DE MARI, Agostino
Nacque nel 1586 o 1587 probabilmente a Genova, da Francesco di Agostino e da Lelia Pallavicini di Gio.Batta di Damiano, primo dei quattro maschi (dopo di lui Giovanni Battista, Stefano e Felice) di un ricco e influente esponente della nobiltà vecchia genovese.
Casata poco numerosa, in antico ghibellina e più di recente filospagnola, i De Mari avevano partecipato con successo nel Cinquecento alla penetrazione economica genovese nei domini del Cattolico, segnatamente nel Vicerearne di Napoli, dove fecero fortuna anche gli ascendenti di De Mari.
Non a caso perciò nel 1633 l'ambasciatore spagnolo a Genova don Francisco de Melo trovava il D. e i fratelli "bien afectos" al suo sovrano, oltre che "ricos", di una ricchezza confermata dagli elenchi fiscali genovesi del 1593, 1624, 1630 e 1636. Tanto il padre Francesco quanto il D. e i fratelli Stefano e Felice furono senatori o procuratori della Repubblica (Francesco nel 1607, 1623, 1627; il D. nel 1628; Felice nel 1643 e 1653). Solo Giovanni Battista, trasferitosi a Napoli, rimase estraneo alla vita pubblica genovese: fu uno dei principali banchieri del Vicereame, dove finì la vita col titolo di marchese di Assigliano in Terra d'Otranto, acquistato nel 1659. La carriera del D. e del fratello Stefano culminò invece con la candidatura al dogato del primo nel 1641 e nel 1642, e con l'elezione a doge del secondo nel 1663.
A completare il profilo magnatizio di Francesco e dei figli sta la loro frequente presenza nella delicata e importante funzione di elettori del, Maggiore e del Minor Consiglio: Francesco ben quattordici volte fra il 1603 e il 1627; il D. otto volte (1624, 1630, 1632, 1634, 1636, 1639, 1641, 1643), al pari di Stefano e di Felice. Tra gli incarichi di rappresentanza, pur sempre indice del prestigio del personaggio, toccarono al D. ripetute elezioni nelle delegazioni di gentiluomini incaricati di accogliere gli ospiti illustri di passaggio a Genova: nel novembre 1617 per il figlio del duca di Gandia e un mese dopo per Filippo Spinola, figlio del marchese Ambrogio; nel maggio 1628 per il marchese del Viso; nel 1632 per il nuovo ambasciatore spagnolo don Francisco de Melo; nell'agosto 1640 per il duca di Ferrandina; nell'aprile 1643 per il cardinale di S. Cecilia. Nell'ottobre 1632 la sua casa genovese fu inclusa (nella "prima urna", cioè fra le più prestigiose) nel numero di quelle designate dal governo ad alloggiare gli ospiti di riguardo.
Nel cursus honorum rientrano due presenze nel magistrato per il Riscatto degli schiavi, nel luglio-settembre 1617 e dal gennaio all'aprile 1622; subito dopo, maggio 1622-aprile 1623, fu capitano di Novi. Nel febbraio 1628 fu tra i sei incaricati di stabilire il corso dei cambi sulle fiere di Bisenzone (all'epoca tenute a Novi), mentre a fine aprile venne incluso tra i tassatori, i nobili incaricati di stabilire la ripartizione della tassa pro capite decretata quell'anno: un incarico che il D. ricoprì, con riguardo alla tassazione dei cittadini non ascritti alla nobiltà, anche nell'ottobre 1631.
Estratto come procuratore per il biennio luglio 1628-giugno 1630, fu nel gennaio 1629 eletto con altri tre membri dei Collegi a vagliare le richieste di ascrizione alla-nobiltà; e nel novembre 1629 divenne preside della nuova magistratura degli Inquisitori di Stato) alla quale fu rieletto come membro ordinario nell'agosto 1634 Il D. fu inoltre scelto più volte per importanti missioni diplomatiche, alle quali tuttavia cercò - come molti suoi colleghi - di sottrarsi. Il 16 apr. 1627 venne nominato ambasciatore della Repubblica a Milano: un incarico delicato più del solito, poiché Genova era in guerra col duca di Savoia e bisognosa dell'aiuto spagnolo, mentre la Spagna cercava di trovare un'intesa col duca.
Il D. rifiutò l'incarico. Svolse invece una missione a Milano, presso il governatore G. Suarez de Figueróa, duca di Feria, dal febbraio al maggio 1633.
Compito del D. fu, allora, quello di discutere le difficoltà che si frapponevano, nonostante il lodo pronunciato in merito dal re di Spagna alla fine del 1631, alla conclusione della pace tra la Repubblica e il duca di Savoia. I due Stati avrebbero dovuto restituirsi reciprocamente conquiste e prede: perciò Genova doveva rendere la galea e le artiglierie catturate ai Sabaudi; la Repubblica doveva anche amnistiare i sudditi che avevano combattuto per il duca e dieci cospiratori coinvolti nella congiura del Vachero; il marchesato di Zuccarello, occasione del conflitto, sarebbe rimasto a Genova contro pagamento a Vittorio Amedeo I di 160.000 scudi d'oro per i diritti che rivendicava su di esso. I Genovesi trovavano l'accordo oneroso, sia in termini di principio sia in termini finanziari; tuttavia lo accettavano. Il duca di Savoia tendeva ad alzare il prezzo della pace chiedendo la riammissione in patria dei congiurati amnistiati, l'inclusione nell'elenco di un altro condannato, la restituzione della galea in assetto di guerra e dell'artiglieria in territorio sabaudo. Il duca di Feria, ricevuti dal re di Spagna pieni poteri di trattare l'accomodamento, negoziò a Milano con i rappresentanti sabaudi, l'abate Della Torre e il presidente C. F. Morozzo, e coll'inviato genovese De Mari. Questi era vincolato dalle istruzioni della Repubblica a non accettare alcuna modifica al lodo del re. Partito da Genova il 23 febbr. 1633, il D. giunse a Milano due giorni dopo e il 26 presentò le credenziali al governatore, dal quale apprese subito le nuove richieste sabaude. Come gli venne spiegato dal gran cancelliere di Milano, Vittorio Amedeo I non si riteneva vincolato dal lodo. Il D. obiettò di essere venuto "non per trattare negotiatione nuova, ma per l'essecutione del laudo fatto da Sua Maestà". Vanamente il gran cancelliere propose che la Repubblica aprisse comunque le trattative fidando nel giudizio imparziale del duca di Feria, incline in realtà ad accedere alle richieste di Vittorio Amedeo. La Repubblica chiedeva per contro che il duca di Savoia ratificasse preliminarmente il lodo del re di Spagna. Dopo ripetuti colloqui del D. col duca di Feria e il gran cancelliere, che insistevano, di conserva con l'ambasciatore spagnolo a Genova, perché la Repubblica cedesse su qualche punto, la trattativa sin dal 20 marzo si trovò allo stallo. Di fronte alla rigidezza genovese i negoziatori sabaudi ridimensionarono via via le richieste; ma la Repubblica si oppose anche - e il D. stesso ne rimase sorpreso - a che il duca di Feria iniziasse a trattare prima della ratifica del lodo. Burrascosi colloqui tra il D. e il governatore ebbero luogo il 16, il 19 e il 24 aprile: infine restò in discussione solo l'ammontare della somma da pagare al duca di Savoia, essendo cadute le altre richieste di questo e avendo Vittorio Amedeo ratificato il lodo. Ma a quel punto furono i negoziatori sabaudi a trarsi indietro; gli incontri vennero sospesi; il presidente Morozzo rientrò a Torino. Il 4 maggio il D. osservava che il governatore "non ha speranza alcuna nell'aggiustamento, ma che non vuol confessare il mancamento che li è stato fatto per parte di Savoia". Convinto "che non convenisse andar ad incontrar la pace soverchiamente" e che l'irrigidimento finale del duca fosse dovuto a pressioni francesi, il D. considerava un successo la ratifica del lodo e valutava che alla Repubblica la stipulazione immediata della pace non convenisse molto più che il mantenimento dello status quo. Sospesi i negoziati, il D. sollecitò il richiamo a Genova, allegando anche ragioni di salute ("male delle gambe"). Il 24 maggio il governo gli spedì le istruzioni per il richiamo, incaricandolo di presentare le ragioni della Repubblica all'infante di Spagna card. Ferdinando d'Asburgo atteso proprio allora a Milano. A fine mese il D. ritornò a Genova. La pace tra la Repubblica e Vittorio Amedeo sarebbe stata stipulata soltanto l'anno seguente.
Nella primavera 1637 il D. venne eletto al più importante incarico diplomatico della Repubblica: quello di ambasciatore ordinario in Spagna per tre anni. Le istruzioni, datate il 7 giugno di quell'anno, prevedevano che il D., oltre a trattare una serie di controversie particolari tra la Repubblica e la Spagna - più rilevante di tutte la questione del marchesato di Finale e del divieto di introdurvi sali per tramite diverso dalla Casa di S. Giorgio - ottenesse il riconoscimento alla Repubblica, appena proclamatasi "testa coronata" con la Vergine come regina, di onoranze regie e precedenza sui rappresentanti di Malta. Ma l'invio di un ambasciatore presso il re Cattolico in quel momento suscitava opposizioni, motivate in un intervento (di quei mesi, anche se non databile con precisione) del giureconsulto ed erudito Federico Federici, che negava l'opportunità d'una ambasceria a Madrid senza certezza del trattamento accordato all'inviato. Il D. non partì; e quando, alla fine di luglio, dopo che la squadra spagnola di Napoli aveva catturato al largo di Diano dieci navi olandesi con un carico destinato a Genova, parve urgente un'ambasceria straordinaria in Spagna, fu Luca Giustiniani ad essere designato.
Nel 1639 il D. fece parte dell'ufficio di Corsica; e nell'aprile, insieme con Urbano Senarega, ricevette l'incarico di esaminare le proposte dell'olandese Nicolò Cornelio de Witt di insediare in Corsica una colonia di cento famiglie fiamminghe cattoliche per promuovere la coltivazione.
L'idea di valorizzare le potenzialità agricole della Corsica era da almeno mezzo secolo un topico della pubblicistica genovese; il mezzo più opportuno pareva a molti l'insediamento nell'isola di colonie che fossero, a differenza delle intraprese tre-quattrocentesche di Bonifacio e Calvi, centri agricoli e non mercantili e marinari. La "società" di colonizzazione del de Witt era in trattative anche col governo pontificio, del quale lamentava l'esitazione a indicare con esattezza le terre a disposizione dei coloni. L'ufficio di Corsica stese dei capitoli che accordavano al de Witt facilitazioni fiscali; la libera apertura, nel distretto da colonizzare, di "forni, hostarie, macelli, pizzicarie, pescarie, fornaci di calce, tegole e di mattonil brassarie da cuocer bierre, e molini da macinare per uso delli nuovi habitatori"; l'accesso libero e gratuito per trent'anni a materiali da costruzione e legnami nei boschi non di proprietà dei singoli privati; e soprattutto terreni a volontà in "erifiteusi transitoria ad heredes quoscumque, et alienabile fra essi nuovi habitatori senza pagar laudemio di alcunasorte, col solo canone di soldi venti l'anno per ogni famiglia". Le numerose relazioni di quegli anni in materia di miglioramento delle colture e di colonizzazione della Corsica individuavano nella zona tra Bastia e Aleria il territorio più idoneo a tentare un esperimento. Questo non ebbe però luogo: forse perché il de Witt, morto poi nel 1641, non aveva intenzione di trattare seriamente con la Repubblica e preferiva concludere col governo pontificio; ma forse anche perché le difficoltà di trapiantare degli agricoltori forestieri in una società di clan ad economia pastorale dovettero risultare chiare (le ribadì qualche decennio più tardi l'insediamento tragicamente fallito di una colonia greca). In ogni caso durante la permanenza in carica del D. l'ufficio di Corsica fu molto impegnato almeno a riorganizzare il controllo dello stato delle coltivazioni da parte dei governanti genovesi nell'isola.
Nel gennaio 1641 il D. fu deputato a stabilire il prezzo dell'olio; e il 24 dello stesso mese entrò - ultimo suo incarico di rilievo - nell'ufficio di Guerra in sostituzione di Battista Serra. Quando, nell'ottobre, venne eletto ancora inviato a Milano, rifiutò adducendo ragioni di salute.
Il D. aveva sposato prima del 1616 Marzia De Mari di Ansaldo, sorella dell'altro Ansaldo, il massimo ingegnere genovese dell'epoca: una scelta di endogamia nell'ambito della casata fatta propria sotto un certo aspetto dai fratelli, che sposarono solo donne della nobiltà vecchia. Ebbe quattro figli maschi (Andrea, Camillo, Giuliano, entrato nella Compagnia di Gesù, e Francesco), e quattro femmine (Maria Francesca, suor Maria Teresa, suor Maria Marcella e suor Maria Maddalena). Nel suo ultimo testamento, del 29 luglio 1644, dispose di essere sepolto nella tomba di famiglia in S. Maria della Sanità. Morì poco meno di un anno dopo, a Genova, il 19 luglio 1645, "morte repentina... hora prima noctis in circa".
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Genova, Antica Finanza 237; Ibid., Archivio segreto 856, c. 236v; 865, 868; 870, 876, cc. 58v, 60v; 877, cc. 2v, 32v, 72, 94v; 878, cc.3v, 16v; 881, cc.108v, 127v; 883, cc.105v; 889, cc.97, 124, 125v; 890, cc. 9v, 18v; 892, cc. 92v; Ibid., Camera Finanze 2605; Ibid., Corsica 946; Ibid., Giunta Confini 20; Ibid., Notai, Repetto Giuseppe, sc. 707, fz. 68: 7 apr. 1635, 29 luglio 1644, Genova, Archivio storico del Comune, Manoscritti 210, cc. 340-342, 354, 388-399; 299, cc. 303v, 338; 341, c. 206; Ibid., Fondo Brignole Sale 105.E.9; Ibid., Bibli. civica Berio, Manoscritti rari VIII.2.30 (tavv. 388 ss.), Ibid., Biblioteca universitaria, Manoscritti B.VI.18; Archivo general de Simancas, Estado, 3591. Per la missione diplomatica a Milano cfr. le lettere del governo al D. in Archivio di Stato di Genova, Archivio segreto 1899, pp. 6-26; i dispacci del D. in Genova, Archivio storico del Comune, Fondo Brignole Sale 109.B.6, cc. 1-37v; la relazione ibid., cc. 44-60 e nello stesso archivio, Manoscritti 423, cc. 321-340. Dispacci e relazione anche in Archivio di Stato di Genova, Biblioteca 127, pp. 125-186. Della mancata missione in Spagna le istruzioni si trovano sempre nell'Archivio di Stato di Genova, Archivio segreto 2707E; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, III (Spagna 1636-1655), a cura di R. Ciasca, Roma 1955, in Fonti per la storia d'Italia, XXI, pp. 842. Cfr. inoltre C. Varese, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1835-1838, V, p. 340; V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, Genova 1934, pp. 58, 176, R. Russo, Del tentativo di introdurre nella Corsica una colonia olandese per i lavori di bonifica (1639-1640), in Annuario del R. Ist. stor. ital. per l'età moderna e contemporanea, I (1935), p. 10; G. Guelfi Camajani, Il "Liber nobilitatis Genuensis" e il governo della Repubblica di Genova fino all'anno 1797, Firenze 1965, p. 326, G. Casanova, La Liguria centro-occidentale e l'invasione franco-piemontese del 1625, Genova 1983, pp. 207-210. E sulla fortuna napoletana dei De Mari cfr. G. Coniglio, IlViceregno di Napoli nel sec. XVII, Roma 1955, pp. 247, 268ss.; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Roma-Bari 1967, pp.173, 276;R. Colapietra, Dal Magnanimo a Masaniello. Studi di storia meridionale nell'età moderna, II, I Genovesi a Napoli durante il Viceregno spagnolo, Salerno 1973, pp. 17, 19 s., 138, 179; Id., L'amabile fierezza di Francesco d'Andrea, Milano 1981, p. 20.