SALVIATI, Alamanno
– Nacque a Firenze il 21 marzo 1669 da Gian Vincenzo, marchese di Boccheggiano, e da Laura Corsi, discendenti entrambi da illustri famiglie della cerchia medicea.
Gentiluomo del granduca Ferdinando II dal 1656, nel 1661 Gian Vincenzo – a ventun anni – era stato inviato in missione diplomatica straordinaria in Francia e in Inghilterra. Nel 1669, anno di nascita del figlio cadetto Alamanno, era stato insignito della carica di gran cacciatore di Ferdinando II, per poi essere elevato otto mesi più tardi, alla morte di quest’ultimo, al rango di maggiordomo del nuovo granduca di Toscana, Cosimo III. Il figlio maggiore Antonino era stato promosso nel 1683 primo gentiluomo di Cosimo III, e inviato nello stesso anno in missione straordinaria a Parigi, in occasione della morte di Maria Teresa d’Asburgo, sposa di Luigi XIV. Ricoprì poi anche l’importante funzione di capitano della guardia del granduca. Cavaliere di S. Stefano dal 1687, Averardo, il terzo figlio, rivestì la dignità di scudiero della granduchessa Vittoria della Rovere, madre di Cosimo III. Per conto di quest’ultimo fu inviato come ambasciatore a Parigi nel 1694, dove morì ancora in carica nel 1707.
Alamanno ricevette un’educazione scrupolosissima. Destinato a quanto sembra alla carriera ecclesiastica, fu dapprima affidato, verso il 1680, al seminario di Siena, fondato una sessantina d’anni prima dal cardinale Metello Bichi. Poi partì per l’Università di Pisa, dove effettuò studi di lettere, filosofia e diritto. Qui si guadagnò la stima dei suoi maestri, con alcuni dei quali avrebbe stretto una duratura amicizia: tra gli altri il moralista Federico Giannetti, il giurista Giuseppe Averani e suo fratello Benedetto, professore di lettere classiche. A Pisa fece anche la conoscenza di numerosi intellettuali, quali Lorenzo Magalotti, Lorenzo Bellini, Francesco Redi e Anton Maria Salvini.
Nel 1696 conseguì presso l’Università di Pisa un dottorato in utroque iure. Con lo pseudonimo di Informe faceva già parte dell’Accademia della Crusca, dove gli erano state affidate le mansioni di segretario: conservò l’incarico fino alla morte, anche se a partire dal 1705 le continue assenze da Firenze gli avrebbero impedito di adempierne le funzioni. Rimase comunque sempre in contatto con i colleghi.
Fu forse in seguito all’ingresso nell’Accademia della Crusca, dove ritrovò alcuni dei suoi maestri del periodo pisano, che decise di seguire il loro esempio dedicando la propria vita all’erudizione. Ma prima di consacrarsi agli studi sentì il bisogno di allargare i propri orizzonti visitando le grandi capitali d’Europa. Nel 1698, con le lettere credenziali del granduca Cosimo III, partì per un viaggio che sarebbe durato più di un anno: la meta principale fu Parigi dove, grazie al fratello Averardo che vi risiedeva in qualità di ambasciatore del granduca, trovò le porte aperte in tutti i più prestigiosi circoli intellettuali. Qui fece la conoscenza di Eusèbe Renaudot, dell’Académie Française, che avrebbe ritrovato a Parigi nel 1708 e che sembra aver esercitato su di lui un’influenza notevole. Nel 1706 Renaudot sarebbe entrato nell’Accademia della Crusca in qualità di membro corrispondente.
Al rientro a Firenze riprese le abitudini di uomo di lettere, non senza però dedicare tempo e risorse considerevoli al servizio dei poveri e dei malati, per conto delle autorità cittadine. Seguì forse in questo l’esempio del suo maestro Giannetti. A tali placide occupazioni avrebbe probabilmente dedicato tutta la vita, se non fosse stato per un avvenimento inatteso: la morte nel 1705 del fratello Giovanni, che dal 1677 aveva intrapreso a Roma una carriera ecclesiastica assai promettente. Fu con una certa riluttanza che Alamanno si rassegnò a raccogliere il testimone del fratello, dietro insistenza della famiglia che sperava di vederlo cardinale, come Giovanni sembrava destinato a essere se non fosse stato per la scomparsa prematura. Partì dunque per Roma, dove prese stanza a palazzo Salviati, in via della Lungara. La residenza apparteneva da poco al fratello Antonino, che l’aveva ereditata dal duca Anton Maria Salviati, ultimo rappresentante del ramo romano della famiglia. Il palazzo gli sarebbe servito come punto d’appoggio per tutti i successivi soggiorni a Roma.
Nel 1707 ricevette la tonsura e gli ordini minori, che ne facevano un chierico a tutti gli effetti. Ottenuta la dignità di protonotario apostolico, fu incaricato da Clemente XI di andare a offrire le tradizionali fasce benedette dal papa al nipote di Luigi XIV, il duca di Bretagna, della cui nascita era appena giunta notizia. Di fatto non si mise in viaggio prima di marzo 1708, per arrivare a Parigi il 6 giugno successivo. Per via di certe complicazioni di ordine politico e non, dovette aspettare fino a novembre per essere ricevuto in udienza dal re e presentare i panni benedetti al duca di Bretagna, poi fino al 1710 per ottenere il congedo di Luigi XIV e l’ordine del papa di rientrare a Roma. Ma nel 1711 era ancora a Parigi: su richiesta del re e del cardinale di Noailles, arcivescovo di Parigi, il papa aveva acconsentito a prolungargli la nunziatura perché facesse da mediatore nelle controversie sull’interpretazione della bolla Vineam Domini Sabaoth, del 1705, che condannava ancora una volta il giansenismo. A giudicare dalla grande soddisfazione manifestata dal papa e prima di lui dal re e dal cardinale di Noailles, l’intervento doveva aver avuto un certo successo.
Il buon esito della missione spiega probabilmente perché, anziché rientrare a Roma come si aspettava, Salviati fu inviato nel settembre 1711 ad Avignone, non in qualità di legato (la funzione era stata abolita nel 1691) ma di vicelegato, investito comunque all’atto pratico di tutti i poteri di un legato. Ricoprì la carica fino al 1717, rivelandosi buon amministratore e guadagnandosi l’affetto dei sudditi affidatigli dal papa.
Ad Avignone ebbe occasione di ritrovare Giacomo Edoardo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra, che aveva già conosciuto a Parigi e che nutriva per lui una stima particolare. Nell’autunno del 1717, insieme all’autorizzazione di Clemente XI a stabilire la propria corte a Pesaro e poi a Urbino, Giacomo Edoardo ottenne anche la nomina di Alamanno a presidente della legazione di Urbino con poteri di legato a latere. Salviati, che a quanto sembra aveva abbracciato appieno la causa giacobita, fece di tutto per favorire il pretendente e per rendere il più piacevole possibile la sua permanenza a Urbino, nel palazzo granducale che condivideva con lui. Sapendolo appassionato di teatro e musica, nella primavera del 1718 organizzò a palazzo la rappresentazione di due oratori, l’uno il 26 marzo e l’altro il 6 aprile, per l’esecuzione dei quali non esitò a convocare i cantanti più in voga del momento, tra cui il celebre Domenico Tempesti da Roma. Furono queste con ogni probabilità le sue ultime iniziative in tal senso, visto che nell’autunno del 1718, sopportando male il freddo dell’inverno urbinate, Giacomo Edoardo e la sua corte si trasferirono definitivamente a Roma. Quanto a Salviati, sarebbe rimasto a Urbino a esercitare le funzioni di presidente della legazione fino al 1728.
Nel frattempo il pretendente al trono d’Inghilterra, la famiglia Salviati e tutti i numerosi ammiratori di Alamanno non potevano che domandarsi come mai non avesse ancora ottenuto la porpora cardinalizia, dopo tutti i servizi resi alla S. Sede e in particolare a Clemente XI. In una lettera del 1718, Giacomo Edoardo supplicava umilmente il papa di accordare alla famiglia Salviati e al suo buon amico il presidente della legazione di Urbino gli onori a cui a giusto titolo ambivano. Ma fu solo nel 1730, grazie a Benedetto XIII, che Salviati fece il suo ingresso nel Sacro Collegio. Solo pochi mesi dopo l’elevazione, il nuovo papa Clemente XII lo nominò prefetto della Segnatura di giustizia. Gli restava ormai poco tempo per godere degli onori conseguiti.
Al termine di una lunga malattia, morì a Roma il 16 febbraio 1733. Secondo le sue ultime volontà, i funerali si svolsero nella chiesa di S. Maria in Aracoeli, suo titolo cardinalizio, ma le spoglie furono trasportate a Firenze per essere sepolte in S. Marco, nella cappella di S. Antonino eretta dalla famiglia Salviati nel XVI secolo.
Alla sua morte lasciò un’imponente biblioteca, intorno ai 4000 titoli, che riflette innanzitutto la sua grande passione per la letteratura antica e moderna, la filosofia e la storia, ma anche un vivo interesse per le grandi querelles contemporanee tra giansenisti, quietisti e gesuiti. Il fatto che il 61% dei volumi in suo possesso fosse in lingua francese testimonia dell’attenzione con cui seguiva tali dibattiti, oltreché del suo attaccamento alla Francia e alla cultura francese.
Fonti e Bibl.: Pisa, Biblioteca della Scuola normale superiore, Archivio Salviati, Filze, I, 150, f. 33: Inventarium bonorum...; Archivio segreto Vaticano, Fondo Albani, 127, passim; 166, c. 149; Fondo Borghese, IV, 262, c. 83r; 277-278; Carte Salviati, 80: Ristretto della vita...; Fondo Salviati, 33-38.
L. Cardella, Memorie storiche de’ cardinali della Santa Romana Chiesa, VIII, Roma 1784, pp. 242-244; G.B. Zannoni, Breve storia dell’Accademia della Crusca dalla sua fondazione sino a tutto il marzo del 1817, Firenze 1819, pp. LXXIV-LXXXVI, CIV; S. Andretta, Clemente XI, papa, in Dizionario biografico degli Italiani, XXVI, Roma 1982, pp. 302-320; P. Hurtubise, Une famille-témoin: les Salviati, Roma 1985, ad ind.; C. Weber, Legati e governatori dello Stato Pontificio, 1550-1809, Roma 1994, pp. 135, 419, 888; E. Corp, The Jacobites at Urbino. An exiled court in transition, Basingstoke 2009, pp. 19 s., 23, 25, 37-39, 41, 56, 80-86.