GIUSTINIANI, Agostino
Nacque nel 1470 a Genova da Paolo Giustiniani Banca e Bartolomea Giustiniani Longo, e venne battezzato con il nome di Pantaleone. Già il nonno paterno, Andreolo, si era distinto per benemerenze culturali, mentre il padre aveva partecipato a diverse importanti missioni diplomatiche per conto della Repubblica.
Conformemente, quindi, alle tradizioni familiari il G. ricevette un'educazione piuttosto accurata studiando, oltre alla grammatica e all'aritmetica, la letteratura volgare. Precocemente maturò anche la sua vocazione religiosa, tanto che all'età di quattordici anni tentò di farsi accogliere nel convento domenicano genovese di S. Maria di Castello, incontrando però la ferma opposizione dei genitori. Per distrarlo da tali propositi, la famiglia decise di inviarlo a Valenza, a fare pratica di mercatura presso uno zio. Dopo circa tre anni di soggiorno in Spagna, il G., ritornato in Italia a seguito di una grave malattia, il 26 apr. 1487 riuscì a coronare le sue aspirazioni, entrando come novizio, a nome del convento genovese di Castello, in S. Apollinare fuori le mura a Pavia con il nome di fra Agostino.
Nella Congregazione domenicana riformata di Lombardia il G. rimase ben ventisette anni e mezzo, percorrendo le tappe del lungo curriculum studiorum dell'Ordine. Ricevuta l'ordinazione sacerdotale il 20 sett. 1494 a Bologna, il 18 luglio dell'anno seguente venne accolto come studente nel convento bolognese di S. Domenico: il 1° giugno 1503, al capitolo generale di Piacenza, fu nominato magister studiorum nello Studio conventuale bolognese e, sempre in S. Domenico, il 20 maggio 1512 fu promosso baccelliere con il compito di leggere le Sententiae di Pietro Lombardo.
Nel frattempo, il G. aveva anche avuto modo di coltivare relazioni e interessi diversi rispetto a quelli legati all'attività didattica dello Studio conventuale, improntata alla tradizione scolastica. Durante il soggiorno bolognese, egli conobbe probabilmente Giovan Francesco Pico della Mirandola, F. Beroaldo (non si sa se il giovane o il vecchio) e Iacopo Antiquari. È in particolare una lettera dell'Antiquari, da Milano del 23 apr. 1506, a fornire il primo documento della fama raggiunta dal G. nei circoli umanistici e dell'interesse con il quale veniva seguita la sua attività di biblista.
Appunto per potersi interamente dedicare ai propri progetti di edizione poliglotta del testo biblico, nel 1514 il G. chiese e ottenne la remissione dell'impegno di leggere le Sententiae nello Studio di S. Domenico. Già nel 1513, però, il G. aveva fatto il suo debutto nella repubblica delle lettere curando la pubblicazione presso lo stampatore veneziano Alessandro dei Paganini della traduzione di Ambrogio Traversari del Theophrastus di Enea di Gaza (Aeneae Platonici Graeci Christianissimi De immortalitate animorum deque corporum resurrectione, cui titulus est Theophrastus) e del proprio lavoro Precatio pietatis plena ad Deum omnipotentem composita ex duobus et septuaginta nominibus divinis, Hebraicis et Latinis una cum interprete.
Con la Precatio il G. dava un primo, significativo saggio delle sue competenze ebraistiche e dei suoi orientamenti culturali. Nella prima parte dell'operetta, difatti, il G., riprendendo, in modo più fedele di quanto non avesse fatto J. Reuchlin nel De verbo mirifico del 1494, un tema tradizionale della speculazione ebraica, forniva l'elenco dei 72 attributi che definiscono la divinità nei suoi rapporti con le creature. Nell'allegato "commentariolo", poi, sviluppava una serie di riflessioni sulla natura divina chiaramente improntate a una spiritualità neo-platonica di matrice dionisiana.
Il 22 giugno 1514 il G. era a Genova, il 23 settembre successivo fu nominato vescovo di Nebbio, nella Corsica settentrionale, grazie ai buoni uffici del cugino cardinale B. Sauli. Della protezione del cardinal Sauli il G. intendeva avvalersi anche per poter realizzare il suo ambizioso progetto di edizione poliglotta della Bibbia. In una lettera riportata in modo frammentario dal Gessner (c. 105r), difatti, il G., informando il cugino di aver terminato, oltre a quella del Nuovo Testamento, anche la traduzione in ebraico, latino, greco, arabo e aramaico del Vecchio, lo esortava esplicitamente ad adoperarsi affinché l'intera opera venisse pubblicata.
In realtà, il G. riuscì a dare alla luce, sostenendo di tasca propria le spese, soltanto il testo del Salterio, stampato a Genova, nella casa di suo fratello Nicolò, dal tipografo milanese Pietro Paolo Porro, chiamato apposta da Torino per l'occasione. Il colophon reca la data del 16 ott. 1516.
Pensato come semplice saggio del più complessivo lavoro biblistico del G. e dedicato a Leone X, nella speranza che il papa si sarebbe convinto a patrocinare l'edizione anche dei restanti libri biblici, il Psalterium Hebraeum, Graecum, Arabicum et Chaldeum, cum tribus Latinis interpretationibus et glossis rimane, comunque, uno dei primi e più significativi documenti della grande stagione delle Bibbie poliglotte. Il testo a stampa presenta, disposti su due carte, in otto colonne parallele (da qui il nome di Octaplum con il quale il Salterio sarà noto), nell'ordine: l'originale ebraico, la sua traduzione letterale in latino a opera del G., la versione indicata come "latina comune" (cioè la gallica di s. Girolamo, inclusa, poi, nella Vulgata), il testo greco (che corrisponde sostanzialmente a quello dei Settanta), quello arabo, il Targum aramaico, la traduzione latina di quest'ultimo e, infine, gli scolii di commento.
Sia a livello testuale, come sottolinea lo stesso G., sia, ancor più chiaramente, nell'apparato di commento, il Salterio evidenzia principalmente gli interessi del G. per la cultura ebraica. Decisamente preponderanti sono nelle note le citazioni della letteratura rabbinica postalmudica (in particolare, ovviamente, del semiufficiale commento ai Salmi, la Midrash Tehilim), mentre non mancano anche rinvii a commentatori ebraici medioevali come Salomen ben Isaac da Troves (detto Yarchi o Rushi), M. Maimonide, D. Qimchi. Di particolare interesse sono però soprattutto le non poche citazioni della letteratura cabalistica, e in specie dello Sefer Zohar ("Libro dello splendore"), piegate dal G. a una ortodossa interpretatio cristiana. Gran parte di tali citazioni furono successivamente riproposte da Pietro Colonna "Galatinus" nel De arcanis catholicae veritatis (1518). Al contrario, mancano del tutto negli scolii del G. riferimenti alla tradizione scolastica e la stessa autorità di s. Girolamo viene utilizzata solo marginalmente e, talvolta, in chiave critica. Fra gli esegeti cristiani, compare con una certa frequenza solo il contemporaneo J. Lefèvre d'étaples. È anzi per il tramite delle parole del Lefèvre che il G. affronta alcune tematiche di attualità nel dibattito culturale e religioso del tempo, dalla condanna della magia alla presa di posizione contro le teorie sulla mortalità dell'anima. L'avere inoltre seguito l'interpretazione lefevriana del salmo VIII, v. 6, coinvolse il G. nella controversia esegetica che opponeva lo stesso Lefèvre a Erasmo, il quale proprio al G. rivolgerà alcuni dei suoi più appuntiti strali polemici.
Il passo forse più conosciuto degli scolii è però la lunga nota al v. 5 del salmo XVIII, nota in cui sono narrate la vita e le imprese di Cristoforo Colombo. Di fatto, fino al Settecento quella del G. rimase la sola testimonianza edita sui viaggi di Colombo proveniente da un suo concittadino e quasi coetaneo. In realtà, pur distaccandosene per alcuni particolari, lo scolio al salmo XVIII dipende pressoché interamente da un precedente "commentariolus" del genovese A. Gallo. A parte, tuttavia, il valore documentario, l'excursus colombiano del G. attesta con chiarezza i legami fra le scoperte e le aspettative culturali e religiose di renovatio della Cristianità.
Terminata la pubblicazione del Salterio, il G., animato da speranze di successo culturale ed economico, si recò a Roma presso il cugino cardinale Sauli. Il 29 dic. 1516 presenziò a Roma alla undicesima sessione del V concilio Lateranense; il 13 marzo del 1517 partecipò alla congregazione preparatoria e, il 16 marzo, all'apertura della dodicesima sessione, nella quale prese la parola il 17 aprile relativamente alla progettata crociata antiturca. Di lì a poco, la scoperta del complotto del cardinale A. Petrucci per attentare alla vita del papa privò il G. del sostegno del suo protettore Sauli, che, pesantemente coinvolto nella congiura, fu privato delle sue cariche e relegato a Monterotondo. Fiducioso pur sempre nella benevolenza papale, il G. passò al seguito del cardinale B. Ferrero, vescovo d'Ivrea.
L'anno successivo, il 1518, il G., grazie all'intercessione dell'influente vescovo di Parigi E. Ponchier e del confessore del re, il domenicano G. Petit, erudito legato ai circoli umanistici transalpini, fu chiamato da Francesco I a Parigi per insegnare l'ebraico all'Università, con una pensione di 300 scudi e il titolo di consigliere ed elemosiniere. Atteso in Francia già nell'aprile 1518, alla fine dell'anno il G. svolgeva regolarmente i suoi corsi presso il collegio domenicano di St Jacques. Nel frattempo, aveva compiuto un viaggio d'istruzione e - si direbbe - di autopromozione nei Paesi Bassi e in Inghilterra. In ottobre, a Lovanio aveva fatto visita a Erasmo, riconciliandosi, almeno in parte, con lui, mentre in Inghilterra aveva avuto modo di entrare in contatto con umanisti del calibro di T. More, J. Fisher, T. Linacre e W. Pace. Durante il soggiorno parigino, il G. svolse, accanto ai suoi impegni di docente, un'intensa attività editoriale in collaborazione con i maggiori tipografi transalpini, dando per la prima volta alle stampe una decina d'importanti testi ebraistici, neoplatonici e umanistici.
Direttamente collegate alle esigenze didattiche dei suoi corsi di ebraico furono le due edizioni del grammatico M. Qimchi, la Hebraicae grammatice rabbi Mosse Chimchi aureus libellus, stampato da Thomas Anshelm, a Hagenau nel 1519 e il Liber viarum linguae sanctae rabbi Mosse Qimchi…, stampato a Parigi, da J.B. Ascensio, nel 1520. Alla necessità di testi per l'insegnamento universitario rispondevano anche i Libellus Ruth, Libellus Lamentationum Hieremie, Libellus de Numeris Hebraice omnia (Parrhisiis, apud Gourmontium, 1520), curato sempre dal G. e rivisto, non a caso, da due suoi studenti N. "Cunellus" e P. de Sousbslefour, il quale, nella lettera prefatoria, non mancò di esaltare i meriti didattici del maestro.
Fu invece un'occasione privata, la richiesta dell'amico M. "Domilutio", dottore in utroque iure, protonotario apostolico e culture di studi classici e biblici, a spingere il G. a pubblicare la traduzione latina dall'originale ebraico del Liber beati Iob (ibid. 1520).
Rivolgendosi a un più ampio pubblico di lettori umanisti della Sacra Scrittura, il G. in tale circostanza non esitò a prendere apertamente posizione contro i custodi della tradizione scolastica, sostenitori dell'intangibilità del testo latino tramandato, sul quale si baserà la Vulgata. È interessante, a tale proposito, osservare che già in precedenza Erasmo, rivolgendosi l'11 ag. 1519 all'inquisitore J. De Hoogstraten, in relazione alla condanna delle opere di J. Reuchlin aveva sottolineato come anche il domenicano G. avesse scritto cose che offendevano i dottori della Sorbona.
Riferimenti alla letteratura cabalistica, che pure rappresentava uno dei temi principali delle disgrazie inquisitoriali del Reuchlin, compaiono nel titolo di un'altra opera pubblicata dal G. a Parigi, la Victoria Porcheti adversus impios Hebreos in quo tum ex sacris literis, tum ex dictis Talmud, ac Cabbalistarum, et aliorum omnium auctorum, quos Hebrei recipiunt, monstratur veritas catholicae fidei (ibid., de Marnef, 1520). Riferimenti tanto più interessanti in quanto, in realtà, l'operetta (scritta alla fine del Duecento dal certosino genovese Porchetto Salvago) non sviluppa alcun autentico argomento di derivazione cabalistica.
In rapporto agli interessi ebraistici del G. si pone anche la pubblicazione del Dux seu Director dubitantium aut perplexorum (ibid., ab Jadoco Badio Ascensio, 1520), traduzione latina della celebre opera di Maimonide esemplata, pare, su un raro codice conservato nel monastero di Kaiserheim. Per lo stampatore-umanista J.B. Ascensio il G. curò inoltre l'edizione di due importanti testi della tradizione neoplatonica, le Centum et duae questiones… super Genesim di Filone Alessandrino (Parisiis 1520) e la celeberrima versione del Timeo di Calcidio (ibid. 1520). La pubblicazione, sempre per i tipi dell'Ascensio, delle opere storico-geografiche di Iacopo (o Giacomo) Bracelli (Lucubrationes…, ibid. 1520), cancelliere-umanista della Repubblica di Genova, dovette, invece, rispondere a una attenzione per le cose genovesi e, in genere, italiane, legata all'attualità della politica francese, come pare dimostrare la dedica a Renato di Savoia "Grand Maître de l'Hotel" e ascoltato consigliere di Francesco I. Di minore significato sono, infine, le altre due opere edite dal G. a Parigi, entrambe dell'oscuro erudito G. Matteo da Luni: il perduto De mulieribus claris e il De rerum inventoribus (centone storico-mitologico pervenutoci in una ristampa seicentesca: cfr. I. Mattei Luni Libellus de rerum inventoribus, Hamburgi 1613).
Nel 1522, ritornato in patria, il G. assistette al sacco imperiale di Genova, rimanendo anche ferito da un colpo di archibugio. Nell'autunno dello stesso anno si recò in visita alla sua diocesi, che non vedeva da circa otto anni. A Nebbio il G. rimase per ben nove anni, anche allo scopo, come lui stesso ammette, di trovare riparo dai drammatici eventi dell'epoca. Durante tale lunga residenza si dedicò a risollevare le sorti, anzitutto materiali, della povera e disastrata diocesi. Tentò anche di migliorare la cultura e la disciplina del suo clero, sottoponendo gli ordinandi all'esame dei requisiti d'istruzione necessari e pubblicando alcune opere in volgare per uso dei chierici, oggi perdute. Un'energica azione di riforma dovette, tuttavia, restare in parte disattesa anche per gli ostacoli frapposti dal Banco di S. Giorgio, signore dell'isola: il 10 genn. 1523, ad esempio, i Protettori del Banco intimarono al G. di revocare la scomunica inflitta a un canonico, in quanto era costui "uno dei principali e cari amici" che le autorità genovesi avessero in Corsica.
Il frutto più duraturo del soggiorno del G. fu il Dialogo nominato Corsica. Terminato, in base alla lettera prefatoria, nel luglio del 1531, il breve testo (120 pagine nell'edizione in quarto) rimase inedito fino al 1882 (anno in cui fu pubblicato a cura di V. De Caraffa nel Bulletin de la Société des sciences historiques et naturelles de la Corse), ma godette tra Cinque e Settecento di una notevole fortuna fra gli studiosi che si interessavano alla realtà dell'isola.
Si trattava della prima descrizione moderna della Corsica, priva di significativi precedenti nella cultura geografica umanistica, condotta in gran parte sulla base di osservazioni personali senza compiacimenti antiquario-eruditi. Non facevano, d'altra parte, difetto al G. competenze anche "tecniche" nel campo degli studi geografici, tanto è vero che, a integrazione del testo del Dialogo, disegnò una rappresentazione cartografica della Corsica, che, pur non conservatasi, sembra sia servita da modello per la carta contenuta nell'edizione del 1558 delle Isole appartenenti all'Italia di L. Alberti.
Alla ricca messe di dati geografici e, soprattutto, demografici ed economici si congiungono nel Dialogo precise finalità politiche. Dedicata, non a caso, al maggiore uomo politico genovese del tempo, Andrea Doria, l'operetta intendeva, difatti, indicare la necessità di una serie d'interventi atti a rendere più efficiente e razionale l'amministrazione della Corsica. Sotto lo stimolo della riforma istituzionale di Genova del 1528, il G. proponeva, in quest'ottica, di affidare l'isola al diretto controllo "statale" sottraendola al "paterno reggimento" del Banco di S. Giorgio.
Furono proprio le notizie del "novo successo di libertà et pacifico stato" a Genova dopo la riforma del 1528 a spingere il G. a fare ritorno nella città natale. A Genova il G. trascorse pressoché continuamente gli ultimi anni fino alla vigilia della morte, con le sole eccezioni di un soggiorno a Roma presso il fratello Nicolò nel 1531 e di una nuova visita alla diocesi nel 1532. Impegnatosi nella redazione degli Annali genovesi, il G. aveva già praticamente terminato l'opera il 10 ag. 1535, quando ne scrisse la lettera dedicatoria "Al Duce, al Senato, et a tutto il popolo di Genova".
Il G., tuttavia, non riuscì a vedere pubblicata la sua ultima fatica: nel 1536 in viaggio verso Nebbio trovò probabilmente la morte nel mare di Corsica, anche se per un certo tempo si pensò che fosse, invece, stato catturato dai pirati barbareschi.
I Castigatissimi annali… della eccelsa e illustrissima Repubblica di Genova uscirono postumi a Genova nel 1537, a cura di L. Lomellini Sorba, per i tipi di Antonio Bellone. Opera dichiaratamente compilativa i Castigatissimi annali miravano essenzialmente, anche attraverso l'uso di un volgare di matrice settentrionale lontano dal purismo del Bembo, alla finalità etico-politica di "instruere il populo nostro ad essere amatore della Repubblica", proponendo un modello di "Stato cittadino" fondato sulla larga e paritetica gestione della cosa pubblica da parte della classe dirigente aristocratica.
Dei sei libri che compongono l'opera, il primo, che giunge fino al 1100, è interamente autonomo rispetto alla narrazione degli annalisti sincroni medioevali. Le carte Ir-XXVIIr sono occupate da una Descrittione della Lyguria che, pur dipendendo in parte dal precedente della Descriptio orae Ligusticae di I. Bracelli, fornisce un'originale e articolata rappresentazione della realtà ligure del tempo nelle sue componenti demografiche, economiche e urbanistiche. Per il primo, come pure per i successivi libri, il G. non mancò di utilizzare anche i documenti dell'Archivio del Comune, il che gli permise di narrare con sufficiente ricchezza le vicende genovesi per periodi non coperti dagli annalisti precedenti (l'Alto Medioevo, appunto, ma soprattutto gli anni di metà Quattrocento trattati nel libro V). Per gli anni 1514-28 gli Annali del G. rappresentano la fonte primaria per la storia genovese. Fra i contributi più significativi dei Castigatissimi annali si devono, inoltre, ricordare le notizie sulle figure culturali di spicco della città, specie per il XV e XVI secolo. Alle carte CCXXIIIr-CCXXVr il G. inserì inoltre una dettagliata notizia autobiografica, che rappresenta, ancora oggi, la più completa fonte di informazione sulla sua vita e la sua attività.
L'autobiografia attesta che il G. lasciò la sua biblioteca, ricca di un migliaio di volumi, in dono alla Repubblica. Ben presto, però, tale patrimonio andò smarrito: i due inventari pervenutici, del 1537 e del 1543, riportano, rispettivamente, circa 20 e 380 titoli. Prevalgono i volumi di diritto, ma si ritrovano anche importanti testi umanistici e di filosofia platonica, oltre a opere di autori classici, scolastici e a non meglio precisati libri in ebraico e in altre lingue orientali.
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