GALLO, Alafranco
Figlio di un lanaiolo genovese, nacque con ogni probabilità nella città ligure nell'ultimo quarto del sec. XIII. Secondo le regole dell'onomastica genovese, ripeteva probabilmente il nome del nonno paterno; si spiegherebbe così il diminutivo Alafranchino (Alafrankinus), con cui lo troviamo citato in alcuni documenti. Le fonti non forniscono notizie che permettano di ricostruirne le parentele.
Come tradizione per i primogeniti delle famiglie artigiane, fu avviato alla stessa professione del padre: secondo le consuetudini, non dovette finire il periodo di apprendistato prima dei vent'anni. Solo allora - e dunque sullo scorcio del sec. XIII o agli inizi del sec. XIV - entrò a pieno titolo a far parte dell'arte dei lanaioli della sua città. In seguito, forse dopo un periodo di esercizio della professione al fianco del padre, unitosi in società con un certo Gabriele Noycolano, aprì un laboratorio in proprio, con lavoratori dipendenti.
In epoca precedente al 1322 si trasferì a Palermo, per esercitarvi, in qualità di "magister Artis lanificii", il suo mestiere. L'attività dovette rivelarsi fruttuosa, al punto da indurre il G. ad ampliarla, chiamando da Genova maestranze specializzate, con le quali, quand'era in patria, aveva avuto rapporti di collaborazione: il padre, il socio Noycolano, i lavoranti con le loro famiglie e l'attrezzatura necessaria. La qualifica di "magister bonus lanerie et tinctorie principaliter", che le fonti attribuiscono al suo socio, induce a ritenere che l'attività del G. si volgesse alla raffinazione di pannilani importati dall'estero piuttosto che alla tessitura, nella quale peraltro i lanaioli genovesi non eccellevano.
L'iniziativa del G. fu un vero e proprio trasferimento definitivo di interessi e di attività, che presupponeva la rinunzia a tornare in patria. Come consuetudine in simili casi, il G. si rivolse alle autorità locali - specificamente, all'Università di Palermo - per ottenere facilitazioni, esenzioni dalle imposte per sé e per i propri eredi, contributi per le spese di avviamento, locali adatti, garanzia di esercitare la propria arte senza concorrenti nella città di Palermo e nel suo distretto, per un periodo di otto anni. L'Università di Palermo, interessata a favorire il buon successo di un'attività che avrebbe portato vantaggi all'economia cittadina, accolse favorevolmente la richiesta e dette mandato a diversi giuristi di presentarla a corte. In forza di questo intervento, Federico II d'Aragona, il 2 apr. 1322, concesse al G. di esercitare la professione a Palermo. Tale atto venne confermato il giorno successivo da Pietro II, figlio del re e da lui associato al trono già dall'anno precedente. I sovrani accordavano al G. tutte le facilitazioni da lui richieste, compresa quella relativa alla concessione di locali per il suo laboratorio in città. Il 21 giugno 1322 il gabellotto Lorenzo de Finoculo venne incaricato di versargli 210 once d'oro per l'acquisto di un edificio adatto allo svolgimento della sua attività artigianale.
La comparsa del G. tra gli attori in diversi documenti notarili rogati a Palermo negli anni 1323, 1325 e 1327 fa supporre che la sua dimora in Sicilia sia stata stabile, anche se forse intervallata da occasionali ritorni in patria. Gli interessi economici dell'imprenditore genovese si radicarono a Palermo e non si limitarono alla sola produzione dei pannilani. Nel 1329 egli figurava infatti proprietario di una taverna della capacità di almeno 25 botti di vino, situata nel quartiere dei conciatori di Palermo, in contrada Abbeveratoio; detta taverna era affidata al conciatore palermitano Giovanni Vitello e, almeno per il periodo di alcuni mesi, a uno stipendiato, il palermitano Rainaldo di Napoli. Nello stesso anno il G. risulta interessato per grosse cifre anche al commercio del grano. Il 27 maggio 1329, infatti, ottenne dal sovrano il privilegio di esportare 6000 salme di frumento, pagando un dazio di 4 tarì la salma. Il 5 giugno, stante la situazione di carestia in atto nella città, si impegnò a versare 100 salme di grano a Oberto Aldobrandini e a Puccio Jacobini, per il prezzo di 12 tarì la salma: sarebbe stata sua cura caricare detto quantitativo di grano su diversi vascelli "in plagia terre Thermarum" e trasportarlo al porto di Palermo; qui avrebbe potuto imbarcare il resto della merce su una cocca e destinarlo al commercio di esportazione.
Il 23 giugno 1329 assunse al proprio servizio, per mezzo del suo "negotiorum gestor" Opizzinio Laurengo di Genova, un tagliatore di pietre, Fulcone de Salvo, palermitano, fino a tutto settembre, per la somma di 13 grani al giorno. Il contratto con Fulcone, di poco precedente la morte del G., potrebbe essere stato connesso con la necessità di provvedersi di un sepolcro, piuttosto che con un ulteriore allargamento dei suoi interessi economici. Allo stesso modo, i prestiti concessi dal G. ad alcuni conoscenti non sembrano di entità e frequenza tali da ritenere che egli si sia dedicato anche al cambio di denaro o all'usura.
Tale varietà di interessi, propria della mentalità degli imprenditori genovesi dell'epoca, spinse forse il G. a trascurare proprio l'attività nel settore dei pannilani, per la quale tanto si erano adoperati i magistrati palermitani. Prima ancora della scadenza degli otto anni concessigli per l'esclusiva dal privilegio del 1322 l'Università di Palermo deferì il G. alla Regia Curia, con l'accusa di essersi appropriato, per fini diversi da quelli concordati, delle 200 once assegnategli per acquistare un locale da adibire a opificio per la produzione dei pannilani. La causa, affidata a Senatore de Mayda e a Biagio Salimbeni, si risolse in favore dell'accusato; il 13 genn. 1329 l'Università di Palermo dette mandato al tesoriere Colo Masca di versare un somma di denaro al giudice Saladino de Sergio, inviato in rappresentanza presso il sovrano per discutere riguardo alla causa d'appello.
Non mancano, comunque, nelle fonti note, riferimenti a una continuazione dell'attività del G. nel campo dei pannilani, anche se relativi a contratti di vendita più che a una produzione propria. A dare conferma indiretta del fatto che egli proseguisse la sua attività nel campo artigianale è la conoscenza del mestiere di lanaiolo da parte di un suo ex schiavo, Giovanni, un greco di Romania, che il 1° giugno 1332, come liberto dei figli del G., accettava di prestare per alcuni mesi la propria opera al servizio del palermitano Bernardo della Capraia.
Pur restando in contatto con personaggi di origine genovese, come il suo "negotiorum gestor" Opizzinio Laurengo, il G. ottenne la cittadinanza palermitana tra il 1324 e il 1327.
Morì tra il 26 giugno e il 26 ag. 1329, lasciando la moglie Luchina, di origine non precisata, e alcuni figli in minore età: Caterina, Antonino, Domenichino, Niccolò Andreolo. Tra il 1331 e il 1332, alla morte di Luchina, la cura degli interessi degli eredi del G. passò al mercante palermitano Simone Aldobrandini.
Fonti e Bibl.: M. de Vio, Felicis et fidelissimae urbis Panormitanae selecta… privilegia per instrumenta varia Siciliae a regibus sive proregibus collata, Panormi 1706, pp. 82 s., 149 s.; G. Pipitone Federico, Di un lanificio palermitano della prima metà del secolo XIV, in Arch. stor. siciliano, n.s., XXXVII (1912), p. 313; C. Trasselli, Tessuti di lana siciliani a Palermo nel XIV secolo, in Economia e storia, III (1956), pp. 314 s.; A. Costa, A. G. laniere genovese in Palermo nel secolo XIV, in Archivio storico per la Sicilia orientale, LXXVII (1981), 3, pp. 385-415.