AḤĪQĀR (Achikar, Achiacar, \ebraico\)
Protagonista di un celebre racconto orientale di carattere eticodidattico, diffuso in nu. merosissime versioni presso varie letterature, il quale costituisce uno dei più antichi e tipici esempî della letteratura gnomica e della favola-apologo. L'argomento del racconto, secondo la versione siriaca, una delle più antiche e complete, è il seguente: Aḥīqār, saggio consigliere e ministro dei due re di Assiria Sennacherib e Asarhaddon, lascia la propria carica, divenutagli grave per l'età avanzata, al proprio nipote e figlio adottivo Nadan, e gl'impartisce una serie di ammonizioni per il retto esercizio del suo ufficio (prima serie di sentenze). Ma l'ingrato Nadan lo calunnia presso il re, il quale ordina al capo dei carnefici di mettere a morte Aḥīqār; egli tuttavia lo risparmia e lo nasconde, uccidendo in sua vece uno schiavo che si trovava in prigione. Dopo breve tempo il re d'Egitto manda a proporre al re d'Assiria una difficile impresa, quella di fabbricare un castello sospeso nell'aria, offrendogli tributo se la sappia compiere, esigendolo da lui, se invece fallisca; il re d'Assiria si affligge di aver mandato a morte il suo fedele consigliere Aḥīqār, ma si rallegra quando il capo dei carnefici gli svela che è ancora in vita, e lo spedisce in Egitto, dove il sapiente e astuto ministro risponde a tutti i quesiti enigmatici ed elude tutte le insidie del re d'Egitto e dei suoi consiglieri, e finalmente li confonde a proposito del castello aereo (fa salire in aria dei fanciulli a cavallo di aquile da lui prima ammaestrate, e ordina loro di gridare dall'alto agli Egiziani che portin loro lassù mattoni e calce per la costruzione dell'edificio; e poiché gli Egiziani rispondono che non sono in grado di farlo, Aḥīqār replica che, in tal caso, non può fabbricare il castello richiesto...). Tornato in patria e ricolmo di onori, Aḥīqār ottiene che l'ingrato Nadan sia legato davanti alla porta di casa, e ogni giorno, uscendo e rientrando, gli si ferma innanzi e lo rimprovera e ammonisce per mezzo di detti morali e di apologhi (seconda serie di sentenze); alla fine Nadan, esasperato dall'umiliazione inflittagli, muore di rabbia.
Che questo racconto dovesse risalire ad un'età piuttosto antica, era opinione generale, specialmente dopo le profonde indagini dello Smend (v. bibliografia), il quale aveva insistito sull'importanza di due fatti: le allusioni ad Aḥīqār e a Nadan nel libro di Tobia, che è certamente non posteriore al sec. II a. C. (nel testo greco e nelle antiche versioni latine, con frequenti corruttele dei nomi; nella Vulgata il nome, corrotto in Achior, è citato una sola volta, XI, 20) e le sorprendenti concordanze tra molti degli apologhi del libro di Aḥīqār e le favole esopiche, nonché tra la parte narrativa del primo e la Vita Aesopi, concordanze che rivelano piuttosto una dipendenza dei testi greci da quelli orientali che non l'inverso. Molto più addietro si sarebbe potuto risalire, se fosse stata riconosciuta come autentica la notizia data da Clemente alessandrino (Stromat., I, 15, 69; cfr. H. Diels, Fragm. der Vorsokratiker, 4a ed., II, Berlino 1922, pp. 122-23), che il filosofo greco Democrito (470-370 a. C.) avesse "incorporato nelle sue opere la stele di Achikaros" (allusione a un testo epigrafico del racconto?). Ma tale notizia era in genere ritenuta apocrifa. Senonché, nel 1907, furono scoperti tra i papiri giudeo-aramaici di Elefantina cospicui frammenti di una redazione aramaica del libro di Aḥīqār risalente al sec. V a. C. (pubblicata dal Sachau in Aramäische Papyri und Ostraka aus Elephantine, Lipsia 1911), e tale scoperta metteva in luce del tutto nuova il problema relativo a quest'ultimo. Esso si rivelava una delle più antiche produzioni del genere narrativo e gnomico del mondo semitico, strettamente congiunta, per quanto riguarda la parte sentenziosa, col libro biblico dei Proverbî, e probabile fonte, per alcune sentenze, dell'Ecclesiastico di Gesù Siracide. D'altra parte veniva confermata l'ipotesi, già emessa precedentemente su fondamenti peraltro non sicuri, dell'origine orientale della favola greca.
Il libro di Aḥīqār presenta la forma tipica del romanzo orientale: è redatto in forma autobiografica, come l'antichissimo romanzo egiziano di Sinühe, forma stilistica che sembra calcata sul modello degli annali dei re, delle grandi iscrizioni sepolcrali e delle memorie storiche sul tipo di quelle che la Bibbia ha conservate nei libri di Esdra e di Nehemia, e che si ritrova più tardi nel libro di Tobia; affine ad essa è l'uso della persona prima nei racconti che inquadrano gli oracoli dei libri profetici della Bibbia e nelle visioni apocalittiche. Ma specialmente caratteristica è la disposizione dell'opera, nella quale la parte narrativa adempie la funzione d'inquadrare la serie delle sentenze e degli apologhi che costituiscono la parte essenziale, lo scopo precipuo dello scritto. Questa disposizione si ritrova, più o meno rigidamente osservata ma sempre riconoscibile, in alcuni libri biblici (non soltanto nel già citato Tobia, ma anche in Gobbe, e qualche cosa di analogo si osserva nell'Ecclesiaste) e in quasi tutte le raccolte di sentenze e di novelle orientali. Poiché molte di queste ultime (valga per tutte la novella proemiale delle Mille e una notte) sono sicuramente di origine indiana, mentre il libro di Aḥīqār è sorto in territorio semitico, si pone il problema, non ancora indagato a sufficienza, di eventuali antichissimi rapporti tra la novellistica indiana e quella semitica; a sospettare tali rapporti inducono anche analogie di contenuto: la storia del saggio consigliere che il re scaccia e condanna in seguito ad accuse calunniose, e il cui allontanamento è poi causa di pericoli e di sciagure per il re stesso, si ritrova frequente, come è noto, anche in India. Finalmente il libro di Aḥīqār offre un esempio cospicuo della letteratura "sapienziale", in cui si esprime una concezione etica della vita non legata all'osservanza di una particolare legge religiosa né ispirata a una volontà di rinnovamento dei valori spirituali (quali si constatano nel giudaismo legalistico la prima, nel profetismo e nel cristianesimo nascente la seconda), ma fondata sul riconoscimento rassegnato, e non scevro talora di scetticismo, della realtà, volta a dare norme e consigli efficaci per la pratica quotidiana, tendente con prudenza al conseguimento di una felicità moderata e tranquilla; il che si suol chiamare, in una parola, la "morale borghese". Questa "Sapienza" è largamente penetrata nel mondo ebraico (probabilmente già nell'età anteriore all'esilio di Babilonia), ed ha lasciato tracce di sé in alcuni libri dell'Antico Testamento quasi tutti attribuiti al re Salomone, in cui la tradizione ebraica vide il rappresentante massimo di siffatta concezione (v. E. Sereni, Il libro di Tobia, nella rivista Ricerche religiose, IV e V 1928 e 1929); ma essa non è di origine specificamente ebraica, ché anzi la Bibbia stessa la riconosce negli Egiziani e nei "sapienti dell'Oriente". Si tratta dunque di un prodotto della mentalità semitica indipendente dallo sviluppo religioso israelitico e giudaico; come tale, il suo valore per la storia della coltura è inestimabile.
Il romanzo di Aḥīqār, nella forma più antica che ci è consentito cogliere, è stato certamente redatto in ambiente aramaico sotto l'influsso almeno formale della civiltà assiro-babilonese, il quale si rispecchia nella forma dei nomi proprî (Aḥyaqar, Nādin, come sembra debba leggersi nei papiri) e nella rappresentazione, genuina benche mista di elementi romanzeschi, della corte assira. Poiché il re Asarhaddon vi è già rappresentato col tipo convenzionale del despota orientale, collerico e capriccioso, ma capace di pentimento e di generosità, il romanzo deve essere stato composto alquanto tempo dopo di lui; ma poiché, d'altra parte, esso era già diffuso nel sec. V a. C., la data della composizione sarà da assegnarsi al VI: non è escluso, naturalmente, che il tema stesso del racconto e la parte gnomica siano anche più antichi.
La diffusione del libro di Aḥīqār è stata così vasta, che Edoardo Meyer ha potuto chiamarlo con ragione "il libro più antico della Ietteratura internazionale": oltre la già citata notizia sulla sua traduzione da parte di Democrito (forse non autentica), si ha la menzione di un libro intitolato 'Ακίχαρος composto da Teofrasto (Diog. Laert., V, 50: il Nöldeke [v. bibliografia] lo crede tuttavia apocrifo) ed anche la menzione di 'Αχαΐκαρος presso Strabone (XVI, 2, 39, p. 762), che dipende quasi sicuramente da Posidonio. Sentenze di Aḥīqār si trovano fra i detti attribuiti a Menandro, sia nella redazione greca, sia in quella siriaca, e si è già visto che la Vita Aesopi non è in gran parte se non un rifacimento del nostro romanzo. Un mosaico romano di Treviri, in cui tra i sapienti famosi raffigurati a fianco delle Muse si trova, accanto a Polinnia, la figurazione e il nome di [Ac]icar, segna il più lontano lembo del mondo classico dove si riscontri l'eco della fama del saggio orientale (il Nöldeke ritiene che il committente del mosaico, Monnus, sia un siro, e che il suo nome corrisponda al siro-arabo Manu). In Oriente la diffusione del romanzo è attestata, oltre che da tracce dell'influenza di singole sentenze in opere di vario genere (p. es., nel Talmūd, nelle raccolte di tradizioni religiose [ḥadīth] musulmane, ecc.), da molteplici versioni, nelle quali naturalmente tanto la parte narrativa quanto, e più, quella gnomica hanno subito modificazioni e ampliamenti, non mai tuttavia sostanziali. La prima e più completa versione è quella siriaca, conservata in varie redazioni anche in dialetti neo-siriaci moderni, nella forma più antica della quale il Noldeke ha mostrato il persistere di tracce di politeismo, e che quindi è da assegnarsi a un'età anteriore alla penetrazione del cristianesimo in Siria (sec. II d. C.). Da essa dipendono le versioni armena (dove il nome del protagonista è deformato in Chikar), slava (Akyrios), romena (Arkirie), la prima direttamente, le altre indirettamente. Anche in arabo si hanno testimonianze antiche della notorietà di Aḥīqār, anche se esso non debba essere messo in diretto rapporto, come alcuni vogliono, con la storia del saggio Loqmān che sembra piuttosto dipendere dalla redazione greca della storia di Esopo. Il Nöldeke ha trovato citato il nome dell'eroe del romanzo, nella forma al-Haīqār (\arabo\), in un verso di un poeta preislamico, ‛Adī ibn Zaid, in cui tuttavia il saggio ministro è trasformato in un potente sovrano, signore di eserciti (si può del resto dubitare dell'autenticità del verso). Un'altra notizia, rimasta ignorata finora (nel grande lessico Tāǵ al-‛arūs, III, 186, lin. 10 dal basso), ci attesta che al-Ḥaīqār fu inserito dagli antiquarî arabi del sec. II dell'ègira nel sistema genealogico delle tribù arabe e trasformato in un discendente di Ma‛add, il capostipite di uno dei maggiori gruppi etnici arabi. Una versione araba completa, certamente derivata dal siriaco, si ha poi in appendice alle edizioni delle Mille e una notte pubblicate dai gesuiti di Beirut, e anche isolata; anche in essa il nome del protagonista ha la forma al-Ḥaiqār. Tradotte dall'arabo sono altresì, senza dubbio, le quindici sentenze di Aḥīqār (Ḥēqar) in versione etiopica, inserite nella raccolta gnomica Maṣḥafa falāsfa ṭabībān (Il libro dei filosofi sapienti). Finalmente, un influsso della storia di Aḥīqar pare riscontrarsi anche in un racconto del poerna persiano Shāhnāmah di Firdūsī (v.), protagonista del quale è il leggendario ministro Buzurǵmihr, ed in cui i sovrani di Assiria e di Egitto sono trasformati in quelli di Persia e dell'India.
Bibl.: J. Rendel Harris, The story of Aḥiḳar from the Syriac, Arabic, Armenian, Ethiopic, Greek and Slavonic versions, 2ª ed., Londra 1821 (con la collaborazione di F. C. Conybeare e A. Smith Lewis); R. Smend, Alter und Herkunft des Ahikarromans und sein Verhältnis zu Äsop, Giessen 1908 (Beihefte zur Zeitschrift für die alttestamentliche, Wissenschaft, XIII); F. Nau, Histoire et sagesse d'Ahikar l'Assyrien..., Parigi 1909; E. Meyer, Der Papyrusfund von Elephantine, 2ª edizione, Lipsia 1912, pp. 102-128; Th. Nöldeke, Untersuchungen zum Achiqar-Roman, Berlino 1913 (Abhandlungen dell'Accademia di Gottinga, cl. fil.-stor., n. s., XIV, 4).