DONI, Agostino
Nacque a Cosenza intorno alla metà del sec. XVI: "Consentimis, medicus et philosophus" si dice egli stesso nel frontespizio dell'unica sua opera nota.
Le informazioni sul periodo della sua vita anteriore agli anni dell'esilio sono pochissime, anche se di qualche rilievo. La supposta iscrizione della sua famiglia nel Libro degli onorati, cioè nell'elenco delle famiglie che aspiravano all'ascrizione alla nobiltà, non è confermata da documenti. Proviene dal D. stesso la notizia che, ancora giovanissimo, fu detenuto per cinque anni nelle carceri dell'Inquisizione ("religionis causa me habuit in carcere adolescentem per quinquennium"), e si è giustamente congetturato (De Franco, pp. 18-19) che questo episodio vada riportato al periodo delle più intense persecuzioni in Calabria, culminate nel 1561 con la nota strage dei valdesi di San Sisto e di Guardia Piemontese. Compì gli studi di filosofia e medicina probabilmente a Padova o a Ferrara. Fu, comunque, a Ferrara che il D. incontrò Francesco Patrizi, il quale lo mise a parte di suoi lavori ancora inediti, in particolare dell'Amorosa filosofia. E poiché è accertato che il Patrizi scrisse quest'opera tra il 1º aprile e il 29 ag. 1577, se ne deduce che l'espatrio del D. fu posteriore a questa data. Come il D. stesso dichiarò al naturalista basileese Theodor Zwinger, dopo la lunga detenzione giovanile, varie altre volte, prima della fuga dall'Italia, corse il pericolo di perdere la libertà e la vita.
Tra l'ottobre e il novembre del 1579 il D. giunse a Basilea. Ma, secondo la sua stessa testimonianza, non vi giunse direttamente dall'Italia: sempre allo Zwinger dichiarò che sull'intolleranza, che ormai si praticava a Basilea, critiche e lamentele egli aveva sentito durante precedenti soggiorni "in alienis civitatibu" e "in terra Germaniae" (cfr. lettera ed. in Rotondò, pp. 533.36). In questo offuscarsi dell'immagine della tollerante Basilea nella mente del D. e degli esuli con i quali egli ebbe i primi contatti c'era certamente il riferimento a fatti recenti, in particolare ai procedimenti che nel 1578 avevano portato all'espulsione di Francesco Pucci dalla città e alla sia pur breve incarcerazione di Pietro Perna per aver dato alle stampe scritti inediti di Sebastiano Castellione con la collaborazione di Fausto Sozzini. Tuttavia, la prima accoglienza fatta al D. a Basilea fu generosa. Trovò dapprima ospitalità nel collegio agostiniano allora diretto da Pietro Caio (Caius, Gaius), figura molto influente nel mondo accademico basileese, nel 1579 decano del "Prytaneum" dell'università. Al Caio risultano intestati i vari sussidi concessi al D. direttamente dall'università oppure da Basilius Amerbach sui fondi dell'eredità di Erasmo: e nelle relative annotazioni il D. è detto costantemente "homo doctus" e "ob religionem profugus". L'ultima di queste annotazioni è del 4 febbr. 1580 e dà notizia del recente dottorato in medicina conseguito dal D. due giorni prima ("Pro Antonio [sic] Dono Calabro proxime in doctorem medicinae promoto": cfr. ibid., p. 410 n. 51). Come "Calaber, pauper" si era iscritto all'università l'anno precedente, sotto il rettorato di Ulrich Koch, il teologo intransigente che l'anno successivo il D. avrebbe visto tra i suoi persecutori. Il conseguimento del dottorato, l'ammissione al Collegio medico dell'università e qualche tentativo di esercitare la professione di medico non alleviarono la sua indigenza; in più, le sue intenzioni di radicarsi stabilmente a Basilea furono frustrate una prima volta dalla necessità di lasciare la città in seguito ad accuse infamanti, non condivise tuttavia dai più prestigiosi tra i suoi amici e protettori (Amerbach, Zwinger).
Nel settembre del 1580 il D. scrive allo Zwinger da Ginevra, lamentando la tiepidezza di molti amici basileesi nell'assumere la sua difesa. A Basilea - diceva - sarebbe tornato comunque, solo che avesse avuto la certezza di vivervi senza pericolo della vita. Intanto annunciava il suo trasferimento a Lione. L'alternativa tra il ritorno a Basilea, al quale veniva incitato insistentemente dallo Zwinger, e il trasferimento a Lione era dovuta a sospetti di eterodossia che il D. aveva suscitato a Ginevra, se non addirittura, come sembra risultare da una lettera che più tardi egli scrisse allo Zwinger da Francoforte, all'insorgere di contrasti con lo stesso Théodore de Bèze. Prevalsero le insistenze dello Zwinger, e già nel gennaio del 1581 il D. è di nuovo a Basilea, dove intanto erano cadute le accuse che lo avevano indotto ad allontanarsene. Durante il primo soggiorno basileese, dopo la temporanea accoglienza nel collegio agostiniano, aveva trovato ospitalità nella casa del ricco mercante milanese Francesco Calderini, nella quale il fervore dei traffici mercanteschi era stato, come il D. ebbe a lamentarsi, un ostacolo al suo raccoglimento. Al ritorno da Ginevra trovo, invece, una sistemazione più confacente ai suoi studi, allorché entrò anch'egli in quello che ormai da un ventennio era l'alveo tradizionale degli esuli italiani che giungevano a Basilea: ospitalità in casa del ricco e dotto esule romano Francesco Betti e lavoro per la stamperia del Perna. Ritrovò intatte la stima e la protezione degli amici, ai quali si aggiunsero altre figure di prestigio, come Giovanni Niccolò Stupano, il biografo di Celio Secondo Curione, e Thomas Erastus, da poco trasferitosi da Heidelberg a Basilea.
La convivenza col Betti fu un vero e proprio sodalizio animato da studi, problemi e letture comuni: le frequenti richieste di libri allo Amerbach sono quasi sempre fatte a nome di entrambi. Risaltano tra queste letture quelle di opere di critica radicale dell'aristotelismo: lo studio delle opere di Ramo si accompagna alla viva attesa delle Discussiones peripateticae del Patrizi ("Patricii mei"), in corso di stampa presso il Perna.
Quest'ultimo genere di studi e di letture era più direttamente attinente alla materia dell'opera alla cui stesura il D. dedicò il meglio delle sue energie nel corso dei due soggiorni a Basilea. Ne compose il primo dei due libri, di getto, nel febbraio del 1580, mentre la trattazione della materia, "longe gravior", del secondo libro, interrotta dal trasferimento a Ginevra, fu portata a termine nel luglio dell'anno successivo. La pubblicazione dell'opera non incontrò difficoltà: in poche settimane fu messa a stampa da Hieronymus Froben con un titolo che ne dichiarava dettagliatamente il contenuto e le finalità: Augustini Donii Consentini medici et philosophi De natura hominis libri duo: in quibus discussa tum medicorum, tum philosophorum antea probatissimorum caligine, tandem quid sit homo, naturali ratione ostenditur. Ad Stephanum sereniss. regem Poloniae.
Filosofo della natura in senso telesiano, il D. muove dal presupposto che la possibilità di risultati plausibili nelle ricerche sulla natura in generale e sulla natura dell'uomo in particolare dipende dalla rigorosa delimitazione dell'osservazione ai dati puramente naturali ("in naturalibus agendum naturafiter"), cioè dall'osservazione di quelle sole sostanze che possono essere percepite mediante il senso. Ogni tentativo di dedurre l'essenza costitutiva dell'uomo da principi estrinseci alla sua realtà corporea è destinato al fallimento. Da questo presupposto rigidamente naturalistico conseguivano una critica e un rifiuto radicali di tutte le teorie sulla costituzione dell'uomo elaborate nell'antichità e poi trasmesse al pensiero occidentale da Platone, Aristotele, Ippocrate e Galeno. Alla loro confutazione è dedicato l'intero primo libro del De natura hominis. In esso il D. sviluppa una severa analisi critica di tutti i principî della fisica classica, indicandone il fallimento nell'incapacità di definire il vero principio unificatore degli elementi che costituiscono la natura umana. A Platone si rimprovera una teoria dell'anima la meno accettabile, tra quante ne furono elaborate nell'antichità, da chi intende attenersi rigorosamente alla ragione naturale ("tantum naturaliter agi petens"): la sua tripartizione dell'anima in sensitiva, appetitiva e razionale contrasta con i dati più evidenti dell'esperienza, la quale indica in ogni genere di operazione che si compie nell'uomo il prodotto di un'anima inscindibile, sempre e in tutto simile a se stessa; al principio unificatore della vita la tripartizione platonica dell'anima sostituisce una sorta di rissosa disarmonia di contrastanti operazioni. Analogamente, ricade sotto un unico genere di critica il pensiero di Aristotele, di Ippocrate e di Galeno, a causa della loro comune accettazione del principio della commistione e del temperamento degli elementi primi: è vano, secondo il D., il tentativo di far dipendere il principio della vita dal presupposto che la mescolanza di un'originaria pluralità di elementi primi basti a spiegare come da elementi insensibili possano emergere vita e senso. Elusa la questione dell'origine naturalistica del senso e delle facoltà con esso connesse, la fisica classica ha finito col fare della natura umana un'unità fittizia; di qui il suo ricorso a una forza esterna che si renda garante di quell'unità e le infonda senso e sentire come cose sostanzialmente estrinseche ai processi propriamente naturali "Dei certe alicuius ope ad cam rem fuerit opus").
Composta di sostanze molteplici e dissimili, la natura umana è, invece, tale solo in quanto una di queste sostanze prevale sulle altre e agisce su di esse, inducendole a cooperare al fine della vita. Calda, tenue e mobile, questa sostanza predominante è quella che comunemente viene chiamata "spirito" ("spiritum non incommode vocaris usitato iam nomine"). Sostanza corporea, lo "spirito" ha in comune con tutte le cose della natura la facoltà di sentire ("omne quod natura constat vim sentiendi habet et sine ea esse non potest"); ma in esso l'intensità maggiore del sentire e determinata dalla maggiore presenza di calore e moto, le due forze la cui misura gradua il sentire delle cose nell'universale sensibilità della natura. Il senso è il solo organo così della percezione come della conoscenza: mediante il senso l'uomo percepisce non per immagini astratte, ma attraverso le modificazioni o "alterazioni" che lo "spirito" subisce al contatto con le cose; non v'è sentire senza la coscienza del sentire. Unicamente a questa forma diretta del sentire e alle sue gradazioni sono riconducibili, secondo il D., tutte le operazioni e le facoltà proprie della natura umana, dal semplice atto della percezione fino alle più complesse operazioni della memoria, dell'immaginazione e del raziocinio. Da queste premesse conseguiva l'esclusione del concetto classico di anima: l'esistenza di un'anima immortale è oggetto di fede, non di indagine naturale; e se tale anima non è lo stesso "spirito" in quanto sostanza corporea, allora non è possibile dimostrarne con la ragion naturale né l'esistenza né l'immortalità; è atto di prepotenza volere che le ragioni della fede interferiscano nei procedimenti della ricerca naturale.
Nella dedica del De natura hominis a Stefano Báthory il D. si diceva impegnato in un vasto programma di ricerche naturalistiche volte a illustrare "rem physicam et medicani plerisque in locis adhuc tectas obscura caligine". Le vicende seguite al suo trasferimento in Polonia gli impedirono di attuare questo programma. Tuttavia il D. stesso dà notizia di due opere non pervenuteci: nel De natura hominis accenna a uno scritto sulla divisione dei composti in elementi semplici e in una lettera allo Zwinger del 1582 parla di un "liber de coloribus" come di opera già compiuta e destinata, insieme con una progettata edizione "castigata et aucta" del De natura hominis, alle stampe di Froben. Il De natura hominis resta, dunque, la sola esposizione organica del pensiero del D. e insieme la testimonianza del posto che esso occupa nello sviluppo del naturalismo telesiano tra la prima (1565) e l'ultima (1586) edizione del De rerum natura.
Poche sono le testimonianze degli echi che l'opera ebbe in Italia: la lesse il naturalista Ulisse Aldrovandi e una copia ne possedette l'archiatra pontificio Demetrio Canevari. Indizio di una più persistente estimazione fuori d'Italia è la menzione che ne fece Francesco Bacone. Nella seconda metà del Seicento, alla ripresa degli studi naturalistici in Italia, Tommaso Cornelio espresse meraviglia e rammarico che l'opera del D. non avesse avuto la notorietà che meritava.
Ai primi di settembre del 1581, subito dopo la stampa del De natura hominis, ilD. lasciò Basilea. La dedica dell'opera al sovrano polacco indica che da tempo egli aveva maturato il proposito di trasferirsi a Cracovia, attrattovi probabilmente da informazioni sul vasto programma di sviluppo degli studi che il Báthory intendeva attuare in Polonia e per il quale aveva seguito il consiglio del suo coltissimo cancelliere Jan Zamoyski di invitare molti dotti italiani. Ma, nel settembre del 1581, la partenza del D. da Basilea fu improvvisa, una fuga precipitosa sotto l'incalzare d'un arresto imminente. Risulta da due lettere scritte allo Zwinger da Francoforte e da Cracovia (ed. da Rotondò) che tanto lo Zwinger quanto l'Amerbach ed Erastus erano al corrente dell'avversione con cui gli ambienti ecclesiastici guardavano alla presenza del D. a Basilea. Che le ragioni di tale avversione, condivisa a Ginevra da Théodore de Bèze, fossero le posizioni religiose del D. risulta chiaramente dall'invettiva contro gli ostacoli che i teologi frapponevano alla libertà della ricerca, con cui si apre il secondo libro del De natura hominis: i teologisostengono che la filosofia allontana da Dio occupandosi dell'uomo solo come complesso di. cause naturali; in realtà, sotto parvenza di religione e di pietà, essi offendono Dio, che si manifesta alla mente umana solo attraverso le forme e l'ordine della natura; la loro arroganza e intolleranza sono cose ben diverse dalla semplicità e genuinità della fede dei Padri; Basilio, Atanasio, Metodio e i padri del secondo concilio di Nicea non esitarono ad accogliere la dottrina di Platone della sostanza corporea dell'anima e della sua natura ignea e aerea; questi nuovi teologi sovrappongono ora alla ricerca naturale i limiti della loro fede angusta, senza avvedersi che non sono principî di ragione concetti come resurrezione dei corpi, principio e fine del mondo, immortalità dell'anima e simili. Prima della stampa, il D. aveva sottoposto il De natura hominis allo Zwinger, con la raccomandazione di tenerne segreto il contenuto, e prima della partenza da Basìlea ne dedicò esemplari agli amici e protettori (si conservano quelli con dedica allo Amerbach e allo Stupano) con i quali continuò a corrispondere da Cracovia. Visìbilmente, il contrasto tra l'immutata disponibilità degli esponenti più prestigiosi del mondo accademico, da una parte, e, dall'altra, l'avversione degli ambienti teologici fece delle ultime vicende del soggiorno del D. a Basilea un episodio delle tensioni. in quegli anni sempre più frequenti, tra cultura umanistica e mondo ecclesiastico basileesi.
Il viaggio dei D. verso Cracovia fu avventuroso. Raggiunse dapprima Francoforte attraverso Spira e Marburgo, dove fu ospitato da Bernardo Cossio, probabilmente un suo condiscepolo alla scuola di Zwinger. Ma durante il percorso a stento era riuscito a sfuggire alla cattura disposta dal vescovo di Strasburgo, avvertito (così pensò il D.) della sua partenza da Basilea da Ulrich Koch, "ut gratificaretur Genevensibus et Bezae". Da Francoforte si recò a Lipsia nella speranza di incontrarvi Simone Simoni, il quale, però, s'era già trasferito a Praga a causa di contrasti con l'università. Presa, a piedi, la via per Cracovia, il D. giunse ai primi d'ottobre a Breslavia con l'intento di offrire un esemplare del De natura hominis ad Andrea Dudith-Sbardellati: v'era giunto, come scrisse il Dudith, quasi nudo, senza danaro e senza lettere commendatizie. Il dotto e fastoso dìplomatico imperiale ne rimase impressionato: nelle due lettere che al riguardo scrisse a Niccolò Taurello, professore ad Altdorf, e al medico imperiale Johannes Crato von Crafftheim disse che nei dodici giorni in cui aveva ospitato il D. ne aveva tratto l'impressione d'un uomo "acuto e dotto" (Caccamo, p. 238 n. 12); la conversazione con lui e la lettura della sua opera gli avevano suscitato i problemi che l'anno prima egli stesso aveva posto sulla libertà della ricerca nello scritto De cometarum significatione; il pensiero del D. gli sembrava una ripresa del naturalismo presocratico in alternativa alla filosofia aristotelica.
Il 20 ott. 1581, fornito dal Dudith di vesti e munito di varie lettere commendatizie dello stesso Dudith, il D. partì per Cracovia. Suo primo assillo era di poter esporre a Stefano Báthory il programma di ricerche preannunciato nella dedica del De natura hominis. Ma la prolungata assenza del sovrano da Cracovia ritardò la sperata udienza almeno oltre il giugno dell'anno successivo. Nel frattempo, le raccomandazioni del Dudith gli avevano procurato vari protettori potenti ("multos de primatibus"). Una preziosa annotazìone coeva sull'esemplare del De natura hominis con dedica al medico di corte Niccolò Buccella (l'esemplare si conserva alla Biblioteca Ossoliński di Breslavia [Wroclaw]) testimonia che il D. riuscì ad attrarre sui suoi progetti di studio l'attenzione del cancelliere Zamoyski ("Hic Consentinus Zamoscii favorem capesserat"). Tuttavia fu, probabilmente, proprio l'avversione del Buccella a precludere al D. l'accesso ai favori della corte. Intanto, la professione medica, esercitata con successo anche in collaborazione con un suo condiscepolo alla scuola dello Zwinger, Oreste Cato, lo trasse dalla condizione di indigenza che aveva caratterizzato gli anni precedenti del suo soggiorno fuori d'Italia. Fra i numerosi italiani residenti a Cracovia trovò accoglienza, com'egli scrisse allo Zwinger, soltanto da parte dei fiorentini. Tuttavia, nelle sue lettere spedite a Roma, il nunzio Alberto Bolognetti parla di aspre controversie di natura religiosa che il D. ebbe con l'esule Gian Michele Bruto. Allo stesso Bolognetti risalgono le ultime notizie, non controllabili, sul D.: la sua riconversione al cattolicesimo, il suo servizio di medico presso il vescovo di Cracovia Piotr Miszkowski, la voce che il D. fosse stato fatto assassinare da Fausto Sozzini, la sua partenza da Cracovia per destinazione ignota (A. Bolognetti nuntii... in Polonia epistolae..., in Mon. Pol. Vat., VI, 2, a cura di E. Kuntze, Cracoviae 1938; cfr. Rotondò, p. 465).
L'ultima menzione del D. nei dispacci del Bolognetti è del 23 apr. 1583. Dopo quella data non si hanno altre notizie su di lui.
Fonti e Bibl.: Basilea, Universitätsbibliothek, Fr. Gr. II. 4, nn. 70-71; 27, nn. 61-66; 37, nn. 45, 48; C. VIª. 35, nn. 92, 93, 96, 97; C. VIª. 35/II, n. 83; G. II. 16, n. 261: le lettere del D. (quindici) sono citate in Rotondò, pp. 531-45. N. Toppi, Biblioteca napoletana et apparato agli huomini illustri in lettere di Napoli e del Regno, Napoli 1678, pp. 3.4; S. Spiriti, Mem. degli scrittori cosentini, Napoli 1750, pp. 81-82; A. Zavarroni, Bibliotheca Calabra, Neapoli 1753, p. 107; D. Andreotti, Storia dei Cosentini, Napoli 1869, II, pp. 283, 313; F. Fiorentino, Bernardino Telesio, ossia studi storici su l'idea della natura nel risorgimento italiano, Firenze 1872, I, pp. 115-118, 321-341; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Firenze 1939, p. 341; E. De Mas, Francesco Bacone da Verulamio. La filosofia dell'uomo, Torino 1964, pp. 97-99; D. Caccamo, Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1610), Firenze-Chicago 1970, pp. 94, 237-238; E. Garin, Telesiani minori, in Rivista critica di storia della filosofia, XXVI (1971), pp. 199-202; L. De Franco, L'eretico A. D. medico e filosofo cosentino del '500, Cosenza 1973; A. Rotondò, Studi e ricerche di storia ereticale italiana del Cinquecento, I, Torino 1974, pp. 393-470, 531-545, 551.