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Agostino di Giovanni

di S. Romano - Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)
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Agostino di Giovanni

S. Romano

Scultore e architetto senese di cui si hanno notizie dal 1310 a prima del 1347. L'immagine vasariana della personalità artistica di A. si discosta parecchio da quella successivamente accreditata dalla critica più recente; Vasari (Le Vite, II, 1967, pp. 125-131) tende infatti a fare di A. (e di Agnolo di Ventura, da lui ritenuto erroneamente fratello di A. e comunque suo stretto e quasi indistinguibile collaboratore) il punto di snodo e di sutura della tradizione artistica senese, in quanto allievo di Giovanni Pisano ma anche perfezionatore - in senso giottesco - dell'opera del maestro. La serie di attribuzioni vasariane, specie quelle riguardanti le imprese architettoniche di A. e Agnolo, non hanno per massima parte ricevuto convalida negli studi moderni (Valentiner, Cohn-Goerke, Garzelli, Carli); tuttavia rimane, del racconto storiografico, l'impressione del nome e del prestigio notevole di cui dovette godere l'artista, a Siena e fuori di Siena.

Le prime notizie relative alla vita di A. risalgono al 1310, anno in cui egli sposò Lagina di Nese (dalla quale ebbe due figli, Giovanni e Domenico, architetti e scultori anch'essi) e negli anni successivi disegnano un'attività che da Siena si espanse verso Arezzo - con il tramite di Pier Sacconi, fratello del potente vescovo e signore d'Arezzo Guido Tarlati di Pietramela - e poi Orvieto, Massa Marittima, Volterra, Pistoia.

La committenza aretina del sepolcro Tarlati cadde subito dopo la morte del vescovo (1327): nel 1329 A. è documentato ad Arezzo per gli accordi con Pier Sacconi e nel 1330 egli firmò l'opera, insieme con Agnolo. Altre volte ancora l'artista è documentato in città, ma per diversi lavori nel duomo: nel 1331 per la realizzazione di una cappella - non identificabile - quindi l'anno seguente per la realizzazione della cappella Ghini (insieme con il figlio Giovanni). Successivamente, si conoscono pagamenti a lui effettuati dal Comune di Siena per la cittadella di Massa Marittima (1336); era a Orvieto nel 1337 con il figlio Giovanni; era operaio della Torre al Comune di Siena nel 1339 e, nel 1340, ancora a Siena, conduceva l'acqua alla Fonte del Campo e si impegnava a costruire (ancora con Giovanni, con Agostino di Rosso di Grazia e Cecco di Casino) la facciata di palazzo Sansedoni, realizzato solo più tardi e di cui rimane un disegno nell'Arch. del Monte dei Paschi di Siena. Nello stesso anno permetteva al figlio di assumere la carica di capomastro del duomo di Orvieto, nel 1343 effettuava compravendite di terreni a Siena e il 27 giugno del 1347 risultava essere già morto.

La tomba Tarlati è la prima opera documentata di A. ed è firmata nell'iscrizione "Hoc opu(s) fecit magiste(r) Augustinu(s) (et) magiste(r) Angelu(s) de Sen(is) MCCCXXX", insieme con Agnolo di Ventura. Purtroppo già rovinata e mutilata nel 1341 nel corso della rivolta aretina contro i Tarlati, poi malamente restaurata alla fine del Settecento, essa rimane comunque uno dei monumenti più rilevanti del Trecento toscano. L'idea vasariana, che il disegno della tomba e dei rilievi fosse stato fornito da Giotto, è da respingere, in quanto solo motivata dalla volontà di Vasari di ricongiungere alla cultura giottesca anche la scuola senese. Tuttavia, per monumentalità di impianto, la tomba denuncia uno spirito classico e una tensione verso la regolarità e l'imponenza dei volumi che non sarebbero dispiaciuti a Giotto medesimo; l'arco monumentale e a tutto sesto che inquadra la camera funebre è stato paragonato a quello della loggia del 'facciatone' del Duomo Nuovo di Siena (Carli, 1980), laddove Garzelli (1969) ne aveva puntualmente notato la novità e la classicità dei rapporti modulari. Inquadrata dall'arco è la camera mortuaria con il defunto, due angeli e la schiera degli officianti. Sotto, la camera, che sporge dalla parete senza altri sostegni che cinque mensoloni, è ornata - invenzione tipologicamente nuova - da sedici formelle a bassorilievo, nelle quali vengono narrate le gesta del vescovo. Di grande interesse è l'analisi di questi rilievi, per il contenuto stesso delle storie - nelle quali si dà preferenza all'aspetto laico e guerriero della personalità del defunto, signore assai più che uomo di chiesa - e per il gran numero di relazioni che esse consentono di stabilire con la contemporanea produzione figurativa della Toscana prototrecentesca. Relazioni marcate essenzialmente dal nesso tra Tino di Camaino e Simone Martini che fornisce la base linguistica e formale di questi modi; ma poi anche da Duccio, la cui grande tavola della Maestà (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana) può aver suggerito ad A. e ad Agnolo l'idea di una simile distesa narratività; e infine dai Lorenzetti, da Ambrogio soprattutto, la cui capacità di ricreare paesaggi e spazi vastissimi, realisticamente ripresi dalla realtà della campagna e degli incastellamenti senesi si ritrova in molti di questi rilievi aretini.

Assai più complesso è il problema dell'autografia di A., vale a dire della distinzione della parte avuta rispettivamente dai due firmatari dell'opera, A. stesso e Agnolo di Ventura. La proposta di Garzelli, secondo la quale dai documenti si evincerebbe una fisionomia di Agnolo quale una sorta di soprintendente alle opere in corso, e di A. quale appaltatore e imprenditore per opere di architettura e urbanistica, non risolve ovviamente la questione della paternità delle sculture, che solo per via di illazioni possono essere riferite all'uno o all'altro artista nonché, a complicare la rosa delle possibilità, anche ai due figli di A., Giovanni e Domenico (Carli, 1980).

Assai sfuggente sotto il profilo stilistico rimane l'opera di A. come architetto, per la perdita o la difficoltà di attribuzione delle opere di architettura che possono essergli riferite: forse, delle attribuzioni vasariane, rimane plausibile la paternità della porta Romana a Siena; il disegno per la facciata di palazzo Sansedoni, che tuttavia Garzelli (1973) preferisce attribuire alla mano di Giovanni, può testimoniare sulla concezione che i due artisti avevano di una facciata, interamente organizzata attorno al tema portante della sequenza di archi, acuti nei piani superiori, ribassati nei due inferiori, così che l'iterazione del motivo dell'arco alleggeriva poi, pur segnandola ostinatamente in senso orizzontale, la pesantezza del parato murario.

Una definitiva acquisizione e un notevole aiuto alla ricostruzione del percorso stilistico di A. scultore viene invece dall'accertamento della paternità dell'Annunciata lignea del Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo di Pisa: dopo i recenti restauri e la lettura completa dell'iscrizione posta sulla base dell'opera ("A.D. MCCCXXI Agustinus Hoda Giovanni (et) Stefanus Acolt[---] de Se[nis]"), la statua può essere considerata la prima opera nota di A., dove l'artista si mostra già perfettamente padrone dei propri mezzi: l'eccellenza del livello raggiunto, che era per Carli (1980), seguito da Moskovits (1986), motivo per negare la pertinenza ad A. dell'opera e per intendere i nomi di Agostino e Stefano Accolti come quelli di presunti committenti, deve anzi essere valutata come fatto positivo e interpretata se mai alla luce del diverso genere di opera cui si è di fronte: manufatto di dimensioni ridotte, ben diverso dalle grandi imprese monumentali in cui A. appare invece via via specializzarsi e che presuppone naturalmente un ben diverso peso e impiego di aiuti e collaboratori.

Si può così delineare un'ipotesi di 'catalogo' dell'artista, che parta dall'Annunciata pisana e vada svolgendosi nel corso di imprese complesse, durante le quali si fa via via più importante - e specialmente per quanto riguarda la plastica dei monumenti - il ruolo del figlio Giovanni, ai modi del quale il padre va gradualmente avvicinandosi sciogliendo in parte la propria originale rigidezza di segno. Segue quindi la tomba Tarlati, nella quale già Cohn-Goerke (1938) aveva operato una distinzione tra un Maestro A e un Maestro B, identificando A., probabilmente, nel primo; poi, dal 1337 al 1339, la tomba di Cino da Pistoia (Cino de' Sighibuldi) nel duomo di Pistoia; almeno due dei sette rilievi con Storie di s. Vittore e s. Ottaviano nel Mus. Diocesano di Arte Sacra di Volterra (S. Vittore davanti al proconsole, Flagellazione di S. Vittore); forse la lunetta con la Madonna con il Bambino, s. Francesco, il beato Pietro da Siena e l'Annunciazione, del portale di S. Francesco a Siena (1336), e, come da recente proposta (Bartalini, 1987), la tomba di Cacciaconte de' Cacciaconti (1337) nella pieve di S. Lorenzo alle Serre di Rapolano (Siena). Spetta a Garzelli (1969) il riconoscimento di alcuni frammenti provenienti dalla cappella Ghini (l'Angelo annunciante del Vict. and Alb. Mus. di Londra, l'Annunciata del Louvre, il busto d'angelo del Szépmüvészeti Múz. di Budapest); ulteriori verosimili ampliamenti sono stati avanzati da Bartalini (1987), che propone l'attribuzione del S. Ansano del Louvre, nonché della Madonna Duveen, apparsa sul mercato antiquario; lo stesso Bartalini riferisce l'opinione orale di Previtali circa il riconoscimento della mano di A. nella decorazione scultorea del finestrone e del portale meridionale del duomo di Grosseto, fabbrica nella quale già Garzelli aveva individuato la presenza della bottega di A. e Giovanni e, probabilmente, l'autografia di A., in data anteriore all'impresa del Duomo Nuovo senese, nella quale il ruolo di Giovanni è ormai dominante.

In questo gruppo di opere la presenza di A. appare riconoscibile e personale; in altre, che pure sono da riferire all'attività della stessa bottega, la parte avuta da A. appare quanto mai difficile da identificare, mentre preponderante sembra il ruolo assunto dal figlio Giovanni, forse anche per un naturale passaggio di mano nell'età matura e senile del padre (il monumento Petroni nel chiostro di S. Francesco a Siena, l'arca di s. Attone nel duomo di Pistoia, i rilievi con Storie del vescovo Ricciardi, ancora nel duomo di Pistoia, la decorazione scultorea della facciata del Duomo Nuovo di Siena). Altre attribuzioni ancora, in gran parte dipendenti da Venturi o da Valentiner (il monumento di Gregorio X ad Arezzo, la tomba del vescovo Malaspina nel S. Francesco di Sarzana in prov. di La Spezia, il monumento a Raniero degli Ubertini nel S. Domenico ad Arezzo e, a Firenze, le tombe Bardi a Santa Croce e la tomba di Corrado della Penna a S. Maria Novella) sembrano da respingere decisamente, come anche respinta da Bartalini è la proposta di Grandi (1982) che attribuisce alla bottega di A. e Agnolo le tombe Gandoni e de' Bonandrei rispettivamente nel Mus. Civ. Medievale e nella Pinacoteca Naz. di Bologna; più verosimile secondo Carli (1980) il riferimento del trittico con Storie del beato Gioacchino Piccolomini nel cortile della Pinacoteca Naz. di Siena.

Bibliografia

Fonti:

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R. Bartalini, Agostino di Giovanni, in Scultura dipinta - Maestri di legname e pittori a Siena 1250-1450, cat., Firenze 1987, pp. 52-60.

Vedi anche
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