MASCARDI, Agostino
– Nacque a Sarzana il 2 sett. 1590 da Alderano, giurista di qualche nome e auditore di Rota a Lucca e a Bologna, e da Faustina de’ Nobili.
Proseguendo una consolidata tradizione familiare, fu inviato a Roma per compiere gli studi presso il seminario romano, come già era avvenuto per suo padre e due zii paterni, Niccolò e Giuseppe, entrambi destinati a una dignitosa carriera ecclesiastica. Nel 1606 entrò nella Compagnia di Gesù e durante gli studi svolti presso il Collegio romano ebbe modo di intrecciare rapporti con letterati gesuiti di primo piano, quali Melchior Inchofer, Bernardino Stefonio e Tarquinio Galluzzi. A questi è da aggiungere l’abate benedettino Angelo Grillo che, già amico di Alderano, giocò un ruolo importante nel perfezionamento dell’apprendistato letterario del Mascardi.
Non è noto quando il M. abbia lasciato Roma, ma nel 1612 era certamente nel collegio dei nobili di Parma. Un componimento latino, poi inserito nei suoi Silvarum libri IV (Anversa 1622, pp. 25-30), comparve infatti anonimo nella Raccolta di poetiche composizioni latine e toscane delli Academici Fedeli (Parma 1612) stampata per festeggiare il «dottorato in leggi» dei nobili romani Alessandro e Virginio Cesarini. Eccettuati brevi soggiorni a Piacenza (marzo 1615) e a Milano (aprile-luglio 1615), il M. restò con vari incarichi di insegnamento nel collegio dei nobili di Parma fino all’autunno 1617. Nel 1615 pubblicò a Modena l’Orazione funerale per la morte della duchessa di Modena, Virginia de’ Medici; sempre a Modena vide la luce nel 1616 l’orazione funebre per Bibiana Pernstein, principessa di Castiglione, e nel 1617 quella per il suo consorte, il principe Francesco Gonzaga. In quegli anni il M. frequentò assiduamente la corte modenese degli Este, dove entrò in amicizia con il conte Camillo Molza, con cui intrattenne per lunghi anni un fitto scambio epistolare e al quale dedicò il Discorso sopra un componimento poetico intorno alla cometa, poi raccolto nelle Orazioni stampate a Genova nel 1622 (pp. 317-337). La ricerca di una sistemazione entro la corte estense, e particolarmente presso il cardinale Alessandro d’Este, pose il M. in conflitto con i suoi superiori gesuiti che nell’autunno 1617 lo costrinsero a deporre l’abito della Compagnia.
Riparato a Roma e stretto dalle necessità economiche, dopo reiterate e pressanti richieste indirizzate soprattutto al Molza, nel febbraio 1618 fu assunto nella famiglia del cardinale Alessandro d’Este, che egli raggiunse a Modena nella primavera del 1618, dopo aver conseguito a Roma il dottorato in leggi. A Modena il M. rimase, a parte alcune settimane trascorse a Sarzana e a Genova nel settembre-ottobre 1619, fino agli inizi del 1620, suscitando le gelosie di Fulvio Testi, anch’egli al servizio degli Este. Di nuovo a Roma al seguito del cardinale Alessandro nei primi mesi del 1620, il M. iniziò a lavorare a uno scritto celebrativo della casa d’Este, il Tiburno (il riferimento è alla villa degli Este a Tivoli), i cui unici brani noti (Zenobia reina de’ Palmireni e Le figliuole di Zenobia reina de’ Palmireni alla madre) saranno raccolti nelle Orazioni del 1622 (pp. 276-291).
Alla morte di Paolo V, grazie all’appoggio di Maffeo Barberini e di Scipione Borghese, il M. fu incaricato di comporre l’Oratio… de subrogando pontifice (poi in Orazioni, pp. 266-273), pronunciata l’8 febbr. 1621 di fronte ai conclavisti che il giorno seguente avrebbero eletto Alessandro Ludovisi papa Gregorio XV. Nella tumultuosa produzione di libelli che tradizionalmente fiorivano subito dopo ogni elezione, il M. fu accusato di essere l’autore di una relazione su quel conclave (edita in Mannucci, 1908, pp. 523-542) contenente giudizi poco lusinghieri su alcuni cardinali e inoltre sul cardinal nipote Ludovico Ludovisi. Trovatosi al centro di un duro confronto tra Alessandro d’Este e il Ludovisi, il 12 giugno 1621 il M. fu costretto a imbarcarsi alla volta di Genova e sul finire dello stesso mese fu licenziato dal servizio del cardinale Alessandro. Pur in assenza di indizi utili a stabilirne con certezza l’attribuzione, non è da escludere che il libello fosse ispirato dallo stesso Este e che il M. fosse stato costretto ad assumerne la paternità per sottrarre il «padrone» alle ire dei Ludovisi (Della Giovanna, p. 123).
A Genova il M. poteva comunque contare su saldi legami con illustri rappresentanti della vita civile ed economica, quali Marcantonio Doria, Giovan Giacomo Lomellini, Silvestro e Tommaso Grimaldi e con letterati come Ansaldo Cebà, Gian Vincenzo Imperiale e Gabriello Chiabrera. In virtù di questi solidi appoggi fu incaricato di comporre l’orazione per l’incoronazione del doge Giorgio Centurione, recitata il 26 sett. 1621 (Orazioni, pp. 139-161), e nel dicembre 1621 fu nominato pubblico lettore all’Accademia degli Addormentati, presso la quale iniziò l’opera di commento sopra la Tavola di Cebete tebano, destinata in seguito a confluire nei Discorsi morali su la Tavola di Cebete tebano che appariranno a Venezia nel 1627.
Nonostante fosse ben inserito nella vita culturale di Genova, il M. coltivò a lungo la speranza di rientrare a Roma ed essere reintegrato nella famiglia del cardinale d’Este, al quale furono ancora dedicati i Silvarum libri IV apparsi ad Anversa per l’Officina Plantiniana di B. Moreto nei primi mesi del 1622. La fredda accoglienza riservata dal cardinale alle Silvae, dove pure preponderante risultava la sezione modenese ed estense, convinse definitivamente il M. dell’infondatezza delle proprie speranze, sicché il volume delle Orazioni, stampato a Genova nell’estate 1622, si aprì con una dedica a Giovan Giacomo Lomellini.
Le Orazioni ospitavano del resto, accanto alle ricordate orazioni funebri del 1615-17, molti scritti nati da occasioni genovesi. Oltre a quella per il Centurione, a Genova erano state recitate le orazioni in lode di s. Ignazio (pp. 186-215) e di s. Francesco Saverio (pp. 216-244), nonché quelle per la monacazione di Margherita Doria (pp. 102-138) e per la canonizzazione di s. Teresa (pp. 162-185); a Tommaso Grimaldi era indirizzato il discorso Intorno al furor poetico (pp. 338-389). Quest’ultimo discorso, insieme con quello a Molza intorno alla cometa, delinea il ritratto letterario del M., convinto assertore, contro gli eccessi dei moderni, di un equilibrato rapporto tra ingegno e giudizio e del recupero della imitazione dei grandi modelli classici e volgari. L’Avvertenza al lettore con cui si aprivano le Orazioni rifiutava altresì il purismo della Crusca per una lingua fondata sull’uso moderno e su base comune.
Al soggiorno genovese è anche legata la commedia Le metamorfosi d’amore, commissionata al M. per il carnevale del 1623, mai stampata e pervenutaci in unica copia manoscritta conservata presso la Harvard University di Cambridge, MA (Houghton Library, Mss. Ital., 104; cfr. Mannucci, 1952; Bellini, 2002, pp. 58-68).
Non vi è dubbio che il M. considerò i due anni genovesi una sistemazione provvisoria. Morto l’8 luglio 1623 Gregorio XV, il M. si imbarcò senza indugi alla volta di Roma, dove giunse in tempo per assistere all’elezione di Maffeo Barberini, divenuto Urbano VIII il 6 agosto. Con il nuovo pontefice il M. poteva vantare qualche familiarità, come attesta anche la corrispondenza poetica tempestivamente inserita nelle Silvae del 1622 (pp. 53-55, 104, 183-188). Il suo pieno inserimento nella Roma barberiniana si deve però ascrivere alla protezione di Virginio Cesarini, amico del M. fin dagli anni di Parma, che fu nominato maestro di Camera da Urbano VIII subito dopo la sua elezione. È probabile che proprio Cesarini spingesse il M. a comporre Le pompe del Campidoglio (Roma 1624), dettagliata descrizione degli apparati allestiti a Roma per l’incoronazione di Urbano VIII.
Dedicate al duca Carlo Emanuele I di Savoia, le Pompe del Campidoglio abbandonano presto l’andamento di un panegirico a Urbano per edificare piuttosto il ritratto ideale del principe nuovo, insieme laico ed ecclesiastico, secondo le aspettative di una cultura romana innervata delle istanze provenienti dal neostoicismo lipsiano e dal nuovo clima scientifico suscitato nell’autunno del 1623 dalla apparizione del Saggiatore galileiano, dedicato con abile mossa da Cesarini, a nome di tutti i Lincei, al nuovo pontefice. Le Pompe con forza sottolineano la prospettiva di un’etica dell’esercizio del potere, richiamando, con l’ausilio di Plutarco e Seneca, e tenendo sullo sfondo l’antimodello del Principe di Machiavelli, i rischi che incombono sopra chi detiene l’auctoritas: la superbia orgogliosa, l’uso privato delle ricchezze destinate alla pubblica utilità, le lusinghe dell’adulazione e la perfidia, vale a dire l’esercizio dell’astuzia ingannevole e della forza non soggetta ad alcuna legge. Rilievo particolare assume l’indugio del M. intorno alle idee letterarie del papa-poeta, che nella scelta di argomenti morali e religiosi elaborati secondo una austera disciplina formale si pone in netta alternativa alle scelte tematiche e stilistiche dei moderni, e soprattutto di G.B. Marino, ancora a Roma nei mesi in cui l’opera del M. vedeva la luce (Bellini, 1997, pp. 85-167).
Nominato da Urbano VIII cameriere d’onore, nella primavera del 1624 il M. entrò al servizio del cardinale Maurizio di Savoia con l’incarico di sovraintendere ai lavori dell’Accademia che questi progettava di insediare nel suo palazzo di Montegiordano, e che dal 1626 fu detta dei Desiosi. I frutti dell’attività accademica ivi dispiegatasi tra il 1624 e il 1626, che vide protagonisti, tra gli altri, Girolamo Aleandro, Virgilio Malvezzi, Sforza Pallavicino, Giulio Rospigliosi (poi Clemente IX) e Matteo Peregrini, furono editi per cura dello stesso M. nei Saggi accademici (Venezia 1630).
Intanto il M. provvedeva a rimpinguare la raccolta delle Orazioni del 1622, riedite a Venezia nel 1625 con alcuni incrementi e con il nuovo titolo di Prose vulgari. Oltre all’orazione per la morte di Virginio Cesarini, recitata dal M. il 5 maggio 1624 presso l’Accademia degli Umoristi, in cui venivano ben illuminate le inquietudini filosofiche e scientifiche dell’amico linceo prematuramente scomparso, tra gli scritti aggiunti nelle Prose vulgari andranno segnalati alcuni discorsi dedicati al rapporto tra il letterato e il principe non privi di un’amara saggezza a caro prezzo conquistata nell’insidioso mare della corte. Se la corte è per il letterato onesto luogo di continue umiliazioni, solo l’istituzione accademica può garantire un equo riconoscimento alla dottrina e ai valori di cui è portatore l’uomo di lettere, che debbono essere posti al servizio dello Stato e del bene comune.
Il discorso Che gli esercizi di lettere sono in corte non pur dicevoli, ma necessari, con cui si aprivano le Prose vulgari (pp. 1-16), letto dal M. nell’autunno 1624 per l’inaugurazione dell’Accademia del cardinale Maurizio, insiste, in particolare, sulla necessità di insediare stabilmente la sapienza nei luoghi dove si esercita il potere, come moderatrice della potenza e come consigliera dei principi. Giudicando ormai inadeguato il modello del cortigiano, o del savio in corte, il M. ritiene che solo una Accademia possa garantire al principe, per mezzo di studiosi specialisti delle varie discipline, quei pareri qualificati richiesti dalle moltiplicate necessità di uno Stato moderno (Bellini, 1997, pp. 169-197).
Nel 1627 videro la luce a Venezia, con dedica a Maurizio di Savoia, i Discorsi morali su la Tavola di Cebete tebano, compimento del lavoro di lettura dal M. svolto presso l’Accademia degli Addormentati durante l’esilio genovese del 1621-23.
L’opera, divisa in quattro parti per complessivi 35 discorsi, si configura come commento all’operetta greca, latinamente indicata come Cebetis Tabula e risalente al I o II secolo d.C., che ebbe ampia fortuna almeno fino a Vico. La Cebetis Tabula è un dialogo filosofico-morale con forti venature stoiche, ma che include sincreticamente anche dottrine socratico-ciniche e neoplatoniche, in cui vengono illustrate le immagini dipinte in un quadro votivo nel quale, attraverso complesse allegorie, si allude al cammino dell’uomo che progressivamente si lascia alle spalle l’ignoranza e i vizi fino a raggiungere con fatica la vera sapienza. I Discorsi morali non si limitano tuttavia all’esegesi puntuale e fedele delle dottrine contenute nella Tabula, ma, affiancando con brillante eclettismo alle voci dei filosofi e dei poeti antichi (Platone, Aristotele, Seneca, Plutarco, Massimo Tirio, Omero, Virgilio) quelle dei moderni (G. Lipsio, Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso), riflettono sui grandi temi dell’esistenza umana: la difficoltà di distinguere il bene dal male, il suadente richiamo dei piaceri, l’instabilità della fortuna, i vizi e i pericoli che si accompagnano alla sorte favorevole, le insidie dell’adulazione, la funzione positiva del pentimento e del rimorso, l’inganno delle false scienze inutili al raggiungimento della vera virtù, l’asprezza della via che conduce alla conquista della vera sapienza. Oltre alla difesa dell’utilità morale e della forza persuasiva delle favole antiche (I, 3), che si pone in controtendenza rispetto ad ampie zone della cultura postridentina, generalmente sospettosa verso la mitologia, notevole appare l’intera Parte terza, dove, in aperto contrasto con quanto affermato dalla Tabula, il M. sostiene l’importanza delle arti liberali e delle discipline scientifiche, da Cebete considerate non altro che vana erudizione, nel percorso di perfezionamento dell’uomo, opponendo così il proprio netto rifiuto a un modello etico svincolato dai valori umanistici. Di singolare rilievo le pagine dedicate alla filologia (Della critica, III, 8, pp. 309-325), nelle quali il M., a dimostrazione di una viva curiosità intellettuale, trova modo di ricordare il Don Chisciotte di Cervantes (p. 315) e individua con gusto sicuro nel giovane G.L. Bernini lo scultore più creativo della sua generazione (pp. 320 s.). Un ritratto grafico del M., databile intorno al 1630 e attribuibile alla mano di Bernini, è conservato a Parigi presso l’École des beaux-arts (Bellini, 2003, pp. 404-415).
Nell’impossibilità di far fronte ai propri creditori, conseguenza inevitabile di alcuni anni di splendido mecenatismo, il 20 genn. 1627 Maurizio di Savoia fu costretto a lasciare Roma. Rimasto senza padrone e dopo aver rifiutato un insegnamento universitario a Bologna, il M. ottenne per intercessione del cardinale Francesco Barberini la lettura di eloquenza presso lo Studio romano della Sapienza, incarico che il M. manterrà, salvo interruzioni dovute a infermità, dal 1628 al 1638. Gli interessi del M. sembrano intanto rivolgersi verso la storia. Sul finire del 1627 scrisse alle Repubbliche di Lucca e di Genova, oltre che agli Estensi, per ottenere documenti che riteneva indispensabili al suo progetto di dare continuazione alla Storia d’Italia di Francesco Guicciardini, ricevendo in risposta fermi dinieghi (Este) o assai tiepide promesse (Lucca e Genova). Nel 1629 apparve ad Anversa La congiura del conte Gio. Luigi de’ Fieschi, narrazione della congiura attuata dal Fieschi nel 1547 ai danni di Andrea e Giannettino Doria, che rimarrà l’unico scritto del M. di argomento storiografico.
La Congiura fu edita nel 1629 in tre diverse stampe: ad Anversa, senza indicazione di editore (ma si tratta probabilmente di una stampa italiana, dal M. considerata la princeps e l’unica autorizzata), a Milano (per C. Lantoni) e a Venezia (per G. Scaglia). L’opera suscitò vivaci polemiche per il ruolo, giudicato sconveniente, quasi di suggeritore della congiura, assegnato dal M. al cardinale Agostino Trivulzio e per i giudizi poco lusinghieri verso l’ambiguo comportamento tenuto da Francesco I nei confronti di Andrea Doria, questi ultimi sistematicamente soppressi nell’edizione veneziana dello Scaglia. A queste censure il M. rispose orgogliosamente, rivendicando la piena veridicità del proprio racconto storico, nell’opuscolo Opposizioni e difesa alla «Congiura del conte Gio. Luigi de’ Fieschi», stampato a Venezia nel 1630, e con una risentita Lettera privata, indirizzata a un non meglio identificabile «dotto e gentil cavaliere», giunta alle stampe solo nell’Ottocento (in Giorn. ligustico, VI [1879], pp. 101-112). La Congiura ebbe una rapida fortuna europea, ben anteriore a quella procurata dalla celebre riscrittura del cardinale di Retz (Jean-François-Paul de Gondi) che vide la luce solo nel 1665, grazie alla traduzione francese di Jean-Jacques Bouchard (Paris 1639) e a quella spagnola di Antonio Vázquez (Madrid 1640). Nel 1693 l’opera ebbe anche una traduzione inglese (Bellini, A. M.: teoria e prassi…, pp. 110 s.).
Personaggio ormai di primo piano nella vita culturale romana, il M. partecipò attivamente all’Accademia degli Umoristi, di cui nel 1629 venne eletto principe, carica più volte riconfermatagli. È probabile che proprio la posizione istituzionale occupata in seno all’Accademia lo obbligasse a salvaguardare la memoria di Girolamo Aleandro il Giovane, insigne Umorista scomparso nel 1629, in occasione delle polemiche suscitate dalla stampa postuma dei due volumi della Difesa dell’«Adone», apparsi a Venezia nel 1629 e nel 1630 sotto il nome dell’Aleandro. Non è infatti da escludere che la prefazione anonima, Un amico della verità a chi legge, con cui si apre la seconda parte della Difesa debba essere attribuita proprio al Mascardi. Resta altresì da accertare l’effettivo ruolo svolto dal M. nel progetto di una correzione dell’Adone e nell’allestimento di una raccolta complessiva degli scritti polemici originati dal poema di Marino. Come risulta dalla biografia inserita in Le glorie de gli Incogniti o vero Gli uomini illustri dell’Accademia de’ signori Incogniti di Venezia (Venezia 1647, pp. 3-5), il M. fu aggregato anche a questa Accademia, anche se non è possibile stabilire con precisione la data dell’ascrizione né il suo reale grado di coinvolgimento.
Nel 1630 fu stampato a Bologna uno scambio epistolare tra il M. e Claudio Achillini relativo alla peste (Due lettere, l’una del M. all’Achillini, l’altra dell’Achillini al M. sopra le presenti calamità), la cui fortuna fu decretata dal riuso che successivamente ne avrebbe fatto A. Manzoni. Quest’ultimo nella Appendice storica su la Colonna infame, in un passo poi espunto nella redazione definitiva della Storia della colonna infame, avrebbe ricordato, facendo leva proprio sulla lettera del M., come anche questi avesse ammesso la possibilità della peste manufatta (ed. a cura di C. Riccardi, Milano 2002, p. 278). Ma soprattutto importa rilevare come Manzoni abbia prelevato dalla lettera di risposta dell’Achillini al M. le motivazioni filosofiche con le quali don Ferrante deduce, nel cap. XXXVII dei Promessi sposi, l’impossibilità della reale esistenza della peste, rifiutando come inutile qualsiasi precauzione (Bellini, 2002, pp. 31 s.).
Come è noto da una lettera del M. al cardinale Francesco Barberini (in A. Mascardi, Dell’arte istorica, a cura di A. Bartoli, Firenze 1859, pp. IX-XV), lo stipendio legato all’incarico alla Sapienza non sembrava sufficiente al M. per condurre un tenore di vita onorevole sulla esigente scena romana, cosicché egli chiese e ottenne licenza dal Barberini di procurarsi un’altra protezione. Nel 1631 entrò dunque nella famiglia del cardinale Carlo de’ Medici, che gli offrì una cattedra di eloquenza presso lo Studio di Pisa, prontamente rifiutata dal Mascardi.
Dopo il 1630 il progetto di continuare la Storia del Guicciardini fu dal M. abbandonato, forse anche per la scarsità dei materiali archivistici messi a disposizione dai sempre sospettosi principi italiani. Al suo posto si fece strada l’idea di dedicarsi a un trattato teorico sul metodo e sullo stile di comporre la storia, che vide la luce nel 1636, a Roma presso G. Facciotti, con il titolo Dell’arte historica.
Nel primo dei cinque trattati (a sua volta diviso in cinque capitoli) di cui si compone l’opera, il M., passando in rassegna un ampio campionario di definizioni, delimita l’oggetto della sua indagine alla storia intesa come «racconto che far si suole degli accidenti che occorrono, e si conserva ne’ libri» (I, 1, p. 7), distinguendola dalla ricerca antiquaria o dalle storie naturali, ma anche da altre forme minori di conservazione della memoria per mezzo della scrittura, quali effemeridi, annali, cronache, commentari e vite. Per il M. può essere definita storia solo un «ordinato racconto degli avvenimenti umani più memorevoli» (I, 4, p. 67), nel quale possono essere inclusi eventi bellici e trattative diplomatiche, ma anche esempi di valore militare o di virtù femminile «memorabili, benché privati» (I, 4, p. 82). Contro le millanterie dei poeti, che pur necessitando di finzioni e piacevoli menzogne avocano a se stessi la conservazione delle memorie, solo la storia per il M. preserva veracemente e rende immortali le azioni del passato, raggiungendo in tal modo il suo vero fine, «l’utile […] de’ leggenti»; il quale però è «tanto strettamente co ’l diletto congiunto» che in un buon componimento storico non potranno trovarsi mai separati (I, 5, pp. 95 s.).
Nel secondo trattato (diviso in 8 capitoli) il M. individua nella verità la condizione prima e indispensabile alla storia, anche se la verità della storia appare soggetta a molte insidie, tra le quali il M. ricorda anzitutto la segretezza dei principi, timorosi di rendere pubbliche le loro azioni, non di rado moralmente riprovevoli. Il M. è convinto comunque che pur in mezzo a tante difficoltà lo storico sia in grado di scoprire tracce e indizi che gli permettano di avvicinarsi alla verità, senza mai dimenticare che «la fede che si presta all’istorie è fede umana, cioè a dire sempre congiunta co ’l dubbio; poiché nell’essenza non s’allontana dall’opinione» (II, 2, pp. 127 s.). Sulla scorta delle regole stabilite da Cicerone (De oratore, II, 15, 62), il M. afferma che lo storico non deve tralasciare nessuna diligenza per evitare di scrivere il falso, ma è altresì convinto che le dicerie, i discorsi dei personaggi riferiti dallo storico possano essere, in mancanza di documenti certi, uno strumento per avvicinarsi alla verità per via congetturale attraverso la formulazione di ipotesi verisimili (II, 4). Lo storico inoltre deve scrivere tutta la verità senza omettere neppure gli scelera eventualmente commessi dai principi. Egli, come avviene nel genere tragico, deve far leva sul valore persuasivo della esemplarità negativa e sulla sua energica azione deterrente. Neppure l’adulazione, il timore per la vendetta degli offesi, le passioni politiche o l’amor di patria dovranno contaminare la sincerità del giudizio dello storico.
Nel terzo trattato (in 5 capitoli) il M. rifiuta l’opinione di chi reputa che il perfetto scrittore della storia possa essere solo un principe, un capitano o comunque un uomo di Stato che abbia avuto conoscenza autoptica dei fatti. Essendo ormai lo Stato un organismo complesso e articolato, nessuno, in qualunque posizione sia collocato, può avere una completa notizia dei fatti. Questa pertanto può essere acquistata anche da un privato cittadino attento agli avvenimenti politici ed educato alla lettura delle storie del passato, da cui si attinge, come aveva già sottolineato Machiavelli, la prudenza e la previdenza. Ma il terzo trattato si configura soprattutto come indagine sul rapporto tra storia e filosofia civile e riflette sulle potenzialità insegnative e persuasive delle scritture storiche, che si esplicano inserendo ammaestramenti, digressioni politiche e attraverso la ricerca delle cause e l’esercizio del giudicare, ai quali lo storico non può rinunciare se non vuol vedersi trasformato in un qualsiasi gazzettiere.
Il quarto trattato (distinto in sei particelle) è interamente dedicato a una «digressione intorno allo stile» (IV, p. 330), in cui il M. rifiuta sia l’identificazione dello stile con l’elocuzione sia la sua assimilazione alle forme del parlare, o caratteri, elaborata, prima che dai latini, da Demetrio Falereo e da Ermogene. Al termine di un rigoroso percorso argomentativo il M. giunge a definire lo stile come una «certa particolarità nascente dal proprio ingegno» (IV, 6, p. 401), che rende riconoscibile la voce del singolo scrittore pur nella applicazione di quelle regole dell’elocuzione che sono a tutti comuni. Lo stile è dunque per il M. «una maniera particolare ed individua di ragionare, o di scrivere, nascente dal particolare ingegno di ciascuno componitore nell’applicazione e nell’uso de’ caratteri del favellare» (IV, 6, p. 406).
Il quinto trattato, di gran lunga il più ampio (9 capitoli, alcuni dei quali ulteriormente distinti in particelle), è dedicato alla «struttura dell’istoria» (V, p. 409) e propone un serrato confronto tra oratoria, poesia e storia. Il M. mostra i tratti comuni tra le tre discipline, insistendo però sulla specificità del reimpiego nella scrittura della storia di risorse considerate tipiche dell’oratoria e della poesia, come per esempio la lode, il biasimo, le digressioni e l’uso, assai controverso, dell’ordine perturbato. Se le regole della scrittura storica sono per tanti aspetti comuni alle altre due discipline, il M. è però attento a ritagliare alla storia una sua autonomia, in particolare rispetto alla poesia. Tale autonomia viene salvaguardata recidendo ogni rapporto propedeutico tra storia e poesia, sciogliendo cioè quelle pericolose implicazioni che, pur da opposte angolature, avevano suggerito L. Castelvetro e Tasso. Con viva intelligenza teorica il M. prende qui le distanze dalle celebri affermazioni di Aristotele (Poetica, IX) per il quale la poesia era più filosofica della storia; condannata alla narrazione del particolare, secondo Aristotele la storia forniva alla poesia non altro che la grezza materia. Nella visione del M. la storia tuttavia non è da considerarsi semplicemente res gestae, il materiale informe su cui lavora la poesia, ma è già rerum gestarum narratio, forma di narrazione autonoma e non meno filosofica di quella poetica. Gli ultimi due capitoli del trattato sono dedicati alla censura dello stile fractus e scorciato dei moderni, modellato su Tacito e Seneca, che ha come bersaglio dichiarato lo storico francese Pierre Matthieu, ma che certamente chiama in causa Virgilio Malvezzi. Il M. non concede a questo stile di scrittura, che definisce «inquieta» (V, 8, p. 613), il pregio tanto decantato della brevitas e soprattutto ne censura l’assenza di coesione, la «scatenatura delle parti» (V, 8, p. 619), l’oscurità e l’abuso delle espressioni sentenziose che minano quell’ideale di scrittura distesa che il M., fedele al modello ciceroniano, ritiene indispensabile alla narrazione storica.
Ampiamente ripresa da François La Mothe Le Vayer e lodata da Gabriel Naudé (Bellini, 2002, pp. 200, 205), l’Arte istorica suscitò reazioni anche tra i letterati italiani, come attestano le osservazioni inserite da Paganino Gaudenzio in Della disunita accademia accrescimento… nella quale l’autore insieme difende alcuni istorici contra l’accuse d’A. M. (Pisa 1644) e i Dodici capi pertinenti all’«Arte istorica» del Mascardi editi da Paolo Pirani nel 1646 a Venezia.
Il M. si era intanto riavvicinato al cardinale Maurizio di Savoia, che nel 1635 era tornato a Roma come protettore di Spagna e dell’Impero dopo avere svolto a lungo lo stesso ufficio in favore della Francia. Pur restando al servizio del cardinale de’ Medici, nella primavera del 1637 il M. assunse la carica di segretario del cardinale Maurizio. Alla metà di dicembre 1637 si spostò a Genova al seguito di Maurizio che, dopo la morte di Vittorio Amedeo I, tentava di rientrare a Torino per opporsi alla politica filofrancese della cognata Cristina di Borbone, sorella di Luigi XIII, che aveva assunto la reggenza. Proprio durante il soggiorno genovese il M. ebbe notizia di alcune scritture infamanti rivolte contro di lui dal letterato bolognese G.B. Manzini, convinto che si dovesse alla mano del M. (era invece di Claudio Achillini) un commento satirico fatto sopra una sua lettera di ringraziamento al duca di Savoia Vittorio Amedeo I per la concessione della croce dei Ss. Maurizio e Lazzaro e del titolo di cavaliere. La vicenda, che va inserita nell’aspra contesa letteraria tra fautori dello stile ciceroniano (come il M.) e i moderni imitatori dello stile di Tacito e Seneca (tra cui era, con Malvezzi, Manzini), vide il cardinale Maurizio fermamente schierato in difesa dell’innocenza del M., nonché irremovibile nel pretendere soddisfazione da parte di Manzini, che alla fine dovette cedere pur restando convinto della responsabilità del M. nella vicenda (Della Giovanna; Carminati, 2000, 2004).
Rientrato a Roma nel 1638, il M. fu costretto a lasciare l’insegnamento per l’aggravarsi di una malattia («contumax viscerorum morbus», come scrive nella prefazione alle Romanae dissertationes) che lo travagliava fin dalla giovinezza.
All’insegnamento di retorica per un decennio esercitato dal M. presso la Sapienza sono collegati i volumi delle Romanae dissertationes de affectibus, sive perturbationibus animi, earumque characteribus e delle Ethicae prolusiones, entrambi editi a Parigi nel 1639 e dedicati rispettivamente ai cardinali Francesco e Antonio Barberini. Nelle Romanae dissertationes, in particolare, muovendo dal presupposto dell’interno legame che stringe l’animo umano alla propria realtà corporea, il M. analizza una casistica di manifestazioni esteriori del corpo (volto, mani, voce, parola, stile, capelli, barba, vestimenti) che vengono collegate per via congetturale ad altrettanti affetti interiori, o perturbazioni dell’animo. Una lettura dell’animo, attraverso le parole pronunciate dal corpo, che mira a una più sicura conoscenza di sé e che ha come conseguenza una profonda revisione delle categorie fisiognomiche ereditate dalla tradizione classica. Nelle Ethicae prolusiones, di materia più varia, appaiono di particolare rilievo le riflessioni del M. intorno alla mitologia, non già da rigettare per scrupoli religiosi o moralistici giudicati ormai eccessivi, ma da interpretare, come il M. aveva suggerito anche nei Discorsi morali su la Tavola di Cebete tebano (I, 3), quale lascito prezioso della sapienza degli antichi che i moderni possono trasformare in efficace strumento di indagine morale.
Di nuovo a Genova nel 1639, il M. recitò una orazione di argomento morale presso l’Accademia degli Addormentati, Agevole e dilettevole è la strada della virtù, poi raccolta con altri scritti dispersi nel volume postumo dei Discorsi accademici (Genova 1705, pp. 204-241) per le cure del nipote Carlo Maria Mascardi (alle pp. 528-561, uno scambio epistolare tra Luca Assarino e il M. di rilevante interesse nella ricostruzione della polemica tra ciceroniani e senechisti).
Richiamato a Nizza dal cardinale Maurizio agli inizi del 1640, ormai debilitato dal male, il M. fece ben presto ritorno a Sarzana, dove morì nei primi mesi del 1640. Il suo corpo fu sepolto nella chiesa di S. Maria all’interno della cappella di S. Tommaso.
L’unica opera del M. disponibile in edizione moderna è Dell’arte istorica, a cura di A. Bartoli, Firenze 1859 (ed. anast., a cura di E. Mattioli, Modena 1994). Le due orazioni funebri per Bibiana di Pernstein e Francesco Gonzaga sono riprodotte in appendice (pp. 202-229) a C. Botturi, Le orazioni funebri del padre A. M. in lode di Bibiana e Francesco Gonzaga, in Castiglione delle Stiviere. Un principato imperiale nell’Italia padana (sec. XVI-XVIII). Atti del Convegno, Castiglione delle Stiviere… 1991, a cura di M. Marocchi, Roma 1996, pp. 173-201.
Fonti e Bibl.: Le fonti sul M. sono censite in F.L. Mannucci, La vita e le opere di A. M. con appendici di lettere e altri scritti inediti e un saggio bibliografico, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XLII (1908), n. monografico (per la fortuna editoriale delle opere, pp. 563-619); una più aggiornata bibliografia in M.L. Doglio, M. A., in Diz. critico della letteratura italiana, III, Torino 1986, pp. 101-103 e C. Jannaco - M. Capucci, Il Seicento, Padova-Milano 1986, pp. 828-830; B. Zandrino, A. M., in La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova 1992, I, pp. 333-350; II, pp. 387 s.; una riconsiderazione complessiva dell’attività del M. in E. Bellini, A. M. tra «ars poetica» e «ars historica», Milano 2002; I. Della Giovanna, A. M. e il cardinal Maurizio di Savoia, in Raccolta di studii critici dedicata ad Alessandro D’Ancona…, Firenze 1901, pp. 117-126; G. Spini, I trattatisti dell’arte storica nella Controriforma italiana, in Contributi alla storia del concilio di Trento e della Controriforma, in Quaderni di Belfagor, I, Firenze 1948, pp. 134 s.; F.L. Mannucci, Cristoforo Colombo nell’intermezzo di una commedia inedita di A. M., in Studi colombiani, III, Genova 1952, pp. 143-146; M. Bettarini, A. M. scrittore e teorico della storiografia nel Seicento, Verona 1953; E. Raimondi, Polemica intorno alla prosa barocca, in Id., Letteratura barocca, Firenze 1961, pp. 185-196; Id., Alla ricerca del classicismo, in Id., Anatomie secentesche, Pisa 1966, pp. 29-37; E. Bonora, Su una fonte dell’Introduzione dei «Promessi sposi», in Giorn. stor. della letteratura italiana, LXXXIV (1967), pp. 55-70; A. Scaglione, The classical theory of composition from its origins to the present, Chapel Hill, NC, 1972, pp. 284-287; S. Bertelli, Ribelli libertini e ortodossi nella storiografia barocca, Firenze 1973, pp. 173-178; E. Raimondi, Il romanzo senza idillio, Torino 1974, pp. 147-157; H. Lotthé, Éloquence et peinture dans la Rome pontificale: A. M., réformateur chrétien de la physiognomonie, in XVIIe siècle, XL (1988), pp. 141-147; A. Battistini - E. Raimondi, Le figure della retorica. Una storia letteraria italiana, Torino 1990, pp. 172-185; L. Rodler, A. M. e la congettura fisiognomica, in Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, a cura di A. Battistini, Bologna 1994, pp. 133-152; M. Fumaroli, La scuola del silenzio, Milano 1995, ad ind.; E. Bellini, Umanisti e Lincei. Letteratura e scienza a Roma nell’età di Galileo, Padova 1997, pp. 85-243; L. Bisello, Medicina della memoria. Aforistica ed esemplarità nella scrittura barocca, Firenze 1998, pp. 33-45, 84-101; C. Carminati, Una lettera di Matteo Peregrini a Virgilio Malvezzi, in Studi secenteschi, XLI (2000), pp. 457-461; C. Ginzburg, Le voci dell’altro. Una rivolta indigena nelle isole Marianne, in Id., Rapporti di forza. 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