689; Regesten der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches, a cura di Franz Dolger, I, München-Berlin 1924, p. 76. n. 625; Iohannis Vita S. Odonis, in Migne, Patr. lat., CXXXIII, coll. 43-86; Flodoardi Annales, a cura di Ph. Laucr, Paris 1906; Il Regesto di Farfa, a cura di I. Giorgi e U. Balzani, III, Roma 1883; Il Regesto sublacense del sec. XI, a cura di L. Allodi e G. Levi, Roma 1885; Hugonis Abbatis Destrucrio Farfensis, a cura di U. Balzani, Roma 1903. in Fonti per la storia d'italia, XXXIII, passim; F. Gregorovius, Die Miinzen Alberichs, des Fursien und Senators der Römer, nel vol. Kleine Schriften zur Geschichte und Cultur, I, Leipzig 1887, pp. 155-179; E. Sackur, Die Cluniacenser in ihrer kirchlichen und allgemeingeschichilichen Wirksamkeit bis zur Mitte des elfien Jahrhunderìs, I, Ralle 1892, passim; W. Sickel, Alberich II. und der Kirchensraar, in Mitteilungen des Instituts für ösrerreichische Geschichtsforschung, XXIII (1902), pp. 50-126; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalier, III, 2, Gotha 1911, pp. 218 ss.; T. Hirschfeld, Das Gerichtswesen der Stadi Rom vom 8. bis 12. Jahrhundert wesentlich nach stadrömischen Urkunden, in Archiv fur Urkundenforschung, IV (1912), pp. 465 e 467; K. Jordan, Das Eindringen des Lehnswesens in das Rechisleben der romischen Kurie, ibid., XII (1931), pp. 34 ss.; O. Gerstenberg, Vie politische Entwicklung des römischen Adels mi 10. und in Jahrhundert, diss., Berlin 1933; pp. 24-46; W. Kolmel. Rom und der Kirchenstaat im 10. und 11. Jahrhundert bis in die Anfänge der Reform, BerlinGrunewald 1935, pp. 10-25; P. Brezzi, Roma e l'impero medioevale (774-1252), Bologna 1947, pp. 115-126; G. Falco, Alberico II, nel vol. Albori d'Europa, Roma 1947, pp. 378-388; Id., La Santa Romana Repubblica, 2 ed., Milano-Napoli 1954, pp. 225-240; Id., La crisi dell'autorità e lo sforzo della ricostruzione in Italia e L'Italia e la restaurazione delle potestà universali, nel voi. I problemi comuni dell'Europa posi-carolingia, Spoleto 1955, pp. 39-51 e 52-65; 6. Fasoli, I re d'Italia (88-962), Firenze 1949, pp. 123 s., 127-129, 138 s., 145 s. e passim.