ALACHI (Alahis, Alexus)
Longobardo, duca di Trento, intorno al 678, dopo avere attaccato e sconfitto il conte dei Bavari, signore di Bolzano e dei castelli circostanti, insorse contro il re Bertarido, asserragliandosi nella città di Trento. Bertarido, prontamente accorso, fu messo in fuga da un'improvvisa sortita degli assediati; porgendo poi ascolto ai consigli del figlio Cuniberto, che era stato amico del ribelle, il re riaccolse A. nella sua grazia e tentò di guadagnarsene la riconoscenza col concedergli in più il ducato di Brescia.
Morto Bertarido (intorno al 688), A. insorse nuovamente contro il potere centrale. Questa volta, egli aveva con sé due nobili bresciani, i fratelli Aldo e Grauso, e molti altri Longobardi. Cogliendo l'occasione da un'assenza del re Cuniberto, A. si impadronì con un colpo di mano della capitale Pavia, installandosi nel palazzo regio. Il re corse allora a rifugiarsi nell'isola Comacina, bene adatta alla difesa e situata inoltre sulla via della Baviera, donde poteva attendere qualche soccorso. Intanto, a Pavia, A. dava sfogo ai suoi umori, facendosi paladino, contro la tendenza impersonata da Cuniberto e da suo padre, di quella parte della nazione longobarda che non si rassegnava a veder cadere, una dopo l'altra, le tradizioni nazionali, ivi comprese quelle religiose, che erano allora particolarmente battute in breccia. In un diploma del 30 luglio 883, l'imperatore Carlo il Grosso confermerà al vescovo di Bergamo il possesso di una chiesa che, donata a un suo predecessore da re Grimoaldo subito dopo essere stata trasferita dal culto ariano a quello cattolico, era stata usurpata da "Alais rex tempore tyrannidis suae" (Böhmer-Mühlbacher, Regesta Imperii, I, Innsbruck 1908, nn. 1671-1672, p. 696).
Secondo Paolo Diacono, il destino di A. fu segnato quando una sua frase minacciosa nei confronti di Aldo, riferita da un suo figliuolo, spinse i due fratelli bresciani a provocare con un pretesto l'allontanamento del ribelle da Pavia (lo avrebbero consigliato di concedersi lo svago di una partita di caccia) e a recarsi nell'isola Comacina, per fare atto di sottomissione al re e concordarne il ritorno. Il giorno stabilito, Cuniberto rientrò a Pavia, festeggiatissimo dal popolo e - soprattutto - dal clero, con il vescovo Damiano in testa. Sorpreso dal rovesciamento della situazione, A. non si diede per vinto: attraverso Piacenza, si diresse verso oriente, dove, con le buone o con le cattive, ottenne l'adesione di molte città, fra cui Vicenza e Treviso. Quanto ai Friulani, che Cuniberto aveva mobilitati, A. li intercettò al ponte della Livenza, nella selva di Capulano, mentre si dirigevano alla spicciolata verso Pavia, e, dopo essersi fatto prestare un giuramento di fedeltà, li aggregò senz'altro all'esercito che andava raccogliendo.
Lo scontro decisivo avvenne a Coronate, sull'Adda. Il duca di Trento scese in campo "cum omni Austria", ma il suo esercito comprendeva elementi di diversa provenienza, come quel guerriero "genere Tuscus", che cercò invano di persuaderlo ad accettare la sfida per un duello, che Cuniberto gli aveva rivolto prima dell'inizio della battaglia. A Coronate, del resto, non si affrontavano due province del regno, ma "due modi di concepire il fine stesso della patria": contro Cuniberto e la collaborazione con Roma erano schierati insieme quanti intendevano mantenersi fedeli alle tradizioni del popolo longobardo, antiche (paganesimo, arianesimo) o anche relativamente recenti (scisma tricapitolino; cfr. Bognetti, pp. 235 s.).
Cominciata la battaglia, l'uccisione per mano di A. di un diacono della Chiesa pavese, che aveva chiesto ed ottenuto da Cuniberto di indossare la sua armatura in modo da sviare i colpi degli avversari, servì di pretesto al duca di Trento, quando si fu reso conto dell'inganno, per prorompere in uno dei suoi sfoghi contro il clero. Dopo un vantaggio iniziale, A. rifiutò ancora, durante una pausa, l'invito di Cuniberto per un duello. Riaccesasi la mischia, il duca 'cadde ucciso, determinando con ciò lo sbandamento e la fuga dei suoi. Conformemente alla sorte che, a quanto sembra, i Longobardi, fino dal tempo precedente alla loro venuta in Italia riservavano ai traditori, la testa e le gambe di A. furono amputate dal tronco. I Friulani, che A. aveva reclutati nel modo singolare che s e visto, non presero parte alla lotta. Sul luogo della battaglia, Cuniberto eresse un monastero, o più probabilmente, una chiesa, in onore di S. Giorgio (Pauli Diaconi Historia, 1. VI, c. 17; cfr. R. Beretta, Di alcune chiese di Coronate e Porto d'Adda, in Arch. stor. lombardo s. 5, X [1923], pp. 226-229). Un passo del Carmen de synodo Ticinensi ricorda fra i meriti di re Cuniberto la ricostruzione di Modena, che era stata semidistrutta, come parrebbe dal contesto, nel corso della seconda sollevazione di Alachi.
Fonti e Bibl.: Pauli Diaconi Historia Langobardorum, a cura di G. Waitz, in Monumento Germ. Hist., Scriptores rer. Germanicarum ad usum scholarum, Hannoverae 1878, pp. 200-207 e 219; Carmen de synodo Ticinensi, ibid., p. 246; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, II, 1, Gotha 1900, pp. 266 s. e 278 n. 19; G. P. Bognetti, Milano Longobarda, in Storia di Milano, II, Milano 1954, pp. 220-221 e 234-237.