PIPIA, Agostino
PIPIA, Agostino. – Nacque a Seneghe, nell’Oristanese, il 1° ottobre 1660, da umile famiglia.
Compì gli studi di retorica e filosofia a Oristano, nel convento di S. Domenico e, il 14 gennaio 1667, vestì l’abito domenicano nel convento di S. Martino di Oristano. Segnalatosi già in giovanissima età per le sue attitudini intellettuali, si trasferì a Palma di Maiorca per proseguire gli studi, dal momento che in Sardegna non esistevano studia generalia. A Palma si addottorò in teologia e, il 22 settembre 1682, si affiliò al locale convento domenicano, che svolgeva anche la funzione di università.
La sua solida preparazione teologica e dottrinale lo portò ad assumere, ancora giovane, il ruolo di primo lettore. Improntò il suo insegnamento a una rigorosa ortodossia tomista, che implicava uno studio diretto delle fonti di s. Tommaso.
Nel 1694 partecipò a Roma al capitolo generale dell’ordine e si segnalò all’attenzione del maestro generale dell’ordine, Antonin Cloche, che lo nominò reggente di S. Maria sopra Minerva. Dopo la fondazione della Biblioteca Casanatense (1700), affidata per lascito testamentario alla gestione dei domenicani, fu designato come membro del collegio di sei teologi incaricati di operare presso la biblioteca e promuovere, con gli studi e gli scritti, la difesa della Chiesa cattolica. Si stabilì dunque presso il convento della Minerva, il principale centro domenicano di Roma, adiacente alla stessa Biblioteca Casanatense e sede delle principali gerarchie dell’ordine. Pur essendo ritenuto buon teologo, non risulta aver lasciato alcuna opera.
Consultore della congregazione dell’Indice, ne fu segretario dal 1711 al 1721, trattando molti dossier delicati, tra cui l’esame delle tragedie di Gianvincenzo Gravina. In questa veste, ottenne anche la carica di docente di fisica presso l’Università di Roma. Nel 1712-13 partecipò all’esame delle 155 proposizioni estratte dalle Réflexions morales dell’oratoriano Pasquier Quesnel, massimo esponente del movimento giansenista. L’opera aveva profondamente diviso il cattolicesimo francese, spingendo Luigi XIV e il papa Clemente XI a promuovere una condanna definitiva di Quesnel e, più in generale, delle posizioni gianseniste. Nelle sue note di qualificazione, Pipia si allineò alla maggioranza dei teologi, favorevoli a una condanna delle proposizioni denunciate, pur senza rinnegare il proprio orientamento tomista, che affermò anche dopo la promulgazione della bolla Unigenitus (1713) e la condanna di Quesnel.
Il 31 maggio 1721 fu eletto maestro generale dell’ordine domenicano, carica che mantenne fino al 19 maggio 1725. Nella fase in cui resse l’ordine si impegnò soprattutto per difenderne l’autonomia e si schierò decisamente contro il giansenismo, che trovava qualche simpatia in diverse frange dei domenicani. Allo stesso tempo, però, nel capitolo generale del 1721 Pipia riaffermò la centralità della dottrina tomista e l’obbligo per tutti i domenicani di osservarla specialmente in materia di dottrina della grazia, contrapponendosi così al molinismo in nome di una difesa delle tradizioni teologiche dell’ordine domenicano.
Con l’elezione al papato di Benedetto XIII, nel maggio 1724, si aprirono a Pipia più ampie prospettive. Il nuovo pontefice, domenicano come lui, lo nominò cardinale il 20 dicembre 1724 e, contestualmente, gli assegnò il vescovato di Osimo, che tenne fino al gennaio 1726. Durante il suo breve governo episcopale, Pipia trascorse a Osimo solo pochi mesi e, nell’autunno 1725, avviò una visita pastorale.
Il rapporto con Benedetto XIII consentì anche a Pipia di difendere e promuovere le opzioni teologiche dei domenicani. Già il 14 novembre 1724 ottenne da Benedetto XIII il breve Demissas preces, per dichiarare che la bolla Unigenitus non pregiudicava gli insegnamenti delle scuole agostiniana e tomista in materia di grazia e di predestinazione. Si trattava di una presa di posizione importante, che tuttavia non riuscì a sanare i contrasti tra le frange dei domenicani più critiche della Unigenitus e le posizioni teologiche dei gesuiti.
Nel corso del 1725 partecipò al Concilio romano (aprile-maggio), indetto da Benedetto XIII per rilanciare la prassi sinodale, segnalandosi per numerosi interventi, e fu membro di una congregazione cardinalizia incaricata di trattare con il cardinale arcivescovo di Parigi, Louis-Antoine de Noailles, la sua accettazione della bolla Unigenitus e la ritrattazione di alcuni suoi scritti filogiansenisti.
Pur rimanendo esterno al discusso gruppo di governo che attorniava l’anziano pontefice, Pipia giocò un ruolo di qualche rilievo nella politica ecclesiastica di Benedetto XIII, in particolare nella complessa vertenza del rapporto tra la S. Sede e i Savoia.
Essendo l’unico cardinale proveniente dai territori del Regno di Sardegna, il governo sabaudo lo individuò come interlocutore nell’aspra diatriba che si era aperta con il papato nel 1720, quando Clemente XI aveva rifiutato di riconoscere ai Savoia l’assegnazione della Sardegna e, conseguentemente, il diritto di nomina alle sedi vescovili dell’isola. La situazione era rimasta irrisolta fino al 1724, quando la S. Sede aprì a una trattativa che si concluse con il riconoscimento del titolo regio a Vittorio Amedeo II, nel dicembre 1726, e con il concordato del 1727.
A Pipia fu richiesto di cooperare all’accordo dal governo sabaudo, che, proprio per questo motivo, favorì il suo rientro dalla diocesi di Osimo a Roma, offrendogli una pensione di 3000 scudi e quattro prebende canonicali della cattedrale di Cagliari, in maniera da indennizzarlo della perdita delle risorse della mensa vescovile di Osimo. Nonostante queste dotazioni, Pipia sarebbe tuttavia rimasto un cardinale povero, tanto che nel 1727 dovette chiedere il permesso di ritirarsi nel convento domenicano della Quercia (Viterbo), non potendo mantenere a Roma un palazzo adeguato al suo ruolo.
Benché unanimemente apprezzato per le sue doti di equilibrio e moderazione, tuttavia Pipia non giocò un ruolo significativo negli equilibri curiali degli anni Venti del Settecento.
Morì a Roma il 21 febbraio 1730, poche ore dopo la morte di Benedetto XIII.
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