MAINARDO, Agostino (Mainardi)
Nacque nel 1482 a Caraglio, presso Saluzzo (da cui l'appellativo "di Piemonte"), da Giovanni; non si conosce l'identità della madre, ma è nota l'esistenza di due sorelle, Andreina e Margherita.
Entrò, probabilmente fin da giovinetto, nell'Ordine agostiniano; nel 1509 divenne cursore presso lo Studio conventuale di Firenze e nell'ottobre 1513 ottenne il titolo di magister.
Nell'aprile 1514 il generale dell'Ordine, Egidio da Viterbo, lo inviò al convento di Siena: "per litteras acerrimas reformari praecipimus" (Egidio da Viterbo, Resgestae, 1236). Dopo aver predicato la quaresima a Cesena, il 31 maggio 1515 fu nominato reggente dello studio ospitato dal convento di S. Agostino a Pavia. Nella seconda metà del 1517 divenne prima reggente del convento, quindi "rectorem et reformatorem[(] cum auctoritate amplissima" (Id., Registrum, 913), infine amministratore e priore della comunità, in contrasto con il predecessore Gregorio da Vercelli. Nel 1518-19 fu rettore della provincia di S. Agostino (o di Lombardia) dell'Ordine. Ebbe poi l'incarico di reggente a Roma (1519) e negli studi conventuali a Siena (10 luglio 1521) e a Firenze (14 sett. 1523). Il 27 genn. 1524 il generale dell'Ordine, Gabriele Della Volta, lo esortò ad astenersi dal proferire eresie luterane in occasione della imminente predicazione quaresimale, da tenersi forse a Pietrasanta, dove il confratello Agostino da Fivizzano aveva predicato con scandalo suscitando la riprovazione del superiore. Nel maggio 1525 il M. fu inviato a Genova, richiesto dai patrizi della città insieme con il confratello Antonio Castiglione per illustrare il convento in quanto "viri graves et litteris ac virtutis praestantes" (Roma, Archivum generale Ordinis S. Augustini, Dd 15, c. 30v), dopo la conclusione del mandato priorale di Ambrogio Quistelli. Con quest'ultimo e altri padri sarebbe stato incaricato di tenere una disputatio di esordio ai lavori del capitolo generale che ebbe luogo a Treviso nel 1526.
Nel 1531 il M. chiese di essere accettato insieme con le sorelle come cittadino di Pavia e fu accolto con il favore che si riservava "bonis et opulentis civibus" (Armand-Hugon, p. 7). Nel 1532, durante la predicazione quaresimale ad Asti, fu udito proferire proposizioni eterodosse mentre discuteva questioni teologiche con un frate, forse il minore osservante Giovanni da Fano. Il vescovo Scipione Roerio, dopo aver proibito ai due contendenti di continuare la diatriba, informò l'autorità pontificia ottenendo, il 17 settembre successivo, che Tommaso Badia, maestro del Sacro palazzo, intimasse al M. di cessare la predicazione delle sue concezioni circa la predestinazione, la grazia e il peccato originale. Ciononostante, egli continuò a diffondere segretamente le proprie dottrine nella nativa Caraglio e in Val Grana.
Dal 1533 al 1539 il M. fu priore del convento di S. Mostiola a Pavia. In quegli anni intrecciò una profonda amicizia con il giovane Celio Secondo Curione (docente di oratoria nell'ateneo pavese nel 1536-38) e frequentò anche il confratello Giulio Della Rovere (presente a S. Agostino nel 1533-35). Ebbe contatti inoltre con gli agostiniani Ortensio Lando (ossia Geremia da Milano, lettore a S. Agostino nel 1533 e transfuga l'anno seguente) e con Ambrogio Cavalli (priore a S. Marco a Milano nel 1538-40). Il 28 sett. 1535 il M. ottenne dal nuovo pontefice Paolo III un breve di riabilitazione relativamente ai fatti di Asti e giustificò le proprie posizioni presso il Badia ricorrendo a citazioni tratte dalla Sacra Scrittura e da s. Agostino. Nello stesso periodo, in qualità di provinciale dell'Ordine, propalò le proprie dottrine non solo fra i confratelli del convento di S. Angelo Lodigiano, ma anche fra gli abitanti della piccola località, riuscendo a convertire tra gli altri il nobile Galeazzo Trezzo. Accomuna questo gruppo di predicatori agostiniani, nel decennio inaugurato proprio dal quaresimale astigiano del M., non solo la diffusione di una concezione radicale della predicazione e di conseguenza della dottrina della grazia e delle opere, ma anche l'estensione della predicazione senza distinzioni tra i diversi tipi di pubblico.
Grazie alla sua eloquenza, il M. fu incaricato dal vicario generale dell'Ordine, Giovanni Antonio da Chieti, di predicare a Roma nella chiesa di S. Agostino nella quaresima del 1538. In quell'occasione, cui presenziò un affollatissimo uditorio, egli insistette sui temi delle indulgenze, dell'autorità del pontefice e della salvezza per fede, esprimendo velatamente orientamenti filoprotestanti. Ne nacque una vera e propria controversia, durante la quale il M. fu avversato da Ignazio di Loyola e dai suoi seguaci, a loro volta oggetto di accuse da parte di alcuni spagnoli fautori del Mainardo. In giugno lasciò Roma per Verona, dove, nel capitolo generale degli agostiniani, gli fu conferita anche la carica di vicario di S. Agostino in Pavia, cui però avrebbe rinunciato già nel 1540. Il 12 giugno inoltre il capitolo decise di inviarlo, insieme con Girolamo Seripando e Agostino Museo da Treviso, a testimoniare al papa Paolo III l'ortodossia dell'Ordine e a chiedere la nomina di due cardinali cui potessero rivolgersi i frati sospettati o accusati di eresia. Nel 1539 continuò a diffondere a Pavia le proprie concezioni. Durante la quaresima del 1540, a Venezia, conquistò alle idee riformate ulteriori proseliti, fra i quali i nobili Girolamo e Filippo Marcello; nondimeno in luglio fu annoverato dal generale Girolamo Seripando tra i padri cui soli era concessa la licenza di predicare. A Milano, durante la quaresima del 1541, predicò in S. Marco, seminando "in pubblico et in privato diverse heresie", come denunciò il governatore Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto, al capitano di giustizia e al podestà (Chabod, doc. 27). Il successivo 13 giugno, pertanto, il governatore emanò l'ordine di arresto contro di lui e il confratello Niccolò da Verona, ma il M. riuscì a fuggire a Tirano in Valtellina. Messosi a propagandare nuovamente le proprie idee, alla fine del 1541, in seguito a un ordine del vescovo di Como, Cesare Trivulzio, dovette lasciare anche quella località e trasferirsi a Chiavenna. Il 24 febbr. 1542 Seripando stabilì che il M., nel frattempo raggiunto anche dal bando civile, fosse espulso dall'Ordine insieme con Della Rovere. Al contrario Paolo III, il 14 apr. 1543, lo invitò inutilmente a ritornare in Italia.
Qualche anno dopo, nel 1547, si scoprì che il M. aveva mantenuto contatti epistolari con alcuni confratelli del convento di S. Marco a Milano (tra cui l'autorevole Stefano da Sestino), che con i complici furono colpiti da misure disciplinari e da provvedimenti civili; e anche in seguito l'accusa di intrattenere corrispondenza con lui circolò nell'Ordine come pericoloso strumento di intimidazione nei conflitti interni alle comunità. Stessa sorte rischiarono quanti vennero a contatto con i libri eterodossi e luterani della biblioteca del M., che egli aveva abbandonato nella fuga.
A Chiavenna la posizione del M., inizialmente precaria, mutò quando Ercole von Salis decise di assumerlo come precettore, affidandogli il tempietto di S. Maria del Paterino e corrispondendogli lo stipendio di pastore della comunità; in questo frangente l'esule F. Negri divenne suo coadiutore. Il 3 nov. 1545, scrivendo per la prima volta a H. Bullinger, il M. accennò alle sue divergenze con il siciliano Camillo Renato, sorte in precedenza e incentrate prevalentemente sul dogma eucaristico, rispetto alle quali il Curione, da Losanna, aveva già tentato di favorire una conciliazione fra i due italiani. Comunque, il loro rapporto non degenerò almeno fino all'autunno 1547, quando il M. concepì uno scritto, da identificare forse con il Sermone dell'eucharistia, incluso in appendice all'Annatomia della messa (s.n.t. 1552). Renato rispose con il Trattato del battesimo e della S. Cena, steso in forma di lettera indirizzata al M., nel quale finiva per riferire indirettamente le posizioni dell'avversario.
Questi primi scritti testimoniano, più che divergenze su punti particolari, una definitiva incomunicabilità tra due diverse provenienze e formazioni culturali. Come si evince dal testo di Renato, che punta a screditare totalmente il valore anche simbolico dei sacramenti in base a una rigorosa distinzione umanistica fra res e verba, il M. sosteneva invece che i sacramenti valgono a confermare le promesse divine. Utilizzando la forma delle animadversiones caratteristiche dell'epoca, il M. replicava al Trattato con uno scritto oggi mutilo, nel quale accusava l'avversario di capziosità e spirito pertinace, ma non apertamente di filoanabattismo. Al sinodo che si tenne alla metà di novembre a Chiavenna, comunque, partecipò solo il M., il quale presentò una confessione di fede scandita in venti capitoli, giudicata ortodossa e pia dagli altri pastori. Di questa si conservano soltanto ventidue articoli relativi al decimo capitolo e contenenti prevalentemente un elenco delle dottrine eretiche attribuite a Renato (Articuli Camilli Renati).
A partire dalla primavera del 1548 il M. si trovò a fronteggiare anche F. Stancaro, il quale a sua volta aveva conquistato il Negri alle proprie opinioni; per ottenere ragione il pastore ricorse invano ai colleghi di Coira, Giovanni Comander e Giovanni Blasio, e in seguito si recò munito delle loro lettere di raccomandazione a Zurigo, dove Bullinger radunò il corpo pastorale per comporre il dissidio fra i contendenti. Il parere di Bullinger sulle controversie è contenuto negli Acta ministrorum Tigurinae Ecclesiae cum clarissimis viris d. Augustino Maynardo ac Francisco Stancaro Mantuano, del 7 giugno 1548.
Nella prima parte del documento sono esaminate le dottrine del M. e di Stancaro. Mentre questi, incline al pensiero luterano, scorge nei sacramenti la grazia per mezzo della quale viene concessa all'uomo la remissione dei peccati, il M., seguendo H. Zwingli, afferma che i sacramenti costituiscono solamente i simboli della grazia divina e della giustificazione. Su questo punto Bullinger e i pastori finirono con il dare torto allo Stancaro, evitando però di contraddirlo troppo esplicitamente. Nella seconda parte, concernente il confronto tra il M. e Renato con alcuni suoi seguaci, si esamina ancora il parere dell'ex agostiniano sui sacramenti, che possono in ogni caso "confirmare fidem vel animos in fide vel promissiones Dei, quae apprehenduntur fide" (Armand-Hugon, p. 112). Renato concepisce invece l'eucarestia e il battesimo come manifestazioni esteriori dell'appartenenza di un fedele a una Chiesa, incapaci di modificare la natura spirituale del cristiano. Anche in questo caso, pur pacificamente, gli zurighesi diedero ragione al Mainardo.
Il M. proseguì fino a Basilea per appellarsi alla Chiesa locale, che approvò interamente la sua confessione. Nel maggio 1549, in una lettera a Bullinger, per la prima volta il M. accusò Renato di essere la guida degli anabattisti. In quell'anno fu accusato presso lo stesso Bullinger da parte del filoluterano Baldassarre Altieri di trascurare la Chiesa di Chiavenna. Il disagio del M. in quelle circostanze fu tale da indurlo a scrivere a Bernardino Ochino e manifestargli l'intenzione di raggiungerlo in Inghilterra. Renato approfittò quindi del momento di debolezza dell'avversario per stampare il perduto Errores, ineptiae, scandala, contradictiones Augustini Mainardi a XLV anno, nel quale raccolse sotto 125 paragrafi i pretesi errori del pastore, preceduti da una lettera "mordacissima". Alle accuse di Renato, il M. rispose con uno scritto tutt'oggi irreperibile. Mentre il sinodo retico, radunatosi ai primi di agosto, prese qualche decisione, che non attuò subito, il M. richiese ancora aiuto all'antistes di Zurigo. In quel periodo l'instabile Negri, istigato da Renato, aveva infatti redatto, con l'assenso di Blasio e Comander, una propria confessione di fede, che il vescovo apostata di Capodistria, Pietro Paolo Vergerio, presentò al Mainardo. Questi la rifiutò riconoscendovi le idee di Stancaro, e il 23 ott. 1549 avvertì quindi Bullinger di guardarsi dai contenuti del testo, che Vergerio intendeva diffondere in Italia. Nel dicembre successivo alcuni delegati dal sinodo retico favorirono un incontro tra il M. e Renato per giungere a un accordo: la discussione tra i due, che avvenne in casa del nobile Francesco Pestalozzi, si protrasse per due giorni "satis acriter odioseque" (Armand-Hugon, p. 7). I giudici che rappresentavano l'ortodossia zwingliana dettero ragione al M. e ordinarono a Renato di aderire a una confessione di fede stesa sulla traccia di quella che il M. aveva compilato circa due anni prima.
La lunga contesa con Renato aveva costretto il M. a precisare le sue dottrine. Oltre agli scritti ricordati, mise a punto il Trattato dell'unica e perfetta satisfattione di Cristo (stampato nel 1551 s.n.t., probabilmente non a Poschiavo, ma a Zurigo, da Wyssenbach e Gesner). L'opera, grazie a cui il M. intendeva offrire alla Chiesa di Chiavenna e dei Grigioni una sorta di catechismo delle dottrine essenziali del protestantesimo, si può dividere in due parti: la prima documenta le tesi filozwingliane del M., fondate soprattutto sulla Sacra Scrittura e sui testi di s. Agostino, mentre la seconda punta a confutare più esplicitamente gli errori altrui. Quest'ultima è rivolta soprattutto contro i dogmi della Chiesa cattolica, e specificamente contro il riscatto dei peccati ottenuto tramite le opere, le pene o la soddisfazione dei santi; grande attenzione è dedicata anche alla questione del purgatorio. Riguardo alla concezione dei sacramenti il M. rimane aderente alla teoria, sostenuta da Zwingli, secondo cui si tratta di segni, ma contestualmente denuncia anche il pericolo della deriva nell'anabattismo. L'opera, il cui stile è sempre facile e piano "per gli soli semplici et idioti", fu diffusa prevalentemente nei Grigioni, perché in Italia fu messa all'Indice nel 1559. Un secondo scritto del M., Uno pio e utile sermone della gratia di Dio, contra li meriti umani, del 1552, è aggiunto al Trattato (senza l'indicazione del luogo di stampa): qui il M., partendo dalla confutazione del valore attribuito alle opere umane, sviluppa il suo pensiero sulla predestinazione. Un terzo testo è l'Anatomia missae, scritto alla metà del 1550, circolato verosimilmente solo in forma manoscritta e andato smarrito; ne esiste una versione italiana (Annatomia della messa, 1552), pubblicata forse a Poschiavo da Landolfi o a Zurigo da Wyssenbach e Gesner, sotto lo pseudonimo di Antonio di Adamo, e posta anch'essa all'Indice nel 1559, che dovrebbe costituire con ogni probabilità una rielaborazione dell'originale latino realizzata da Vergerio. Nel 1555 a Ginevra, dietro sollecitazione del segretario di Calvino, C. de Johnvillars, era stata pubblicata una traduzione francese da parte di J. Crespin; si ha notizia anche di una traduzione inglese (Strasbourg 1556) e di una traduzione latina liberamente tratta dalla versione francese (Missae ac Missalis anatomia, s.n.t. 1561); infine un'ulteriore versione italiana, rimasta manoscritta fino al 1986, fu riproposta da Narciso di Prampero da Udine sempre nella seconda metà del sedicesimo secolo (A. Mainardi, Specchio de verità, in Narcisso Pramper da Udene: un prete eretico del Cinquecento, a cura di L. De Biasio, Udine 1986, pp. 35-42). L'opera è divisa in quattro parti e, sebbene rielaborata da Vergerio, mantiene l'originale prospettiva zwingliana del Mainardo. Nel testo dapprima si demolisce il valore della tradizione della messa grazie alla citazione di passi biblici, quindi si effettua l'"anatomia" vera e propria. Ogni parola pronunciata durante il rito è analizzata nel suo significato, rilevando così una serie di abusi e ribadendo per converso il valore dell'atto compiuto da Cristo, unico mediatore offertosi in sacrificio per gli uomini. Nella conclusione si afferma che la messa, il più grande sacrilegio mai concepito, si deve considerare il vero mistero dell'Anticristo. Nel 1563 il gesuita Antonio Possevino replicò all'opera con il Trattato del santissimo sacrificio dell'altare detto messa, di cui rimangono pochissimi esemplari. Una quarta opera del M., aggiunta alla prima edizione italiana dell'Anatomia, è intitolata Sermone del sacramento della eucharestia. Qui il pastore analizza da un punto di vista storico e teologico la questione della Santa Cena, schierandosi a favore della formula zwingliana di una presenza puramente spirituale di Cristo e sostenendo tuttavia che il sacramento vale a confermare le promesse divine. Alcuni storici della Compagnia di Gesù attribuirono erroneamente al M. anche il Sommario della Sacra Scrittura, rimasto inedito fino al 1986. Recentemente è stata attribuita al M. anche l'opera Il vero ordine di pregare e di confessarsi a Dio solo con il modo di vivere il matrimonio, pubblicata a Poschiavo nel 1551, ma al momento introvabile.
All'inizio del 1553 il M. fu coinvolto in un nuovo scontro, questa volta da Vergerio, che stava cercando di diffondere nei Grigioni una sua traduzione di un catechismo del riformatore J. Brenz, favorevole alla teoria luterana della consustanziazione. Il M. chiese con successo a Bulliger di non permettere che il testo venisse pubblicato a nome delle Chiese retiche. L'anno successivo egli prese parte al dissidio della Chiesa di Locarno, sconvolta dagli anabattisti, esprimendosi recisamente contro questo tipo di posizioni. In un'opera pubblicata dal Curione nel corso dello stesso 1554, il De amplitudine b. Regni Dei, il M. compare come interlocutore dell'autore e come suo "iniziatore" alla verità nascosta, nella quale Cantimori (p. 195) avverte "un'eco di eresie rinnovanti motivi manichei". Nel secondo dialogo Curione affida al personaggio del M. addirittura la difesa della tesi contenuta nel titolo, secondo un'interpretazione latamente zwingliana.
In questo periodo a Chiavenna il numero dei fedeli protestanti stava crescendo, tanto che il M. decise di regolamentare più rigidamente la situazione. Il 2 genn. 1561 il Concistoro emanò infatti la Definitio Clavennensis Ecclesiae, che imponeva per tutti gli appartenenti alla Chiesa la sottoscrizione della confessione di fede dello stesso pastore, pena la scomunica. Conseguentemente, nel febbraio successivo alcuni oppositori del M., tra i quali l'antitrinitario M. Florio, Pietro Leone (allievo di Renato e autore di un libello contro il M.), l'anabattista e antitrinitario Lodovico Fieri, lo costrinsero a chiedere a Bullinger se per gli "idiotae et simplices" fosse sufficiente la confessione del simbolo apostolico, come loro avrebbero desiderato, o al contrario fosse necessario includere anche riferimenti alla confessione dei simboli di Nicea, Atanasio e Damaso, come il M., determinato a scongiurare ogni tentazione antitrinitaria, sosteneva fermamente. Un'ambasceria di cinque pastori dei Grigioni presentò il 24 maggio 1561 a Bullinger una lista di 26 articoli che, oltre a varie altre questioni disciplinari, vertevano in particolar modo su quella dei simboli. Quest'ultimo, pur riconoscendo al M. la ragione in questa disputa, lo invitò alla moderazione, ricordandogli anche di evitare ingerenze nell'altrui giurisdizione pastorale.
Sul fronte del rapporto con i cattolici il M., oltre alla divisione delle rendite ecclesiastiche in proporzione alla percentuale dei fedeli delle due Chiese, si impegnò per ottenere la dispensa per i riformati dall'obbligo di osservare le festività tradizionali. Nel 1548 aveva dato il suo appoggio all'infruttuoso tentativo di Altieri di convincere i riformatori di Zurigo perché sostenessero politicamente il movimento evangelico nella Repubblica di Venezia. Nell'esercizio dell'attività pastorale il M. fu sempre molto prodigo anche nei confronti dei profughi, attraendo nella comunità dei Grigioni illustri esuli religiosi, quali Isabella Bresegna al momento della sua fuga, nel 1557; relativamente a questi anni sono documentati anche contatti con l'ambiente valdesiano del vescovo Vittore Soranzo a Bergamo.
Il M. morì il 31 luglio 1563 a Chiavenna.
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