PARADISI, Agostino
– Nacque il 26 aprile 1736 a Vignola, nei pressi di Modena, da Gianmaria, governatore della città, originario di Città di Castello, e da Teresa Gastaldi. Fu battezzato nella parrocchia dei Santi Nazario e Celso da don Pellegrino Bigatti.
In seguito alla morte del padre l’anno seguente, il bambino si trasferì con la madre a Reggio nell’Emilia.
Era suo prozio l’omonimo Agostino, noto giureconsulto che fu ministro del duca di Modena e autore di un’opera all’epoca molto stimata: l’Ateneo dell’uomo nobile, un ampio lavoro erudito cui attinsero molti studiosi del primo Settecento, ma anche di tempi più vicini, per la vasta messe di notizie assai ben documentate che offre circa le consuetudini nobiliari in Italia.
Paradisi trascorse la sua infanzia a Reggio, e a quindici anni fu inviato a Roma a studiare al Collegio Nazareno. Dalle sue esercitazioni poetiche di quegli anni emerge un certo patriottismo letterario, in particolare nell’esortazione all’Italia a contrastare «l’ingiusto imperio» che vantavano sulla penisola «l’ispano, il franco, l’alamanno altero» (Cavatorti, 1907, p. 83). Fu ammesso nell’Arcadia con il nome di Falimbo Tilangense.
La grave malattia della madre lo richiamò a Reggio nel 1754. L’anno seguente, dopo la sua morte, Paradisi rimase con la sorella Maria Francesca a Reggio, dove continuò gli studi perfezionandosi in lingue classiche e moderne e coltivando insieme le lettere e le scienze storiche ed economiche. Strinse amicizia con Lazzaro Spallanzani, che aiutò in alcuni esperimenti scientifici. Fu ammesso nella locale Accademia degli Ipocondriaci, fondata nel 1747, e ne divenne segretario nel 1757. Là conobbe la contessa Massimilla Prini, che sposò nel 1758 e da cui ebbe diversi figli, fra i quali va menzionato Giovanni, noto poeta, uomo politico e animatore della cultura in età napoleonica.
Nelle memorie lette da Paradisi in Accademia, prevalentemente di carattere erudito, cominciava a manifestarsi uno spiccato interesse per gli studi filosofici e scientifici. Strinse rapporti epistolari con molti esponenti della cultura illuministica, come Francesco Algarotti, Cesare Beccaria, Carlo Goldoni, Voltaire, Charles Bonnet, che lo misero in contatto con la filosofia e la letteratura francese e inglese, allargando i suoi orizzonti culturali, come dimostra la sua recensione dell’edizione lucchese dell’Encyclopedie, pubblicata nel maggio 1759 nelle Nuove memorie per servire all’istoria letteraria.
A contatto con gli amici bolognesi Giuseppe Antonio Taruffi e Francesco Albergati Capacelli, cominciò a occuparsi di teatro. Ammiratore della tragedia illuministica di Voltaire, sostenitore della riforma di Carlo Goldoni, concepiva il teatro come strumento per l’educazione della società, tanto più utile in quanto permetteva ‘d’istruir dilettando’. Lui stesso scrisse una tragedia, gli Epitidi (1760) e redasse traduzioni di Jean Racine, Pierre Corneille e Voltaire. Le traduzioni erano state pensate per il teatro privato dell’Albergati a Zola, presso Bologna, ma ebbero una più ampia circolazione e furono rappresentate sotto la sua direzione nel teatro della corte estense a Rivalta, di cui Paradisi era consulente artistico, nel teatro del seminario, e in altri teatri nobiliari privati. Voltaire stesso approvò le traduzioni delle sue tragedie con parole di stima. Se la rappresentazione di queste tragedie non incontrò difficoltà, diverso fu il destino della loro pubblicazione, che, fermata dall’Inquisizione, poté essere ultimata solo con l’indicazione di un falso luogo di stampa (Scelta di alcune eccellenti tragedie francesi tradotte in verso sciolto, Liegi 1764), dopo che fu tramontata l’ipotesi di pubblicarle a Venezia o a Lucca, dove le maglie della censura erano meno fitte. Le traduzioni furono accompagnate da dediche alla principessa Maria Teresa Cybo d’Este e alla principessa ereditaria Enrichetta d’Assia Darmstradt, cui fu unita una dichiarazione di professione di ortodossia religiosa.
Intanto, Paradisi proseguiva con la sua attività poetica, pubblicando i Versi sciolti (Bologna 1762). Negli anni seguenti divenne uno dei maggiori rappresentanti della scuola poetica estense, una scuola di tradizione classicista e muratoriana che aveva fatto propri gli ideali illuministici e risentiva dell’influenza del sensismo così presente nella vicina Parma. Tra i suoi componimenti, specialmente La felicità della sapienza ebbe una certa notorietà e fu stampata ne L’Europa letteraria, suscitando un largo consenso. All’attività poetica si aggiunse la partecipazione ad alcune polemiche letterarie. Di particolare rilievo fu il suo intervento in risposta alle considerazioni di Alexandre Deleyre sulla cultura italiana, espresse in una epistola intitolata Sopra lo stato presente delle scienze e delle lettere in Italia. Lettera di A. P. contra una lettera francese del signor D., pubblicata a Venezia nel 1767.
Legato agli intellettuali francesi attivi presso la corte borbonica parmense del ministro Guillaume Du Tillot (dove spiccava la presenza di Étienne Bonnot de Condillac, precettore dell’erede al trono Ferdinando), Deleyre aveva criticato, con una lettera pubblicata sulla Gazette litéraire de l’Europe del 3 gennaio 1765, la decadenza della cultura italiana, ormai lontana dalla grandezza rinascimentale, e l’isolamento degli intellettuali illuministi. Paradisi rispose rivendicando la presenza di studiosi di scienze di altissimo livello, come Paolo Frisi e Lazzaro Spallanzani, e rintuzzando l’accusa di scarsa comprensione dell’opera di Cesare Beccaria. La sua risposta a Deleyre in difesa della cultura italiana non si muoveva certo sul piano della conservazione, ma era tutta orientata in difesa della diffusione della filosofia dei lumi.
Paradisi successivamente si dedicò alla teoria estetica nel Saggio metafisico sopra l’entusiasmo delle belle arti, pubblicato nel fascicolo del luglio-settembre 1769 dell’Estratto della letteratura europea, rivista stampata a Milano e animata da Pietro Verri e Giambattista Vasco. Ora aveva trovato nel mondo del Caffè quelle idee e quel modo di sentire che aveva cercato invano nella cultura di derivazione arcadica. Si poneva come erede del classicismo arcadico e su quella tradizione innestava un accoglimento pieno delle tematiche illuministe, dell’empirismo e del sensismo derivanti dall’adesione alla filosofia di John Locke ed Étienne de Condillac. Da questi però si distaccava per una concezione estetica tutta intellettuale e interiorizzata.
Nel Saggio indicava un’idea di perfezione del bello che eleva l’uomo al di sopra di se stesso: «Il piacere intellettuale supera il sensibile in un suo pregio, che è di rendere l’uomo maggiore di se medesimo, intendo quello stato dell’anima nel quale ella tutta si regge per le sole idee interne, cioè non dipende in nulla dai sensi» (Opere scelte di A. e G. Paradisi, Milano 1828, pp. 93 s.). L’estetica proposta da Agostino Paradisi si fondava su un piacere tutto razionale, con cui egli segnò la via per un’evoluzione del gusto estense verso il neoclassicismo ottocentesco.
Nello stesso torno di tempo cominciò a coltivare l’altro ambito di interessi che aveva manifestato in epoca giovanile, quello relativo agli studi storici, e specialmente alla storia d’Italia, che avrebbe contraddistinto tutta la sua produzione successiva. Nella sua prima opera storica, il Saggio sopra le città libere d’Italia, in corso di elaborazione nel 1768 e rimasta inedita, condusse una disamina della storia italiana dell’età medievale. Nell’opera indicava quale epoca di maggiore splendore della storia d’Italia quella in cui erano sorti i comuni e in cui fiorirono le libertà repubblicane. Questo tema resterà sempre presente nella riflessione di Paradisi, per tornare nelle sue lezioni universitarie a fianco degli studi economici.
Seguendo le linee della storiografia illuministica, abbandonava sia l’idea di un piano divino che alligna nelle vicende umane, sia una storia fatta solo di battaglie, trattative diplomatiche, intrighi di corte. Il suo intento era scrivere una storia che, senza disperdersi nei singoli eventi, permettesse di dare una visione d’insieme, di lungo periodo, delle vicende italiane, cioè redigere un’opera storica che rendesse conto di costumi, leggi, commercio e organizzazione della guerra nella Penisola. L’obiettivo che si prefiggeva era conoscere le ragioni politiche della nascita di principati e repubbliche italiane nel Medioevo, e le cause della loro decadenza tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. Punto di riferimento essenziale per tutto il trattato era l’opera erudita di Ludovico Antonio Muratori, modelli storiografici dominanti come Niccolò Machiavelli e Charles-Louis de Montesquieu. Dopo una lunga trattazione dedicata al sistema feudale affermava, in contrasto con Muratori, che il governo repubblicano in Italia si era mantenuto con continuità anche dopo il tramonto dell’Impero romano e durante i regni longobardi. Il luogo in cui si era manifestata la libertà repubblicana durante l’alto Medioevo erano le città italiane. Secondo Paradisi, le comunità politiche europee si articolavano in feudi e città; i feudi erano ligi all’Impero, mentre le città erano state la culla della libertà. La città italiana del Medioevo veniva quindi esaltata come simbolo dell’indipendenza e della libertà repubblicana della penisola, mentre con l’età moderna si apriva la storia del declino. Anche in quell’epoca, comunque, i governi cittadini avevano continuato a serbare memoria del governo repubblicano.
Queste idee furono riprese da Paradisi nel Saggio politico sull’ultima decadenza d’Italia, scritto nel 1770 in occasione dell’invito a parlare all’Accademia di Mantova insieme a Beccaria. Se nell’opera precedente Paradisi aveva indagato sull’origine della libertà d’Italia, ora intendeva esaminare come quella libertà fosse andata perduta, cioè le cause del declino italiano al momento della discesa di Carlo VIII, quando la penisola era nel pieno del suo splendore, nell’età del Rinascimento. Per le fonti faceva riferimento alle raccolte erudite di Muratori che, come scriveva a Giambattista d’Arco, direttore dell’Accademia, «ha studiato per tutti e pare che abbia voluto per sé tutto il peso della fatica, per lasciare agli altri il merito dell’ordine e dell’ingegno» (Intra, 1885, p. 124). Punto di riferimento essenziale diveniva la riflessione di Niccolò Machiavelli. Al centro della trattazione stava la constatazione dell’incapacità degli italiani di affrontare i problemi politici dell’epoca e di accogliere le innovazioni, in particolare in campo militare.
Il suo saggio fu letto all’Accademia nel 1771, ebbe molto successo e fu lodato da Beccaria, che dopo gli studi sul diritto si era spostato verso meditazioni sulle origini della civiltà umana. Questo lavoro fu infine pubblicato nel 1772 con il titolo Saggio politico su la origine e la decadenza delle libertà d’Italia.
Su di esso esercitò una certa influenza la lettura dell’opera di William Robertson su Carlo V. Per Paradisi l’obiettivo dello storico era perseguire la pubblica felicità, intesa in un senso più ampio di quello muratoriano: la pubblica felicità non doveva costituire solo una costante preoccupazione dei principi, ma un più ampio concetto morale, cui dovevano tendere tutti i filosofi e i sapienti. Essi potevano collaborare a realizzarla esercitando una essenziale funzione di critica e di stimolo, per esempio attraverso la conoscenza della storia, vero e proprio tribunale di verità che contribuisce a far dileguare i falsi sistemi politici. In questi temi, che saranno ripresi nella successiva Orazione nel solenne aprimento della Università di Modena (Modena 1772), emerge appieno l’ideale dell’intellettuale illuminista engagé.
Nel 1771 il conte Carlo di Firmian, ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, pensò di chiamare Paradisi a dirigere la Reale Accademia di scienze e belle lettere di Mantova, ma Bartolomeo Valdrighi, ministro al servizio del duca di Modena, e lo stesso duca Francesco III lo vollero trattenere in patria. Così lo chiamarono a far parte del Magistrato agli studi, l’organo deputato all’elaborazione delle linee di riforma dell’Università di Modena. Nel nuovo ateneo, Paradisi venne nominato presidente della classe filosofica e lettore sulla nuova cattedra di economia civile. Accettò inoltre l’incarico di aprire in casa propria un’accademia agraria, da tenersi una o due sere alla settimana, per diffondere tra i giovani la nuova scienza dell’agronomia.
L’apertura dell’Università modenese segnò il momento culminante della politica di rinnovamento della cultura estense. L’Università riformata avrebbe promosso un progetto culturale innovativo, immettendo nel circuito dell’insegnamento i progressi compiuti dal pensiero scientifico europeo, rompendo con la tradizione accademica e con la proposta culturale dei gesuiti. Il 25 novembre 1772 Paradisi fu chiamato a recitare il discorso d’apertura dell’Università rinnovata. La sua orazione ebbe grande successo e fu subito data alle stampe, tradotta in francese e ripubblicata a Torino; in patria gli valse il titolo di conte, cui si aggiunse nel 1776 la dignità di ciambellano e gentiluomo di Camera.
La prolusione rappresenta uno dei manifesti del moto riformatore italiano. Paradisi tracciava un quadro di ciò che era stato fatto a Modena in materia di riforme economiche, assistenziali, legislative, urbanistiche, attività tutte che culminavano nell’edificazione dell’Università. Solo le scienze potevano assicurare la prosperità dello Stato. L’Università era simbolo e strumento del regno della filosofia, cioè della razionalità che ordina tutti i saperi conferendo loro la necessaria unità, e che deve regolare tutti i momenti della vita e dello spirito umano: «Un sol nodo dunque le arti e le scienze congiunge, e nello stesso nodo congiunte stanno quante mai sono le occorrenze della civile Repubblica. Non ha dunque alcuna util cosa la società che dalle scienze non prenda alimento, per esse non si nobiliti, non si maturi, non si perfezioni. Tanto dunque sarà proteggerle, stabilirle, propagarle, quanto edificare sulle basi più ferme e sicure la prosperità delle nazioni» (Orazione nel solenne aprimento, p. 24).
Quattro anni dopo, il 5 novembre 1775, tenne nuovamente una prolusione per il nuovo anno accademico. Secondo il nuovo ordinamento, anziché la consueta orazione era previsto che ogni anno si tenesse un discorso in memoria di un modenese illustre. La scelta di Paradisi cadde su Raimondo Montecuccoli, il grande generale che fu comandante dell’esercito imperiale e presidente del Consiglio aulico di guerra, massima autorità militare austriaca.
Di lui celebrava la cultura e la sete di conoscenza, non meno dell’abilità militare, e «la dottrina ch’ei praticò con tanta lode ed utilità» (Elogio del principe Raimondo Montecuccoli con note, Bologna 1776, p. 79), alludendo alle memorie di Montecuccoli, che costituiscono un’importante opera scientifica sull’arte della guerra. Concludeva il discorso con un richiamo un po’ retorico ai temi a lui cari, relativi alla grande tradizione politica e culturale italiana: «Su la sua tomba l’Italia si conforta delle ingiurie del tempo e del ferro, dell’Imperio perduto e de’ suoi lunghi e crudeli infortuni quando, periti tutti gli argomenti della romana grandezza, tanto ancor le avanza della romana virtù» (Elogio, pp. 93 s.).
Dal 1772 al 1774 tenne il corso di economia civile. Passava così agli studi di economia politica, ricoprendo la terza cattedra di questa materia aperta in Italia, dopo quelle delle quali erano stati titolari Antonio Genovesi e Cesare Beccaria. Di questa attività ci rimangono gli appunti per le lezioni, rimasti inediti, distinti in due parti.
La prima parte del suo corso era dedicata alla teoria politica. Paradisi seguiva fondamentalmente le linee interpretative del contrattualismo settecentesco per spiegare le origini della società. Si asteneva dal giudizio su quale fosse il migliore tipo di governo, rinviato alla condizione storica di ciascun Paese, tenendo ferma la necessità di mantenere una distinzione fra i titolari dei tre poteri fondamentali dello Stato. Seguiva prevalentemente le linee della riflessione di Montesquieu, ma a tratti emergeva la sua simpatia per la democrazia repubblicana. Riprendeva in questo la sua predilezione per la storia italiana, e specialmente l’esaltazione dell’età comunale, considerata un antico esempio di democrazia. Difendeva il modello di governo repubblicano dall’accusa di dispotismo lanciata da Montesquieu, pur nella consapevolezza che nel suo tempo la monarchia aveva saputo imporsi come più efficace strumento di rinnovamento, a fronte di repubbliche legate alla tradizione del sistema patrizio. Affermava inoltre la sua predilezione per gli studi storici: «Io reputo che torni meglio studiar su la storia che su le instituzioni teoriche e su i sistemi (quantunque ingegnosi) de’ filosofi» (cit. in Venturi, 1962, p. 732). Come avrebbe scritto in seguito nel Discorso preliminare alle lezioni di storia (del 1778, inedito), il metodo storico rigoroso deve fondarsi su un’approfondita analisi delle fonti, delle forme e delle vicissitudini dei governi, della legislazione, di usi e costumi. Essenziale era anche seguire le tracce dello ‘spirito umano’, cioè lo sviluppo delle arti e delle scienze. La seconda parte del corso era più propriamente economica. Secondo Paradisi, l’economia politica è la scienza di rendere felici gli uomini, non in una prospettiva lontana e forse irraggiungibile, ma nello stato presente, nel mondo reale in cui le idee buone e giuste possono trovare realizzazione. Attraverso essa è possibile correggere i difetti del governo, modificare le strutture sociali e assicurare la libertà civile. Da queste premesse scaturiva una riflessione di chiaro orientamento fisiocratico. Il giusto assetto dell’economia era un ‘sistema morale’ fondato sulla cooperazione di tutti i ceti sociali alla pubblica felicità. La considerazione del ruolo dei ceti sociali era svolta in chiave rigorosamente utilitaristica. La classe più utile era quella popolare, essendo composta da cittadini che «portano i carichi maggiori dello Stato, esercitando i mestieri laboriosi» (Armani, 1979, p. 50). Il modello ideale di struttura economica di un Paese era disegnato come una piramide con una larga base di agricoltori, uno strato assai minore di artigiani, che si restringeva considerevolmente a un piccolo numero di commercianti, preti e governanti. In sostanza, dovevano essere limitati al minimo coloro che vivevano del prodotto del lavoro altrui. La proprietà era una componente importante, perché i proprietari facevano fruttare la terra a vantaggio del bene pubblico, e così «sarà come se fossero gli amministratori de’ beni dello Stato». Tuttavia, la troppa diseguaglianza andava moderata dall’azione politica: «la politica che per una parte approva che chi possiede possieda con sicurezza, dall’altra condanna come viziosa la troppa inegual distribuzione dei terreni» (Venturi, 1962, p. 733). Il governo doveva intervenire con un’adeguata attività regolatrice per limitare i latifondi e soprattutto per la soppressione di fedecommessi e manimorte, che impedivano la libera circolazione dei beni fondiari. L’altro argomento importante riguardava il commercio dei grani. Seguendo la tradizione fisiocratica, Paradisi si diffondeva dapprima su alcune indicazioni pratiche circa la coltura del frumento, per poi affrontare il tema della libertà di commercio. La sua trattazione risente molto delle argomentazioni presenti nella voce Grani dell’Encyclopédie e nelle Lezioni di commercio di Pietro Verri. Poi passava ad affrontare i problemi dei prezzi e della circolazione della moneta. Genovesi e soprattutto Condillac sono i suoi principali punti di riferimento. Genovesi era esaltato per aver fatto rinascere la scienza economica in Italia, ma criticato per gli orientamenti mercantilistici. Condillac e il suo recente Le commerce et le gouvernement (uscito nel 1776) furono ampiamente ripresi. Di questo trattato Paradisi fece anche una traduzione – Il commercio e il governo considerati nelle loro scambievoli relazioni – rimasta inedita e seguita da un suo saggio, gli Elementi di politica, scritto nel 1778, anch’esso inedito.
Nel 1773 il nuovo ministro Gherardo Rangone intese procedere a una generale riforma fiscale nel Ducato estense. Il piano per un nuovo sistema tributario ispirato al principio di un’imposta unica venne redatto da Salvatore Venturini. Nella discussione che seguì furono presi in esame esempi di riforme fiscali attuate in altri Paesi, in particolare il caso toscano e la legislazione promossa da Angelo Tavanti. Le conclusioni furono trattate in un Epilogo dell’esame fatto da S. E. il signor marchese Gherardo Rangone sopra il piano di tributi del cav. Salvatore Venturini, redatto dal Paradisi, di piena osservanza fisiocratica.
Paradisi tornava sul tema della composizione della società, indicado due classi produttive fondamentali, quella agricola e quella industriosa. Altre due classi erano definite sterili, seguendo François Quesnay: quella sussidiaria, utile a sollievo delle prime due, composta da chierici, professionisti, militari, uomini di lettere e infine quella che consuma, ma non serve alla società. In quest’ultima erano inclusi anche gli appaltatori delle imposte. Paradisi conduceva un’appassionata difesa della gestione diretta dello Stato nella riscossione delle imposte e dell’abolizione di ogni forma di appalto. I prelievi fiscali dovevano concentrarsi prevalentemente sulla proprietà, sgravando i contadini da capitazione, imposte sul bestiame, sul sale e sui consumi.
In conclusione, Paradisi aderì alla fisiocrazia senza particolari caratteri di originalità, ma con il suo insegnamento e l’impegno per le riforme fiscali dette un contributo fondamentale alla sua diffusione nel Ducato estense.
Con l’avvento al trono di Ercole III, nel 1780, la fortuna di Paradisi andò declinando: le gelosie e gli intrighi di corte congiurarono nell’escluderlo dall’Università modenese. Con un plauso tutto formale per l’insegnamento condotto negli anni precedenti, Paradisi veniva allontanato dalla capitale e inviato in provincia, con la nomina a presidente agli studi e sovraintendente alle stampe della città di Reggio. Là continuò a lavorare, animando la cultura universitaria alle scienze moderne e alla filosofia.
Morì a Reggio nell’Emilia il 19 febbraio 1783.
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