Resnais, Alain
Regista cinematografico francese, nato a Vannes (Morbihan) il 3 giugno 1922. Nei suoi film si manifesta un'insaziabile volontà di sperimentare modi e forme inerenti tanto al racconto cinematografico e al valore della parola, quanto al senso dello spazio e del tempo filmici, rigorosamente incardinati sia nel montaggio sia nella fluidità dei movimenti di macchina. Inconfondibili e assolutamente moderne risultano le sue architetture visive, basate sul gioco della memoria e sull'intersecarsi del tempo psicologico con le metamorfosi collettive della storia. Sviluppatosi nella temperie culturale segnata dalla Nouvelle vague cinematografica e dal Nouveau roman letterario, il suo è stato un contributo intellettuale a tutto tondo, riconosciutogli da numerosi premi, tra cui il Leone d'oro ottenuto due volte alla Mostra del cinema di Venezia, per L'année dernière à Marienbad (1961; L'anno scorso a Marienbad) e per il complesso della carriera nel 1995, il Gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes del 1981 per Mon oncle d'Amérique, noto anche come Les somnambules (1980) e, da ultimo, l'Orso d'argento alla carriera conferitogli nel 1998 al Festival di Berlino.
Cresciuto in una famiglia della piccola borghesia di provincia (il padre era farmacista), R., a causa della salute cagionevole, trascorse un'adolescenza fatta di letture e fantasticherie, immerso nei fumetti americani e nei romanzi d'appendice di H. Dickson, ma anche nelle pagine di M. Proust. Si modellava così, nella suggestione dei paesaggi bretoni del Morbihan, la sua inclinazione fantastica e nasceva precocemente, all'età di tredici anni, la sua passione per il cinema. Con una 8 mm girò i suoi primi film amatoriali e nel 1940 si trasferì a Parigi, spinto da un'altra delle sue passioni, il teatro, per seguire i corsi di recitazione di René Simon. Ben presto però, nel 1943, si iscrisse all'IDHEC per studiare cinema. Si dedicò poi alla fotografia, lavorò nella pubblicità, girò alcuni cortometraggi in 16 mm (nel 1946 Schéma d'une identification, con un giovanissimo Gérard Philipe, e Ouvert pour cause d'inventaire, con Danièle Delorme) e si appassionò alla pittura, o meglio al processo creativo dei pittori, cui dedicò una serie di brevi documentari come Visite à Lucien Coutaud, Visite à Félix Labisse, Visite à Hans Hartung, tutti del 1947. Contemporaneamente lavorò anche come montatore. L'occhio della cinepresa che penetra nel paesaggio immaginario della pittura, così come in quello architettonico e naturale, o che si addentra lungo le tracce labirintiche di palazzi, giardini, biblioteche che diventano metafore della mente umana e del suo procedere fantastico: tutto questo era già presente nelle prime prove documentaristiche del regista. Si susseguirono così Les jardins de Paris (1948); Châteaux de France (1948); Van Gogh (1948); Gau-guin (1950); Les statues meurent aussi (1953), excursus sull'arte africana realizzato con Chris Marker; Toute la mémoire du monde (1957), una ricognizione nei meandri della Bibliothèque nationale di Parigi borgesianamente assimilata a un cosmo fatto di impalpabile memoria; e infine Le chant du styrène (1958), esplorazione documentaristica della musicalità e del ritmo lavorativo di una fabbrica (le officine Péchiney) per il cui commento R. chiamò Raymond Queneau, dando inizio a quella che sarebbe diventata una sua predilezione e cioè la scelta di uno scrittore quale collaboratore privilegiato di ogni suo film. Ma il documentario più significativo di questo periodo è Nuit et brouillard (1955; Notte e nebbia), una sorta di requiem sui campi di sterminio nazisti, che unisce carica emozionale e analitica costruzione linguistica, intercalando passato e presente, memoria e storia, straziante icasticità delle immagini e flusso di coscienza, sulla base di un testo scritto da Jean Cayrol, testimone diretto di quelle atrocità.
Cayrol, come Marker faceva parte di un gruppo di cineasti e scrittori della Parigi di quegli anni, cui appartenevano anche Alain Robbe-Grillet e Marguerite Duras dalla cui collaborazione nacquero i primi due lungometraggi di R., Hiroshima, mon amour (1959) e, due anni dopo, L'année dernière à Marienbad, naturale prosecuzione dello stile visivo e della poetica della memoria dei documentari, in un fluire di echi della parola, del monologo e del dialogo che, dal fuori campo, si riversano negli interstizi e nelle cadenze del montaggio come nello scorrere continuo dei piani-sequenza. Nel primo caso la simmetria tra storia e memoria, luoghi lontani e momenti di vissuto psicologico si dispiega nelle linee geometriche dell'andirivieni temporale tracciato dal testo della Duras, che dà voce a una donna francese sospesa tra l'attualità del Giappone all'indomani dell'atomica, l'urgenza sentimentale e il deposito dei ricordi intimi e dolorosi nella Francia occupata dai tedeschi. Nel secondo caso la sperimentazione verbale di Robbe-Grillet si traduce filmicamente in uno stato di rêverie e di sovrapposizione tra immaginazione e realtà, ipotesi e ricordo, vissuto e sognato, che dà luogo a un viaggio fortemente ipnotico verso una dimora barocca e indecifrabile dove viene evocato e rinviato un appuntamento d'amore; ma questo evento si configura sempre più come un appuntamento con il destino e con i fantasmi che abitano la memoria della voce narrante.
Nei due film successivi R. si addentra nei conflitti della storia politica europea con un'indagine rivolta tanto alla memoria collettiva quanto alla ricostruzione del passato individuale: è una storia legata alla guerra d'Algeria e a una figura femminile quella di Muriel ou le temps d'un retour (1963; Muriel, il tempo di un ritorno), su soggetto di Cayrol; mentre è legata alla crisi di coscienza di un militante comunista spagnolo quella di La guerre est finie (1966; La guerra è finita), su sceneggiatura di Jorge Semprun. Questa sensibilità politica di R. lo indusse a partecipare non solo al film collettivo Loin du Viêtnam (1967; Lontano dal Vietnam), ma anche nel 1968 ai cinétracts militanti del Maggio francese; nello stesso anno, coadiuvato dallo scrittore Jacques Sternberg, diede forma estrema, in chiave fantascientifica, alle sue ossessioni basate sul sentimento interiore del tempo, immaginando in Je t'aime, je t'aime (1968; Je t'aime, je t'aime ‒ Anatomia di un suicidio) una sorta di 'macchina della memoria' in cui la mente del protagonista resta intrappolata, rivivendo di continuo frammenti del proprio passato. Nel 1972 R. partecipò (con Jacques Doillon e Jean Rouch) a L'an 01, un curioso documentario di viaggio a episodi di cui realizzò il segmento newyorkese; mentre nel 1973 ritornò con Stavisky (Stavisky il grande truffatore) a una riflessione sulla storia politica europea, stavolta ironicamente elegante nella ricostruzione delle ambiguità e degli intrighi del bel mondo degli anni Trenta, in cui si muove la figura dell'impostore impersonato da Jean-Paul Belmondo.Nel 1976 Providence ha compendiato in modo cristallino le costanti poetico-stilistiche del regista: ispirandosi, a partire da un testo di David Mercer, alle ossessioni di uno scrittore come H.P. Lovecraft, R. compone e scompone virtuosisticamente gli incubi fervidi e cupi di un letterato recluso in una dimora che somiglia alla tela di un ragno, intrecciando presente e passato in un film labirintico che restituisce le oscure motivazioni del processo creativo. Nei tre film successivi, sulla base di altrettante sceneggiature di Jean Gruault, R. ha condotto una meditazione sul caso e la necessità, sulla misteriosa ratio del destino umano, perennemente in bilico tra finitudine ed eternità, morte e rinascita. In Mon oncle d'Amérique ha imbastito, sulla scorta delle teorie del sociobiologo H. Laborit, un film-saggio che incastona attori, personaggi e spettatori in una specie di esperimento visivo e narrativo sulle interconnessioni delle azioni umane; in La vie est un roman (1983; La vita è un romanzo) ha costruito un film-puzzle che abbraccia epoche e spazi diversi in cui si dipanano, con un gusto sbrigliato dell'intreccio romanzesco, analogie immaginarie su utopie di palingenesi e desideri di immortalità; in L'amour à mort (1984) ha composto una sommessa partitura sulle conseguenze di un amour fou che, vincendo la morte, conduce a un rapporto oltre la vita.
Dopo Mélo (1986; Melò), irrisolta versione dell'omonimo dramma di H. Bernstein, in I want to go home (1989; Voglio tornare a casa!) R. si è abbandonato, su un soggetto di Jules Feiffer (autore di fumetti), a una stravagante tessitura corale sul confronto tra cultura europea e americana attraverso le ipocondrie di un anziano cartoonist, prima di realizzare con Smoking e No smoking (entrambi del 1993) la sua opera più ambiziosa e perfetta, composta da due film interconnessi tra loro. Sulla base di una lunghissima pièce di A. Ayckburn, R. applica l'arte combinatoria dei possibili tempi e avvenimenti paralleli a partire dalla decisione di accendere o meno una sigaretta e, in un vertiginoso gioco di specchi, moltiplica le storie che si biforcano in una logica di eventi visivi e narrativi rigidamente esemplificati, sottoponendo i due attori protagonisti, Sabine Azéma e Pierre Arditi, a un impegnativo tour de force nello scambio e nella mutazione continua dei ruoli.
Con On connaît la chanson (1997; Parole parole parole…) R. si è concesso la pausa di un divertissement, non derogando tuttavia all'intelligenza della drammaturgia che anche stavolta si inoltra nella complessità dei tempi interni alle psicologie dei personaggi, i cui casi umani trascorrono senza soluzione di continuità dai dialoghi alle parole di famose canzoni. Il gusto per la musicalità delle immagini, sempre presente in R. e a cui un documentario come Gershwin (1992) è in un certo modo consacrato, è diventato un gioco di ritmi visivi di impeccabile figuratività nel musical ambientato negli anni Venti Pas sur la bouche (2003), tratto dall'operetta di A. Bard e M. Yvain, che costituisce anche un omaggio a un cineasta amato da R. come Sacha Guitry.
B. Pingaud, Alain Resnais, Lyon 1961.
R. Armes, The cinema of Alain Resnais, London-New York 1968.
J. Ward, Alain Resnais, or the theme of time, Garden City (NY) 1968.
P. Bertetto, Alain Resnais, Firenze 1976.
R. Benayoun, Alain Resnais, arpenteur de l'imaginaire, Paris 1980.
F. Thomas, L'atelier d'Alain Resnais, Paris 1989.