ALBA DE LISTE (Alvadeliste), Diego Enríquez de Guzmán conte di
Appartenente ad un'antica e nobile famiglia castigliana, il 26 genn. 1585 fu nominato da Filippo II viceré di Sicilia.
Insediatosi a Palermo il 3 ag. 1585, l'A. iniziò la sua attività di governo nell'isola col proposito di far valere pienamente la supremazia dell'autorità vicereale. Nonostante tale programma, destinato ad incontrare fortissime resistenze nell'isola, il suo primo triennio di governo trascorse abbastanza tranquillamente, se si tolgono un piccolo incidente giurisdizionalistico col Tribunale del Santo Uffizio, nel 1586,e una carestia nello stesso anno, che l'A., però, riuscì a superare con alcuni opportuni e tempestivi provvedimenti. Riconfermato da Madrid per un secondo triennio, l'A. si trovò a dover fronteggiare una serie di grossi incidenti, che alla fine lo costrinsero a dimettersi dalla carica.
Nel marzo del 1589, fu arrestato sotto l'accusa di un duplice assassinio un familiare del Santo Ufficio che, dopo regolare processo, fu condannato a morte. Appena eseguita la sentenza, gli inquisitori insorsero in difesa dei privilegi giurisdizionali del Santo Tribunale, chiamando a discolpa il giudice e chiedendo la consegna degli esecutori della condanna. L'A. intimò allora ai giudici di non presentarsi in nessun caso al Tribunale dell'Inquisizione, provocando così la scomunica nei loro confronti da parte degli inquisitori.
Fatti assolvere i giudici dall'arcivescovo di Palermo, l'A. rimise la questione a Madrid, sollecitando una soluzione della vertenza che sanzionasse la superiorità del potere civile sui privilegi del Santo Ufficio. Intanto, in attesa del responso del re, continuò nella sua ferma politica verso il Santo Ufficio, sulla linea già inaugurata dal suo predecessore, il viceré M. A. Colonna, facendo arrestare e processare sistematicamente tutti quei familiari del Santo Ufficio che avessero violato le leggi del Regno. Nel marzo del 1590 scoppiò così il caso di Ottavio Lanza, conte di Mussomeli, altro familiare del Santo Ufficio, accusato di assassinio e detenuto nelle carceri dell'Inquisizione. L'A. richiese agli inquisitori la consegna immediata del prigioniero, e davanti al loro netto rifiuto lo fece prendere con la forza. Il 6 apr. 1590 gli inquisitori scomunicarono il viceré con i suoi ministri e consiglieri e lanciarono l'interdetto su tutta la diocesi di Palermo. Lo scandalo fu tale che l'A. si vide costretto a riconsegnare il prigioniero, ottenendo, con la mediazione dell'arcivescovo di Palermo, l'ex inquisitore di Sicilia Diego Aedo, la revoca dell'interdetto. La sua posizione era divenuta frattanto insostenibile, poiché il 29 marzo era arrivato il responso di Madrid, che risolveva la vertenza dell'anno precedente a favore del Santo Ufficio. L'A., di fronte a questa sconfessione della sua politica, inviò a Madrid le dimissioni, che furono accettate, con la riserva del mantenimento della carica fino all'arrivo del nuovo viceré. Egli restò così in Sicilia altri due anni, persistendo, però, nonostante la difficile posizione, nella sua politica di difesa della legge contro il privilegio.
Il caso del conte di Mussomeli aveva messo il dito su una delle piaghe della società siciliana del tempo: l'alleanza della nobiltà col Santo Ufficio in funzione antivicereale. Gli inquisitori, con accorta politica, erano riusciti infatti ad attirare nel foro dell'Inquisizione gran parte della nobiltà isolana, sottraendola ai tribunali regi, ed ottenendo in compenso di influenzare, attraverso il braccio baronale, la condotta politica del Parlamento del Regno. L'A., che fin dai primi suoi anni di governo nell'isola, aveva condotto una decisa azione contro i privilegi baronali (nel 1588, fra l'altro, aveva proposto a Madrid la revoca di ogni giurisdizione baronale ad arbitrio del sovrano), comprese quale pericolo rappresentasse particolarmente per il potere vicereale la stretta alleanza tra il baronaggio e l'Inquisizione. Presentò quindi a Madrid il pericolo in tutta la sua gravità, sollecitando il divieto per i nobili di ascriversi nel Tribunale del Santo Ufficio. Le richieste dell'A. preoccuparono l'inquisitore L. Paramo, che cercò di opporvisi con un lungo memoriale inoltrato a Madrid, in data 18 luglio 1590, indicando nella stretta intesa tra il Santo Ufficio e la nobiltà isolana il mezzo per la tranquillità del Regno. Filippo Il avverti però chiaramente come l'alleanza baronaggio-Inquisizione potesse a lungo andare divenire pericolosa per gli stessi interessi della Corona nell'isola e il 2 marzo 1591 vietò che i baroni siciliani fossero ammessi nel foro del Santo Ufficio. Al grave colpo arrecato al prestigio e alla potenza dell'Inquisizione seguì presto la reazione.
Nel luglio del 1591, apertasi la regolare sessione del Parlamento del Regno, il braccio baronale, istigato dall'inquisitore Paramo, insorse violentemente contro il viceré, negandogli il consueto donativo personale e rifiutandosi di approvare il donativo regio, se prima Filippo II non avesse rinnovato il formale impegno di mantenere e rispettare i diritti e i privilegi del baronaggio del Regno, con particolare riferimento alla procedura ex abrupto (divenuta un'arma formidabile nelle mani dell'A., che se ne era ampiamente servito, per superare lo scoglio dei privilegi baronali e colpire rapidamente quei baroni che avessero infranto le leggi del Regno). Il braccio baronale propose infine di mandare un ambasciatore a Madrid per riferire direttamente al sovrano i deliberati del Parlamento.
L'A., colto di sorpresa, si mostrò inizialmente disposto a cedere, accettando le richieste del braccio baronale e promettendo l'assenso regio. Intanto, per avere la forza necessaria a sedare eventuali tumulti della plebe palermitana, facilmente aizzabile contro di lui, a causa della terribile carestia che si era abbattuta sul Regno, concentrò presso Palermo un reggimento di cavalleria spagnola. Quindi con abilità politica, insospettabile in chi si era mostrato generalmente rigido e poco incline ai compromessi, riuscì ad accattivarsi il favore degli altri due bracci parlamentari, l'ecclesiastico e il demaniale, isolando il braccio baronale. E, con l'appoggio del Sacro Consiglio (autorevolissima magistratura del Regno), che riconobbe sufficiente l'approvazione di due bracci parlamentari per la concessione, fece votare il donativo, battendo clamorosamente il braccio baronale, i cui più accesi esponenti fece per giunta arrestare. La vittoria dell'A. sul baronaggio fu piena e decisa, quando falli il tentativo del marchese della Favara, uno dei capi della rivolta (che aveva anche tentato, con scarsi risultati, di aizzargli contro la plebe palermitana), di agire contro di lui mediante contatti diretti con Madrid.
L'inquisitore Paramo, battuto in Parlamento, riuscì tuttavia a fare allontanare rapidamente l'A. dall'isola, il 16 marzo 1592. A Madrid l'A. ebbe il modesto incarico di maggiordomo maggiore della regina Margherita d'Austria, moglie di Filippo II.
Mal giudicato nella tradizione storiografica siciliana per la sua lotta contro il baronaggio e il suo ostentato disprezzo per i privilegi del Regno, l'A. in realtà, nonostante certa scarsa duttilità di carattere caratteristica del nobile castigliano, svolse in Sicilia una seria e decisa azione di governo. Oltre ad escludere definitivamente ogni influenza del Santo Ufficio sui deliberati del Parlamento, si preoccupò costantemente di alleggerire il carico fiscale del Regno, con una continua pressione a corte, non priva di risultati. Sollecito dell'amministrazione finanziaria, intraprese anche parecchie opere pubbliche di grande utilità, fra cui è da segnalare il prosciugamento del lago papireto, che con i suoi miasmi appestava l'aria della capitale (quest'opera procurò all'A. una mordace iscrizione a doppio senso del poeta A. Veneziano, il quale si fece così portavoce del risentimento della nobiltà, oltre che del suo personale: l'A. nel 1588 l'aveva fatto arrestare e torturare, per un suo cartello sedizioso, e solo per l'intervento di alcuni autorevoli baroni l'aveva mandato al confino a Pantelleria, anziché alla forca).
Certo l'A., accedendo nel 1590 con improvvidenza alle insistenti richieste di grano dalla Spagna, ne permise un'esportazione eccessiva, causando la terribile carestia del 1591-92, a cui non seppe poi porre riparo.
Bibl.: G.E. Di Blasi, Storia cronologica dei Viceré, Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1880, pp. 248-256; V. Graziadei, Pasquino in Sicilia nel 600 e nel 700, in Arch. stor. siciliano, n.s., XXXII (1907), pp. 66-69; C.A. Garufi, Contributo alla storia dell'Inquisizione di Sicilia nei secc. XVI e XVII, Palermo 1920, pp. 304-360; H.G. Koenigsberger, The government of Sicily under Philip II of Spain, London 1951, pp. 113-114, 156-157, 167-169, 192-193 e passim; A. y A. Garcia Carraffa, Enciclopedia Heráldica y Genealógica Hispano-Americana, XXXI, p. 46.