AGOSTINO, Aurelio, santo
È il vescovo d'Ippona, il più illustre dei quattro grandi dottori della Chiesa occidentale, figura gigantesca di pensatore e di scrittore.
La vita. - Sino alla conversione (354-386). - Agostino, a cui già Orosio e i più antichi manoscritti dànno il prenome di Aurelio, nacque nella Numidia proconsolare, a Tagaste, il 13 novembre del 354. Il padre, Patricio, era decurione della città e fu seguace del paganesimo sino a pochi anni prima di morire; invece la madre, Monnica, incarnava in sé il tipo ideale della sposa e della madre cristiana. Sollecita d'infondere nell'animo del figlio gli stessi sentimenti che adornavano l'animo suo, essa si diede premura di farlo iscrivere tra i catecumeni, di deporre nella mente di lui i semi della vera religione, di volgerne il cuore alla pratica del bene con l'esempio di uomini pii. Tuttavia, inconsapevolmente trascinata dalla deplorevole abitudine di quel tempo, ne differì il battesimo ad età matura.
Agostino cominciò gli studî a Tagaste, dove, sotto la guida e con la ferula dei primi magistri, apprese a leggere, a scrivere, a computare; frequentò la scuola di grammatica nella vicina Madaura con grande trasporto e amore per gli scrittori latini, specialmente per Virgilio, ma con nessuno o quasi per la lingua greca e per Omero, e, dopo un anno di ozio impostogli dalle condizioni economiche della famiglia, si recò a Cartagine per compiervi, con il generoso contributo di Romaniano, il quadriennale corso di retorica. Nei quattro anni di vita cartaginese (371-374) subì una duplice crisi: le passioni giovanili e le seduzioni della molle Cartagine lo spinsero ben presto ad una relazione concubinaria dalla quale nel 372 ebbe un figlio, Adeodato; il desiderio ardentissimo della sapienza accesogli nel cuore dalla lettura dell'Hortensius di Cicerone e non soddisfatto dalle pagine della Bibbia, che parvero rozze e spregevoli al suo raffinato gusto letterario e al suo spirito orgoglioso, finì per indurlo ad accedere, in qualità di semplice uditore, al manicheismo (v.). Terminati gli studî, ritornò a Tagaste, aprì una scuola di grammatica e fece propaganda di manicheismo. Monnica nel suo dolore per il traviamento del figlio fu confortata da una visione avuta in sogno e dalle parole di un vescovo: fieri non potest ut filius istarum lacrimarum pereat.
Tagaste era un campo troppo angusto per Agostino: la perdita di un amico carissimo glielo rese per giunta odioso e insopportabile. Decise, perciò, di tornarsene a Cartagine. Ivi insegnò retorica per otto anni (376-383), contando tra i discepoli i figli di Romaniano, suo mecenate, Alipio, già suo alunno di grammatica a Tagaste, ed Eulogio; prese parte ad un concorso per un carmen theatricum, riuscendone vincitore e guadagnando la corona agonistica che gli fu posta sul capo dallo stesso proconsole, Vindiciano; compose, verso il 380, il De pulchro et apto, dedicandolo al celebre retore siro Ierio (Hierius), che insegnava allora ed esercitava l'eloquenza latina a Roma; si dedicò allo studio della filosofia e delle scienze naturali, specialmente dell'astronomia, per saggiare la sodezza della dottrina manichea, contro la quale nella sua mente inquieta cominciava a sorgere e si rafforzava sempre maggiormente il dubbio.
I manichei di Cartagine, a cui rivolgeva spesso imbarazzanti quesiti, solevano rispondergli che attendesse Fausto di Milevi, perché da lui avrebbero avuto adeguata risposta tutte le sue domande. Fausto capitò a Cartagine solo nel 383; Agostino aveva allora 29 anni. Ma le dilhcoltà non furono risolte. Fausto non apparve che un retore, e per giunta non troppo colto, ad Agostino, che ne ebbe una vera e propria delusione e, pur continuando a mantenere gli esterni rapporti con i manichei, si distaccò con l'animo dalla loro dottrina.
Nello stesso anno 383, probabilmente in autunno, Agostino abbandonò l'Africa, lasciando con un inganno la madre a pregare e a piangere nella Memoria di S. Cipriano, che si ergeva poco lungi dal porto di Cartagine; e venne a Roma, spintovi dal desiderio di trovare scolaresca più disciplinata, guadagno più lauto, onori più alti. Nella metropoli dell'impero, Agostino, forse per opera di Alipio, manicheo, trasferitovisi già prima di lui, fu ospite di un uditore manicheo. Riavutosi dalle febbri, che lo avevano colpito appena giunto nella nuova sede, cominciò il corso delle sue lezioni di retorica. Ma ben tosto si accorse che, se gli scolari di Cartagine disturbavano spesso le lezioni dei professori, quelli di Roma avevano il brutto vezzo di frequentare per qualche tempo la scuola di un maestro e di abbandonarla, per passare ad un'altra, proprio al momento di pagare la pattuita mercede. Al giovane retore non poteva toccare, da questo lato, disinganno maggiore.
Fortunatamente, in quell'anno la città di Milano si era rivolta al prefetto di Roma, Quinto Aurelio Simmaco, per avere da lui un professore di retorica. Agostino partecipò al concorso e, con l'aiuto dei manichei, ottenne la cattedra. A Milano, sotto l'azione di cause diverse, doveva nel biennio 384-386 maturare e prodigiosamente risolversi la crisi spirituale, che da molti anni teneva in pena l'animo di Agostino, imprimendo alla sua vita un indirizzo del tutto nuovo. Infatti la domenicale predicazione di S. Ambrogio, con l'interpretazione delle Scritture improntata ad un sano allegorismo che rendeva chiari e accettabili i passi, contro i quali si appuntavano le critiche dei manichei, fece dileguare a poco a poco i pregiudizî che ancora gli restavano sulla Scrittura in genere e sul Vecchio Testamento in ispecie; alcune opere platoniche, tradotte in lingua latina da Mario Vittorino e procurategli forse da Manlio Teodoro, impedirono che il dubbio accademico, subentrato al manicheismo, lo soggiogasse completamente e per sempre, gli dischiusero i vasti orizzonti della concezione spiritualistica, gli chiarirono il problema filosofico sulla natura e sull'origine del male; e la madre, che intanto lo raggiunse a Milano come lo aveva seguito a Cartagine, non cessava di battere in breccia per indurlo al passo decisivo della conversione. Insisteva nello stesso tempo perché si ammogliasse, in maniera decorosa e vantaggiosa. Però troppo grandi erano gli ostacoli che ancora gli rimanevano da superare. Si era sciolto, è vero, dai lacci che per quattordici anni circa lo avevano tenuto legato alla sua concubina; ma, nell'attesa del legittimo matrimonio, era caduto tra le maglie di un nuovo concubinato; né era riuscito a eliminare del tutto le aspirazioni agli onori ed al successo mondano. Il contrasto tra le aspirazioni nobilissime, che portava chiuse nel seno, e la realtà della vita, era troppo stridente. Quasi a renderlo più acuto giunse dapprima il racconto della conversione di Mario Vittorino, fattogli da S. Simpliciano, allora presbitero; pochi giorni dopo, Ponticiano gli narrò in casa sua la conversione di Antonio e di altri eremiti. Agostino si sentì agitato da un vero tumulto di sentimenti contrastanti: la vergogna, la confusione, lo sdegno s'impossessarono di lui. Mai, come allora, provò il bisogno di star solo e di piangere: appena uscito Ponticiano, prese il codice delle lettere di S. Paolo, si recò, seguito da Alipio e visibilmente turbato, nel giardino annesso alla casa, si appartò in luogo remoto, all'ombra di un fico, e sciolse il freno a un pianto dirotto. Mentre piangeva, implorando aiuto da Dio, lo percosse il suono di una voce infantile: Tolle, lege; tolle, lege! Fu per lui un comando del cielo. Aprì il codice dell'epistolario paolino, lesse la sentenza di Romani, XIII, 13-14, che a caso gli cadde sott'occhi, la prese quasi tessera della sua vita e tosto avvertì che un radicale cambiamento si era in lui verificato: una luce tranquilla rischiarava la sua intelligenza; una pace serena era spuntata nel suo cuore; una forza arcana, mai sentita prima di allora, sosteneva e animava la sua volontà. Egli era convertito. E Alipio, che da lui si era lasciato indurre al manicheismo, ne volle seguire l'esempio.
Era l'estate del 386: mancavano appena tre settimane circa per le ferie della vendemmia, che cominciavano il 23 di agosto, e per la conseguente chiusura delle scuole.
Sino alla consacrazione episcopale (386-396). - Agostino decise di abbandonare la scuola, di rinunziare al matrimonio, di consacrarsi tutto al servizio di Dio; ma volle che il fatto della sua conversione e i suoi propositi restassero, per il momento, un segreto. Finite le scuole e passate le vacanze, rinunziò alla cattedra adducendo motivi di salute, che realmente esistevano; si ritirò, verso gli ultimi giorni di ottobre o sui primi di novembre, nella villa di Verecondo, a Cassiciacum, per prepararsi al battesimo; e, ritornato a Milano sul cominciare della quaresima, ricevette, insieme con Alipio e Adeodato, le acque lustrali dalle mani di Ambrogio, la notte del sabato santo, 24-25 aprile 387. Poco dopo, cedendo forse al desiderio della madre, si pose in viaggio per il suo ritorno in Africa: ad Ostia, mentre sì attendeva l'imbarco, Monnica improvvisamente ammalò e, dopo nove giorni, morì. Agostino contava allora 33 anni: non si era dunque ancora al 13 novembre del 387. Frattanto, interrotta con l'autunno la navigazione, Agostino si trattenne a Roma, studiando la vita che si svolgeva nei monasteri di uomini e di donne e paragonandola, con intendimenti apologetici, alla vita dei manichei. Dopo l'uccisione dell'usurpatore Massimo (27 agosto 388) riprese la via del ritorno in patria: s'imbarcò ad Ostia e, per Cartagine, raggiunse la sua Tagaste. Venduti i pochi beni che aveva e distribuitone il prezzo ai poveri, visse, per un triennio circa, nelle vicinanze della città nativa insieme con Alipio, Evodio e Adeodato, dedicandosi tutto ai digiuni, alla preghiera, allo studio. In quel tempo ebbe la sventura di perdere il diletto figlio, Adeodato, in età di circa 17 anni.
La notizia della sua mirabile conversione, la fama della sua dottrina e della sua santità si propagavano sempre più, attirando sopra di lui lo sguardo attonito e l'ammirazione di tutti. Recatosi per breve tempo ad Ippona sul principio del 391, con il segreto divisamento di trovare un luogo adatto alla fondazione di un monastero e per attirare un agens in rebus al genere di vita da lui professato, entrò, a caso, nella Basilica pacis proprio mentre il vescovo della città, Valerio, esponeva al popolo la necessità, che sentivasi urgente, di un altro presbitero: preso a viva forza dai fedeli, che ne avevano avvertita la presenza e lo avevano riconosciuto, tutto confuso e piangente, fu presentato a Valerio e, sebbene riluttante, ordinato sacerdote.
La scelta non poteva essere migliore: l'attività del nuovo presbitero lo dimostrò ben presto. Istituì nell'orto della chiesa un monastero; condusse vigorosamente innanzi, e con successo, la polemica contro il manicheismo; aprì, contro il donatismo (v.) trionfante la polemica che doveva, in pochi anni, restituire alla chiesa africana l'unità religiosa; esercitò, per incarico di Valerio, il ministero della parola anche alla presenza del vescovo, non ostante la consuetudine contraria, in Africa scrupolosamente osservata; riuscì, con il fascino della sua eloquenza, ad estirpare il grave abuso dei banchetti che ad Ippona, come nel resto dell'Africa e altrove, solevano celebrarsi dal popolo nelle Memorie dei martiri.
Tutti ormai riconoscevano e apprezzavano il valore e i meriti del presbitero ipponese: i cattolici e i donatisti, i semplici fedeli e l'episcopato, le chiese dell'Africa e quelle d'oltremare. Era quasi impossibile che Agostino - il quale dal monastero d'Ippona aveva già fornito due vescovi: Alipio a Tagaste, Profuturo a Cirta - non fosse, o presto o tardi, richiesto a vescovo da qualche sede vacante. Il vecchio Valerio, nel timore che tanta iattura potesse incogliere alla sua chiesa, si rivolse in tutta segretezza al primate dell'Africa, Aurelio di Cartagine, e, allegando come motivi la tarda età e la malferma salute, ottenne che Agostino fosse designato e consacrato a suo coadiutore e successore. La consacrazione episcopale fu conferita ad Agostino tra le acclamazioni del popolo, ma non senza qualche difficoltà, dal primate della Numidia, Megalio di Calama.
La data di questo avvenimento, che dettò a Paolino di Nola espressioni di vero e sentito entusiasmo (Ep. 32, tra le agostiniane), viene assegnata dai più, per non dire da tutti, al 395, nell'imminenza del Natale. Ma i documenti che se ne adducono a prova (Prospero, Chronicon, ad a. 395, in Monum. Germ. Hist., Chron. min., I, p. 463; Agostino, Serm. 339, 3), non ispirano piena e incondizionata fiducia. Basti dire che il Chronicon di Prospero, nel latercolo in cui riferisce la consacrazione di Agostino, ricorda fatti appartenenti ad anni diversi, cioè: la sconfitta di Eugenio, avvenuta il 6 settembre del 394 (Socrate, H. E., 5, 25; Fasti Vindobonenses priores, in Monum. Germ. Hist., IX, 298) e la morte dell'imperatore Teodosio, che avvenne il 17 gennaio del 395 (Socrate, H. E., 5, 26; 6, 1). Inoltre, la tradizione manoscritta del sermone agostiniano 339 è così discorde e incerta che non può dare verun punto solido di appoggio per una conclusione cronologica netta e sicura (cfr. Patrol. lat., XXXVIII, coll. 1480-1482 e 244-247 con cod. casin. XVII, pp. 368-377 e Patrol. lat., XLVI, coll. 960-971). La consacrazione episcopale di Agostino va collocata, a nostro avviso, nel 396. Infatti: 1. Agostino, nella quaresima o nell'Ascensione del 395, è ancora presbitero (Cfr. Ep. 29); 2. il 28 di agosto del 397 sottoscrive, quale vescovo d'Ippona, gli Atti del terzo concilio di Cartagine (cfr. Mansi, Concil., III, coll. 916-930); 3. dopo il 4 aprile del 397 scrive, come primizia letteraria del suo episcopato, i due libri ad Simplicianum ecclesiae mediolanensis antistitem qui beatissimo successit Ambrosio e ci fa sapere che si trovava allora in ipso exordio episcopatus (cfr. Paolino di Milano, Vita S. Ambrosii, 32 e 48; Agostino, Retract., 2, 1; De octo Dulcitii quaest., 6; De praedestin. sanct., 4, 8; De dono persev., 20, 52). Ora, se la consacrazione episcopale di Agostino fosse avvenuta nel mese di dicembre del 395 piuttosto che nel 396, riuscirebbe inesplicabile come lo stesso Agostino per oltre un anno si sia interdetta ogni forma di attività letteraria e come possa dirci che, nella primavera del 397, stava proprio all'inizio del suo episcopato. Ad ogni modo è fuori dubbio che, nella seconda metà del 397, Agostino era definitivamente successo a Valerio e governava da solo la chiesa d'Ippona.
L'episcopato sino alla morte (397-430). - I trentaquattro anni di episcopato segnano un periodo di straordinaria attività nella vita e di pieno sviluppo del pensiero di Agostino.
Costretto a prendere stanza nell'episcopio, lo ridusse a monastero, imponendo ai suoi chierici il regime della vita comune. Favorì, pur senza essere troppo entusiasta di questo genere di cose, la costruzione di nuovi edifizî ecclesiastici. Conobbe e si studiò di praticare tutte le forme della carità cristiana: ebbe sempre a cuore l'istruzione religiosa e, più ancora, il progresso morale del popolo a lui affidato, esercitando a tale scopo il gravoso ministero della predicazione, talora due volte al giorno e talora per tre o anche dieci giorni consecutivi; e questo sino alla sua estrema infermità. Al clero seppe dare, quando il caso lo richiedeva, esempî di rara fermezza e d'inusitato rigore.
Ma le cure della chiesa d'Ippona non impedirono punto ad Agostino di prendere parte attivissima alla vita ecclesiastica, che allora si svolgeva intensa sul suolo africano, e d'intervenire nelle numerose, vaste e difficili contese dottrinali, che tenevano in agitazione il cristianesimo di quel tempo. Infatti: propagò in Africa il monachismo, ch'egli aveva imparato a conoscere e ad amare in Italia, adoperando in ciò tanto zelo, da poter essere creduto l'inventore piuttosto che il propagatore di quel genere di vita; prese parte, e certo non da semplice spettatore, alle frequenti riunioni dell'episcopato africano (p. es. a quelle di Cartagine degli anni 397, 403, 411, 418, 419 e di Milevi del 416); tenne continua relazione epistolare su argomenti per lo più d'indole filosofica, dogmatica, morale con oscuri fedeli e con illustri scrittori, quali, ad esempio, S. Girolamo e Paolino di Nola. Ma ciò che dà speciale carattere e fisionomia al periodo del suo episcopato sono le polemiche da lui sostenute contro il manicheismo, contro il donatismo e contro il pelagianismo (v.). Esse costituirono, successivamente, la predominante occupazione della sua vita e gli offrirono il modo di elaborare, di esporre e di difendere in contraddittorio, quel sistema dottrinale che forrna il titolo migliore della sua gloria. Dire di queste polemiche in particolare, cioè del loro contenuto dottrinale e del loro sviluppo storico, è riservato ad altro luogo. Qui basti ricordarle per sommi capi.
La polemica antimanichea, iniziata a Roma nel 388, fu proseguita sino al 405 e ripresa, sebbene per breve tempo e per via indiretta, nel 415 con l'opera contro il priscillianismo (v.) e nel 420 circa con la confutazione del marcionismo (v.). Prese di mira principalmente portunato, Adimanto, Fausio, lo stesso Māni, Felice e Secondino, aggirandosi, naturalmente, sulla natura e sulla origine del male.
La polemica contro il donatismo, che contava ormai quasi un secolo di vita, fu ripigliata da Agostino sulle orme di Ottato di Milevi, aperta con l'epistola 23 a Massimino di Sinito, e si può considerare chiusa con la conferenza, che, per ordine di Onorio e sotto la presidenza di Marcellino, fu tenuta a Cartagine nel mese di giugno del 411. In questa polemica Agostino ebbe a combattere, in ispecie, Parmeniano, Petiliano, Cresconio, Emerito e Gaudenzio. La controversia aveva per argomento l'efficacia obiettiva dei sacramenti e la costituzione della Chiesa: a non tener conto delle questioni storiche e dei fatti particolari che la rendevano singolarmente intricata. Nel corso della polemica, Agostino, dinnanzi alle crudeltà dei circoncellioni, si persuase che il rigore delle leggi imperiali contro i donatisti non era pernicioso, ma salutare. Tuttavia nel 408 circa scriveva al proconsole Donato: vos rogamus ne occidantur.
La polemica contro il pelagianismo, che spuntò mentre tramontava la polemica antidonatista, tenne occupato Agostino sino agli ultimi giorni della sua vita e passò per una duplice fase. La prima culminò nella Tractoria di papa Zosimo (maggio del 418), segnando il trionfo della campagna che Agostino menava contro Pelagio e Celestio sin dal 411: i due novatori furono definitivamente condannati; il dogma del peccato originale e della necessità della grazia autorevolmente sancito. La seconda fase si chiuse con il 430 e fu dedicata da Agostino principalmente a difendere, contro Giuliano di Eclano - l'interprete dei 18 vescovi italiani che si rifiutarono di sottoscrivere la Tractoria di Zosimo - e contro gli oppositori di Adrumeto, di Cartagine e della Gallia meridionale, le dottrine sul peccato originale, sulla necessità della grazia, sulla perseveranza e sulla predestinazione.
L'eta avanzata, il bisogno di tempo e di calma, il desiderio di risparmiare alla sua chiesa le dissensioni, che solevano accompagnare l'elezione di nuovi vescovi, dettarono ad Agostino l'idea di scegliersi un aiuto e di designarsi un successore. Il 26 settembre del 426, ritornato appena da Milevi, convocò il popolo nella Basilica pacis e designò il suo successore nella persona del presbitero Eraclio. I fedeli, alla presenza di appositi notai ecclesiastici, presero atto della sua volontà, ma per quasi trenta volte, acclamando, fecero echeggiare il grido: Augustino vita!
Poco dopo, il conte Bonifacio, ribelle alla corte di Ravenna, chiamava dalla Spagna i Vandali. Questi seminarono il terrore e lo sterminio nelle fiorenti provincie africane, obbligando le stremate forze imperiali a cercare un asilo nella munitissima Ippona, dove s'erano altresì rifugiati i vescovi delle vicine regioni. L'assedio, di cui ben presto Ippona fu cinta, doveva durare ben quattordici mesi. Ma nel terzo, Agostino vinto dal dolore di tante devastazioni che si erano abbattute sulla chiesa e sul territorio dell'Africa, fu colto dalle febbri e, poco dopo, tra la continua lettura dei salmi penitenziali e nella tarda età di 76 anni morì, la notte del 28 agosto 430.
Sepolto nella Basilica pacis, trasportato in Sardegna dai vescovi africani, fu riscattato dalle mani dei Saraceni per opera di Liutprando e trasferito a Pavia, dove tuttora riposa nella basilica di S. Pietro in ciel d'oro.
Le opere. - Le opere di S. Agostino sono assai numerose: egli stesso nel 426-427 poteva noverarne 93 divise in 232 libri, senza computare le Retractatione, le lettere e i sermoni (cfr. Restract., II, 67); e Possidio, all'indomani del 430, asseriva che l'eredità letteraria del vescovo d'Ippona si componeva di 1030 opere, tra libri, sermoni ed epistole (cfr. Possidio, Indiculus, 10).
In questa selva foltissima di opere ci servono, come di guide, due indici preziosi: uno, compilato dallo stesso Agostino nelle sue Retractationes, enumera gli opuscula in libris da lui scritti sino al 426-427; l'altro, l'Indiculus composto da Possidio e annesso alla Vita Augustini, ci ricorda (c. 10), oltre gli opuscula in libris, anche gli opuscula in epistolis e gli opuscula in tractatibus. I due indici, a nostro avviso, riproducono in sostanza l'Indicubus della biblioteca di Agostino, la cui esistenza ci viene esplicitamente attestata, sebbene in modo del tutto incidentale, da un testo delle Retractationes (II, 41). Nel mettere in ordine le sue opere, Agostino s'ispirò a un doppio criterio: al genere letterario e alla cronologia. Il primo criterio gli suggerì la divisione in libri, lettere e sermoni (cfr. Retract., prol.; Ep. 224, 2; Possidio, Indiculus, 6, 10), sebbene poi la distinzione tra libri e lettere non sia stata sempre rigidamente applicata nelle Retractationes (cfr. II, 10, 20, 31, 36, 41, 45, 48, 49). Il secondo criterio lo costrinse a disporre in ordine di tempo le opere di ciascun genere letterario, obbligandolo a definire con precisione il tempo nel quale egli aveva dato a ciascuna opera principio e compimento (cfr. p. es. Retract., II, 24,1). Possidio, a sua volta, nel compilare l'Indiculus, conservò inalterata la distinzione per genere letterario e talora anche la distribuzione in ordine cronologico; ma fece uso, inoltre, di un terzo criterio, distribuendo le opere in ordine sistematico o per argomento.
Da parte nostra manterremo fedelmente l'ordine stabilito e volto dallo stesso S. Agostino. E perciò dal n. 1 al n. 103 elencheremo le opere in libri (opuscula in libris); sotto il n. 104 parleremo dell'epistolario (opuscula in epistolis); e al n. 105 tratteremo dei sermoni (opuscula in tractatibus). Di ciascuna opera o di ciascun gruppo di opere ricorderemo quel tanto che giova conoscere e che ci viene consentito dai limiti e dall'indole del presente articolo. Le sigle P.L. e C.S.E.L., indicano rispettivamente la Patrologia latina del Migne e il Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum latinorum, di Vienna. Il primo numero indica il volume, il secondo la colonna o la pagina.
Chi desidera conoscere le opere di S. Agostino nella loro distribuzione sistematica o per argomento, può servirsi dello schema e dei richiami ai numeri del nostro articolo, che qui facciamo seguire:
I. Opere autobiografiche (cfr. n. 34 e 96).
II. Opere filosofiche (cfr. n. 1-7, 9-10, 12-13).
III. Opere apologetiche (cfr. n. 58 e 71).
IV. Opere dogmatiche (cfr. n. 18, 27, 29, 43, 66, 92-93)
V. Opere polemiche: a) contro le eresie in genere (cfr. n. 102); b) contro il manicheismo (cfr. n. 8, 10-11, 14-17, 23,30,35-38); c) contro il priscillianismo (cfr. n. 72); d) contro il marcionismo (cfr. n. 86); e) contro il donatismo (cfr. n. 21-22, 33, 45-47, 53-57, 62-63, 67-68, 74, 79, 87); f) contro il pelagianismo (cfr. n. 61, 64-65, 70-75, 78, 81, 84, 89-90, 94-95, 100-101, 103), g) contro l'arianesimo (cfr. n. 80, 98-99).
VI. Opere esegetiche: a) d'indole generale (cfr. n. 32); b) sul Vecchio Testamento (cfr. n. 11, 19, 41, 52, 82-83, 105); c) sul Nuovo Testamento (cfr. n. 20, 24-26, 40, 44, 60, 105).
VII. Opere morali e pastorali (cfr. n. 28, 31, 39, 42, 49-51, 88, 97).
VIII. Lettere (cfr. n. 104).
IX. Sermoni (cfr. n. 105).
Prima della consacrazione episcopale (380-396):
a) a Cartagine (380-381): 1. De pulchro et apto (perduto). Trattato di estetica in due o tre libri (cfr. Confess., 4, 13, 20; 4, 15, 27);
b) a Cassiciaco (novembre 386-marzo 387): 2. Contra academicos o De academicis libri III (P.L., 32, 905; C.S.E.L., 63, 3). Confutazione dello scetticismo, in forma di dialogo, dedicata a Romaniano (cfr. Retract., I, 1; Ep., 1); 3. De beata vita liber I (P.L. 32, 959; C.S.E.L., 63, 89). Dialogo tenuto nei giorni 13-15 nov. 386 per dimostrare che la felicità consiste nel conoscere Dio. È dedicato a Manlio Teodoro, che fu console nel 399 (cfr. Retract., I, 2); 4. De ordine libri II (P.L., 32, 977; C.S.E.L., 63, 121). Dialogo dedicato a Zenobio. Esamina se anche il male entra nell'ordine stabilito dalla Provvidenza (cfr. Retract., I, 3); 5. Soliloquiorum libri II (P.L., 32, 869). Trattano delle condizioni richieste in chi vuol conoscere Dio e della immortalità dell'anima. Furono composti sul principio del 387 (cfr. Retract., I, 4);
c) a Milano (prima del battesimo, 24-25 aprile 387): 6. De immortalitate animae liber I (P.L., 32, 1021) "Quasi commonitorium... propter soliloquia terminanda". Insiste nel dimostrare che l'anima è immortale perché sede della verità. Soverchiamente conciso, e perciò assai oscuro (cfr. Retract., I, 5), 7. Disciplinarum libri. Vasta enciclopedia delle arti liberali, destinata a comprendere grammatica, retorica, dialettica, filosofia, aritmetica, geometria, musica. Agostino portò a compimento il De grammatica (perduto) e sei libri De musica, in cui si occupa soltanto di metrica latina (cfr. R. Cardamone, Augustini de musica l. VI, trad. e ann., Firenze 1879). Importanti notizie sulla musica del tempo troviamo invece nelle Confessioni e nei commenti ai salmi. Degli altri trattati "sola principia remanserunt, quae etiam ipsa perdidimus" (cfr. Retract., I, 6);
d) a Roma (autunno 387-agosto 388): 8. De moribus Ecclesiae catholicae et de moribus manichaeorum libri II (P.L., 32, 1309). Paragone tra la vita morale dei cattolici e quella dei manichei. L'opera, cominciata a Roma, fu terminata in Africa, come si arguisce da una espressione che si legge in II, xx, 74 (cfr. Retract., I, 7); 9. De quantitate animae liber I (P.L., 32, 1035). Dialogo in cui si discutono diversi problemi di psicologia, ma principalmente quello della immortalità dell'anima (cfr. Retract., I, 8); 10. De libero arbitrio libri III (P.L., 32, 1221). Cominciati a Roma, ma terminati a Ippona dopo il 391. In forma di dialogo trattano dell'origine del male, che viene posta nel libero arbitrio (cfr. Retract., I, 9);
e) a Tagaste (388-391): 11. De genesi adversus manichaeos libri III (P.L., 34, 173). Scritti nella solitudine di Tagaste con metodo allegorico, sono destinati a sciogliere le difficoltà dei manichei contro il raceonto della creazione (cfr. Retract., I, 10; De genesi ad litteram, 8, 2, 5); 12. De musica libri VI (P.L., 32, 1081). Concepiti a Milano come parte dei libri disciplinarum, furono scritti a Tagaste. Trattano de solo rhytmo (cfr. Retract., I, 6; I, 11; Ep., 101, 3-4); 13. De magistro liber (P.L., 32, 1193). Dialogo in cui si dimostra "magistrum non esse, qui docet hominem scientiam, nisi Deum" (cfr. Retract., I, 12); 14. De vera religione liber (P.L., 34, 121). Confuta il dualismo manicheo e dimostra che la vera religione trovasi unicamente nel cattolicismo. È dedicato a Romaniano a cui Agostino lo aveva promesso (cfr. Contra acad., 2, 3, 8; Retract., I, 13);
f) ad Ippona (391-396): 15. De utilitate credendi liber (P.L., 42, 65; C.S.E.L., 25, 3). Indirizzato da Agostino già presbitero ad Onorato per dimostrargli che la fede non è cieca, perché si appoggia a prove irrefragabili (cfr. Retract., I, 14); 16. De duabus animabus liber (P.L., 42, 93; C.S.E.L., 25, 51). Contro l'errore dei manichei, i quali ammettevano due anime nell'uomo - una proveniente dal principio del male, l'altra dal principio del bene - dimostra che in ogni uomo vi è un'anima sola e che l'origine del male sta nel libero arbitrio (cfr. Retract., I, 15); 17. Acta seu disputatio contra Fortunatum manichaeum (P.L. 42, 111; C.S.E.L., 25, 81). Resoconto stenografico di una disputa tenuta ad Ippona il 28 e 29 agosto 392 tra Agostino e Fortunato, presbitero manicheo (cfr. Retract., I, 16); 18. De fide et symbolo liber (P.L., 40, 181; C.S.E.L., 41, 3). Discorso sul simbolo, tenuto da Agostino nel 393 ad Ippona dinnanzi all'assemblea dei vescovi ch'erano radunati in concilio "in secretario Basilicae pacis" (cfr. Retract., I, 17); 19. De genesi ad litteram liber imperfectus (P.L., 34, 219; C.S.E.L., 28, 459). Tentativo di spiegazione letterale del Genesi sino a Gen.,1, 26 (cfr. Retract., I, 18); 20. De sermone Domini in monte libri II (P.L., 34, 1229). Spiegazione del discorso della montagna secondo il testo di Matteo, V-VII. Frutto della predicazione di Agostino negli anni del suo presbiterato (cfr. Retract., I, 19); 21. Psalmus contra partem Donati (P.L., 42, 23; C.S.E.L., 51, 3). Canto ritmico di 240 versi, scritto per il popolo. Era preceduto da un prologo, ora perduto, ed è seguito da un epilogo. Ciascuna delle 20 strofe, di 12 versi ognuna, è intercalata dal ritornello "Omnes qui gaudetis de pace modo verum iudicate" e comincia con una lettera dell'alfabeto, da A a V. Di qui il nome di salmo abecedario. Narra in breve la storia dello scisma donatista (cfr. Retract., I, 20); 22. Contra epistolam Donati haeretici liber (perduto; cfr. Retract., I, 21), 23. Contra Adimantum Manichaei discipulum liber (P.L., 42, 129; C.S.E.L., 25, 11). Soluzione delle contraddizioni che Adimanto credeva di trovare tra il Vecchio e il Nuovo Testamento (cfr. Retract., I, 22); 24. Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Romanos (P.L., 35, 2063). Spiegazione di alcuni passi difficili dell'epistola ai Romani, sui quali Agostino venne interrogato dai religiosi di un monastero di Cartagine dove trovavasi di passaggio (cfr. Retract., I, 23); 25. Expositio Epistolae ad Galatas liber (P.L., 35, 2105). Commentario letterale dell'epistola ai Galati (cfr. Retract., I, 24); 26. Epistolae ad Romanos inchoata expositio (P.L., 35, 2088). Tentativo di spiegazione letterale dell'epistola ai Romani, che si arresta a Rom.1, 7. Le difficoltà, che Agostino incontrava, gli fecero abbandonare l'impresa (cfr. Retract., I, 25); 27. De diversis quaestionibus LXXXIII liber (P.L., 40, 11). Raccolta di ottantatré questioni per lo più d'indole filosofica, composte tra il 388 e il 396 e riunite quando Agostino era già vescovo (cfr. Retract., I, 26); 28. De mendacio liber (P.L., 40, 487; C.S.E.L., 41, 413). Lo stesso autore nel 426-427 lo giudicò obscurus et anfractuosus; ma non del tutto inutile (cfr. Retract., I, 27).
Dalla consacrazione episcopale alla morte (396-430).
g) nei primi anni dell'episcopato, sino al dicembre del 398:29) De diversis quaestionibus ad Simplicianum libri II (P.L., 40, 101). Composti dopo il 4 aprile del 397, perché diretti a Simpliciano Ecclesiae mediolanensis antistitem. Le questioni, che vi si propongono e discutono, sono desunte dall'epistola ai Romani e dai libri dei Re (cfr. Retract., II, 1); 30. Contra epistolam Mamchaei quam vocant fundamenti liber (P.L., 42, 173; C.S.E.L., 25, 191). Confutazione dell'epistola di Māni. Si diffonde particolarmente sul dualismo, sul fatto della creazione e sull'origine del male (cfr. Retract., II, 2); 31. De agone christiano liber (P.L., 40, 289; C.S.E.L., 41, 101). Il posto che occupa nelle Retracta tiones c'induce a ritenerlo composto dopo il mese di aprile del 397. Scritto humili sermone perché destinato ai fedeli in eloquio latino ineruditi. Espone brevemente il contenuto del simbolo e i precetti della morale (cfr. Retract., II, 3); 32. De doctrina christiana libri IV (P.L., 34, 15). I primi tre libri "adiuvant ut Scripturae intelligantur, quartus autem quomodo quae intelligimus proferenda sint". La prima parte, fino a III, xxv, 36 fu scritta nel 397; la seconda, nel 426-427 (cfr. Retract., II, 4); 33. Contra partem Donati (perduto; cfr. Retract., II, 5); 34. Confessionum libri XIII (P.L., 32, 659; C.S.E.L., 33). Le Confessiones (da confiteri, nel senso biblico di "lodare") possono ben dirsi un inno di lode che Agostino, narrando la sua vita passata (sino al 388 c.) e considerando il suo stato presente, innalza al Signore. L'autore, nello scriverle verso il 397-398, si prefisse uno scopo edificativo; ma non deve escludersi che abbia voluto altresì rispondere, indirettamente, alle accuse dei donatisti, delle quali trovasi un'eco nel Contra litteras Petiliani e nel Contra Cresconium. Analisi psicologica acuta, ricchezza di sentimento, narrazione schietta, perfezione di stile e splendore di forma fecero e fanno di quest'opera un vero capolavoro. La tesi che cercava di annullare il valore storico delle Confessiones o, quanto meno, di ridurlo a minime proporzioni, può dirsi sostanzialmente superata (cfr. Retract., II, 6); 35. Contra Faustum manichaeum libri XXXIII (P.L., 42, 207; C.S.E.L., 25, 249). Difesa del Vecchio e del Nuovo Testamento contro le accuse e le difficoltà di Fausto di Milevi, composta nel 398 (cfr. Retract., II, 7); 36. Contra Felicem manichaeum o De Actis cum Felice manichaeo libri II (P.L., 42, 519; C.S.E.L., 25, 799). Disputa tra Felice manicheo ed Agostino, tenuta ad Ippona il 7 e il 12 dicembre 398 (IV consolato di Onorio, non VI, come per errore di trascrizione leggesi in quasi tutti i codici). La discussione si svolse sulla missione di Māni, sulla immutabilità di Dio, sulla libertà in quanto principio del male e sulla Redenzione. Felice si dichiarò vinto (cfr. Retract., II, 8);
h) dal 399 al 406 circa: 37. De natura boni liber (P.L., 42, 551; C.S.E.L., 25, 853). Composto nel 399. Dimostra che tutte le cose sono buone, avendo per autore Dio che è buono per essenza. Il male è un defectus boni: ripugna quindi l'esistenza di un principio assoluto del male, giacché dovrebbe essere la negazione di qualsiasi entità, cioè il nulla assoluto (cfr. Retract., II, 9); 38. Contra Secundinum manichaeum liber I (P.L., 42, 577; C.S.E.L., 25, 903). Risposta a una lettera che Secondino aveva scritto ad Agostino per esortarlo a non combattere più il manicheismo e per indurlo, anzi, ad abbandonare il cattolicismo e fare ritorno al manicheismo (cfr. Retract., II, 10); 39. Contra Hilarum liber (perduto). Scritto nel 399 per difendere la pratica, che da poco erasi introdotta a Cartagine, di cantare i salmi "sive ante oblationem, sive cum distribueretur populo quod fuisset oblatum" (cfr. Retract., II, 11); 40. Quaestiones evangeliorum, libri II (P.L., 35, 1321). Soluzioni di alcune questioni, proposte ad Agostino da un amico, su diversi testi dei vangeli di Matteo e di Luca. Quando Agostino le scrisse erano ancora recenti le leggi del 399 pubblicate dall'imperatore Onorio contro il paganesimo (cfr. Retract., II, 12); 41. Adnotationes in Job (P.L., 34, 835; C.S.E.L., 38, 507). Note marginali apposte da Agostino al testo di Giobbe, da altri trascritte verso il 400 e raccolte in volume (cir. Retract., II, 13); 42) De catechizandis rudibus liber (P.L., 40, 309). Manuale di istruzione catechetica scritto per il diacono Deogratias di Cartagine (cfr. Retract., II, 14); 43) De Trinitate libri XV (P.L., 42, 819). Cominciati verso il 400, furono menati a termine nel 416 circa. I prilni sette libri espongono il dogma della Trinità, basandosi sulle testimonianze della Scrittura; gli altri otto studiano le analogie che del mistero ci offre principalmente l'anima umana con le sue facoltà e con le sue operazioni (cfr. Retract., II, 16); 44. De consensu Evangelistarum libri IV (P.L., 34, 1041; C.S.E.L., 43, 1). Armonia dei quattro evangeli, scritta verso il 400, per confutare coloro che asserivano esservi contraddizioni tra i loro racconti (cfr. Retract., II, 15); 45. Contra epistolam Parmeniani libri III (P.L., 43, 33; C.S.E.L., 51, 17). Prendendo occasione dalla lettera di Parmeniano a Ticonio, dimostrano la cattolicità della Chiesa ed esaminano le origini dello scisma donatista (cfr. Retract., II, 17); 46. De baptismo libri VII (P.L., 43, 107; C.S.E.L., 51, 143). Esame delle testimonianze di Cipriano e delle sententiae episcoporum del concilio cartaginese del 256, addotte dai donatisti contro la validità del battesimti amministrato dagli eretici (cfr. Retract., II, 18); 47. Contra quod attulit Centurius a donatistis liber (perduto). Esame delle testimonianze scritturali addotte dai donatisti (cfr. Retract., II, 19); 84. Ad inquisitiones Januarii libri II (Ep., 54-55; P.L., 33, 199; C.S.E.L., 34, 158) "Multa de sacramentis continent disputata, sive quae universaliter, sive quae partiliter... observat ecclesia" (cfr. Retract., II, 20); 49. De opere monachorum liber (P.L., 40, 447). Dimostra che anche i monaci debbono attendere al lavoro manuale (cfr. Retract., II, 21); 50. De bono coniugali (P.L., 40, 373; C.S.E.L., 41, 185). Ricollegandosi alla controversia tra Gioviniano e S. Girolamo, mette in rilievo la dignità e lo scopo del matrimonio (cfr. Retract., II, 22); 51. De sancta virginitate (P.L., 40, 397; C.S.E.L., 41, 233). Apologia dello stato di verginità e di continenza ed esortazione ad abbracciarlo con spirito di vera umiltà (cfr. Retract., II, 23); 52. De Genesi ad litteram libri XII (P.L., 34, 245; C.S.E.L., 28,1). Spiegazione letterale del Genesi sino a III, 24. Assai numerose, sono le digressioni: i libri VI, VII e X formano un vero trattato di antropologia (cfr. Retract., II, 24); 53. Contra litteras Petiliani libri III (P.L., 34, 425; C.S.E.L., 52, 1). Confutazione di due lettere del vescovo donatista di Cirta, Petiliano. Il secondo libro fu scritto sotto il pontificato di Anastasio (cfr. II, 51, 118; Retract., II, 25); 54. Ad Cresconium grammaticum partis Donati libri IV (P.L., 43,445; C.S.E.L., 52, 323). Risposta a Cresconio, il quale si era affrettato a scrivere contro il primo libro dell'opera precedente per difendere Petiliano (cfr. Retract., II, 26); 55. Probationum et testimoniorum contra donatistas liber (perduto). Raccolta di argomenti e testimonianze contro i donatisti "sive de ecclesiasticis sive de publicis gestis sive de Scripturis canonicis" (cfr. Retract., II, 27); 56. Contra donatistam nescio quem liber (perduto). Confutazione di un anonimo donatista, il quale aveva tentato di rispondere alla raccolta testé menzionata (cfr. Retract., II 28);
i) dal 406 al 411 circa: 57. Admonitio donatistarum de maximianistis liber (perduto). Dallo scisma dei massimianis. ti traeva vantaggio a confutazione dei donatisti (cfr. Retract., II, 29); 58. De divinatione daemonum liber (P.L., 40, 581; C.S.E.L., 41, 597). Tratta delle predizioni che solevano attribuirsi ai demoni, istituendo il paragone tra esse e le profezie (cfr. Retract., II, 30); 59. Quaestiones expositae contra paganos numero VI (Ep. 102; P.L., 33, 370; C.S.E.L., 34, 544). Sei risposte ad altrettante questioni inviate ad Agostino da un amico di Cartagine. Alcune di quelle questioni dicevansi proposte dal filosofo Porfirio (cfr. Retract., II, 31); 60. Expositio Epistolae Jacobi ad duodecim tribus (perduta). Note marginali che Agostino aveva apposte al testo della lettera di S. Giacomo e che altri raccolse in volume, come aveva raccolte le Adnotationes in Job (cfr. Retract., II, 32);
l) dal 411 al 418: 61. De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum ad Marcellinum libri III (P.L., 44, 109; C.S.E.L., 60). Composti nella seconda metà del 411. Espongono contro il pelagianismo nascente la dottrina della Chiesa sul peccato originale, dimostrando come esso si trasmette a tutti i discendenti di Adamo e come viene rimesso con il sacramento del battesimo. Il terzo libro confuta la spiegazione che Pelagio dava di Rom. V, 12 nel suo commentario sulle epistole paoline (cfr. Retract., II, 33); 62. De unico baptismo contra Petilianum liber (P.L., 43, 595; C.S.E.L., 53, 1). Confutazione di un'opera intitolata De unico baptismo scritta da Petiliano, vescovo donatista di Costantina (cfr. Retract., II, 34); 63. De maximianistis contra donatistas liber (perduto). Dalla scissione dei donatisti, avvenuta in seguito al concilio di Cabarsussa, in massimianisti e primianisti, e dai principî che animavano le due fazioni, Agostino traeva argomento per confutare lo scisma donatista (cfr. Retract., II, 35); 64. De gratia Novi Testamenti liber (Ep. 140; P.L., 33, 538; C.S.E.L., 44, 155). Risposta a sei questioni inviate ad Agostino da Onorato di Cartagine. Si diffonde principalmente sulla sesta questione che riguarda la grazia (cfr. Retract., II, 36); 65. De spiritu et littera ad Marcellinum liber (P.L., 44, 201; C.S.E.L., 60, 153). Con richiamo a II Corinzî, III, 6 dimostra che l'uomo per operare il bene ha bisogno non solo della legge (littera), ma anche della grazia interiore (spiritus: cfr. Retract., II, 37); 66. De fide et operibus liber (P.L., 40, 197; C.S. E.L., 41, 33). Dimostra che per giungere alla vita eterna non basta la fede: occorrono anche le buone opere (cfr. Retract., II, 38); 67. Breviculus collationis cum donatistis, libri III (P.L., 43, 613; C.S.E.L., 53, 37). Riassunto degli Atti ufficiali della conferenza tenuta a Cartagine nei giorni 1, 3 e 8 giugno 411 tra i vescovi cattolici e donatisti per ordine di Onorio e sotto la presidenza del tribuno Marcellino (cfr. Retract., II, 39); 68. Post collationem contra donatistas liber (P.L., 43, 651; C.S.E.L., 53, 95). Appello rivolto ai laici donatisti, dopo la conferenza di Cartagine del 411, per invitarli a ritornare in seno alla "catholica" e per premunirli contro le menzogne diffuse dai vescovi donatisti (cfr. Retract., II, 40); 69. De videndo Deo liber (Ep. 147; P.L., 33, 596; C.S.E.L., 44, 274). Tratta della visione che avremo di Dio nell'altra vita (cfr. Retract., II, 41); 70. De natura et gratia liber (P.L., 44, 247; C.S.E.L., 60, 231). Confutazione del De natura di Pelagio, che difendeva la natura "contra Dei gratiam". Agostino difende la grazia "non contra naturam, sed per quam natura liberatur et regitur" (cfr. Retract., II, 42); 71. De civitate Dei libri XXII (P.L., 41, 13; C.S.E.L., 40, 1-2). Altro capolavoro di S. Agostino. Prende le mosse dal fatto della caduta di Roma nel 410; esamina i rapporti tra impero romano e paganesimo, facendo di quest'ultimo una critica minuziosa e serrata; e presenta, infine, una vasta trattazione delle origini, sviluppo e destini del genere umano. Fu composto tra il 413 e il 426-427; ma pubblicato ad intervalli (cfr. Retract., II, 43); 72. Ad Orosium contra priscillianistas et origenistas liber (P.L., 42, 669). Risposta ad una consultazione di Orosio su alcuni punti dottrinali dei priscillianisti e degli origenisti (cfr. Retract., II, 44); 73. Ad Hieronymum presbyterum libri II: unus de origine animae et alius de sententia Jacobi (Ep. 166-167: P.L., 33, 720; C.S.E.L., 44, 545). Vi si chiede il parere di Girolamo sull'origine dell'anima (cioè se questa abbia origine per traducem o per creazione) e sull'epistola di Giacomo, II, 10 (cfr. Retract., II, 45); 74. Ad Emeritum donatistarum episcopum post collationem liber (perduto; cfr. Retract., II, 46); 75. De gestis Pelagii liber (P.L., 44, 319, C.S.E.L., 42, 49). Esame degli atti del sinodo di Diospoli, tenuto nel 415 contro Pelagio (cfr. Retract., II, 47); 76. De correctione donatistarum liber (Ep. 185: P.L. 33, 792; C.S.E.L., 57, 1). Scritto nel 417 "propter eos qui nolebant illos (donatistas) legibus imperialibus corrigi" (cfr. Retract., II, 48); 77. De praesentia Dei liber (Ep. 187: P.L., 33, 832; C.S.E.L., 57, 81). Risposta a due questioni proposte ad Agostino da Dardano. Si diffonde specialmente nel dimostrare come Dio sia presente in tutte le cose e eome dimori nei santi (cfr. Retract., II, 49); 78. De gratia Christi et de peccato originali libri II (P.L., 44, 359 C.S.E.L., 42, 123). Scritti verso la metà del 418, ad istanza di Albina, Piniano e Melania, per dimostrare che la dottrina di Pelagio e di Celestio sulla grazia e sul peccato originale era opposta alla dottrina della Chiesa (cfr. Retract., II, 50); 79. Gesta cum Emerito donatista liber (P.L., 43, 697; C.S.E.L., 55, 179). Resoconto di una conferenza avuta con Emerito a Cesarea di Mauretania "in ecclesia maiori" allorché Agostino vi si recò per incarico di papa Zosimo. La conferenza si tenne, precisamente, il 20 settembre del 418 (cfr. Retract., II, 51; cfr. n. 109);
m) dal 419 circa al 430: 80. Contra sermonem arianorum liber (P.L., 42, 677). Dimostra la consustanzialità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo contro un anonimo sermone ariano (cfr. Retract., II, 52); 81. De nuptiis et concupiscentia ad Valerium comitem libri II (P.L., 44, 413; C.S.E.L., 42, 207). Scritti a intervalli nel 419-420 e indirizzati al conte Valerio della corte di Ravenna. Agostino vi si difende dalle false accuse dei pelagiani e particolarmente di Giuliano di Eclano, secondo le quali egli avrebbe condannato il matrimonio, perché implica l'esercizio della concupiscenza, ed avrebbe fatto rivivere la coneezione manichea perché difendeva il dogma del peccato originale (cfr. Retract., II, 53); 82. Locutionum in Heptateuchum libri VII (P.L., 34, 485; C.S.E.L., 28, I, 505). Brevissime note su espressioni non conformi all'indole e all'uso della lingua latina che s'incontrano nel Pentateuco, in Giosuè e nel libro dei Giudici (cfr. Retract., II, 54); 83. Quaestionum in Pentateuchum libri VII (P.L., 34, 545; C.S.E.L., 28, 1). Questioni che solleva il testo del Pentateuco: talvolta appena accennate, ma per lo più anche risolte (cfr. Retract., II, 55); 84. De anima et eius origine libri IV (P.L., 44, 475; C.S.E.L., 60, 301). Confutazione di alcuni errori di Vincenzo Vittore, della Mauretania. Agostino, confutato l'emanatismo dei manichei e rifiutata la teoria della preesistenza delle anime ammessa dagli origenisti, difende intorno al problema dell'origine dell'anima umana la sua indecisione tra il creazionismo e il traducianismo (cfr. Retract., II, 56); 85. De coniugiis adulterinis libri II (P.L., 40, 451; C.S.E.L., 41, 345). In risposta ad alcuni quesiti di Pollenzio, dimostra la indissolubilità del matrimonio anche in caso di adulterio (cfr. Retract., II, 57); 86. Contra adversarium Legis et Prophetarum libri II (P.L., 42, 603). Confutazione del dualismo marcionita, esposto e difeso in un'opera anonima che fu inviata ad Agostino da alcuní amici di Cartagine (cfr. Retract., II, 58); 87. Contra Gaudentium donatistarum episcopum libri II (P.L., 43, 707; C.S.E.L., 53, 199). L'ultima opera che Agostino scrisse contro il donatismo. È una risposta a due lettere del vescovo donatista Gaudenzio di Tamugadi, indirizzate al tribuno Dulcizio e da questi trasmesse ad Agostino (cfr. Retract., II, 59); 88. Contra mendacium liber (P.L., 40, 517; C.S.E.L., 41, 467). Sulla illiceità della menzogna (cfr. Retract., II, 60); 89. Contra duas epistolas pelagianorum libri IV (P.L., 44, 549; C.S.E.L., 60, 421). Confutazione di due lettere, scritte dai pelagiani che si rifiutarono di firmare la Tractoria di papa Zosimo, e nelle quali Agostino veniva accusato di professare il manierismo, di negare il libero arbitrio e di condannare il matrimonio. Le due lettere furono inviate ad Agostino dal papa Bonifacio I, a cui quest'opera è dedicata (cfr. Retract., II, 61); 90. Contra Julianum libri VI (P.L., 44, 641). I primi due libri confutano, con testimonianze di Padri greci e latini, l'accusa generica di manicheismo, che Giuliano di Eclano faceva ad Agostino in quanto difensore del dogma del peccato originale. Gli altri quattro libri rispondono, punto per punto, alle affermazioni dello stesso Giuliano sul peccato originale, sul matrimonio, sulla concupiscenza e sul battesimo dei bambini (cfr. Retract., II, 62); 91. De fide, spe et caritate liber ovvero Enchiridion ad Laurentium (P.L., 40, 231). Sintesi della teologia, scritta per Lorenzo, fratello del tribuno Dulcizio, e distribuita secondo le tre virtù teologali: fede (spiegaziane del Simbolo); speranza (spiegazione dell'orazione domenicale); carità (spiegazione dei precetti morali) (Cfr. Retract., II, 63); 92. De cura pro mortuis gerenda liber (P.L., 40, 591; C.S.E.L., 41, 619). Risposta a Paolino di Nola, in cui dimostrasi il vantaggio che i fedeli ritraggono dall'essere seppelliti presso le Memoriae dei martiri (cfr. Retract., II, 64); 93. De octo Dulcitii quaestionibus liber (P.L., 40, 147). Risposta ad otto questioni che il tribuno Dulcizio aveva mandato ad Agostino. Una sola risposta è originale; le altre sono costituite da estratti di opere che l'autore aveva precedentemente scritte (cfr. Retract., II, 65); 94. De gratia et libero arbitrio liber (P.L., 44, 881). Destinato al monastero di Adrumeto nella Bizacene, dove, tra diversi monaci, s'era fatta strada l'idea che ammettere la grazia significasse annullare il libero arbitrio. Perciò essi "sic defendunt liberum arbitrium, ut negent Dei gratiam, asserentes eam seeundum merita nostra dari". Agostino in quest'opera dimostra, invece, che la necessità della grazia non distrugge il libero arbitrio (cfr. Retract., II, 66); 95. De correptione et gratia liber (P.L., 44, 915). Scritto per i monaci di Adrumeto, come l'opera precedente. Dimostra che, nonostante la necessità della grazia per compiere il bene, è giusto ed utile il correggere chi fa il male; e mette in evidenza la gratuità della predestinazione e del dono della perseveranza (cfr. Retract., II, 67); 96. Retractationum libri II (P.L., 32, 583; C.S.E.L., 36, 7). Il piano di questo lavoro rimonta al 412 (cfr. Ep., 143, 2); ma non fu attuato che verso il 426-427. Agostino vi sottopone a minuta revisione gli opuscula in libris da lui scritti sino a quel momento. Di ciascuna opera determina il tempo, l'occasione e l'argomento preciso: le difficoltà, che vi si potevano incontrare, vengono da lui rimosse con opportune spiegazioni e talvolta con aperte e leali correzioni. Era suo intendimento di fare altrettanto con gli opuscula in epistolis e gli opuscula in tractatibus; ma il tempo gli venne meno (cfr. Retract., II, 67; Possidio, 28); 97. Speculum de Scriptura sacra (P.L., 34, 887; C.S.E.L., 12). Raccolta di precetti morali dai libri del Vecchio e del Nuovo Testamento (cfr. Possidio, 28); 98. Collatio cum Maximino (P.L., 22, 709). Conferenza tenuta ad Ippona nel 427 o 428 tra Agostino e il vescovo ariano Massimino (cfr. Possidio, 17); 99. Contra Maximinum (P.L., 42, 743). Scritto dopo la conferenza precedente, per correggere le false notizie che Massimino andava spargendo sull'esito della discussione (cfr. Possidio, 17); 100. De praedestinatione sanctorum (P.L., 44, 959); 101. De dono perseverantiae (P.L., 45, 993). Le opere scritte da Agostiao contro i pelagiani, specialmente il De gratia et libero arbitrio e il De correptione et gratia diretti ai monaci di Adrumeto, avevano suscitato nella Gallia meridionale, specialmente a Marsiglia e a Lerino, una vivace opposizione alla dottrina del vescovo d'Ippona. Prospero ed Ilario ne informarono Agostino, pregandolo di rispondere agli oppositori (cfr. Ep. 225-226). Così nacquero le due opere testé menzionate, nelle quali Agostino dimostra che l'inizio della fede e della conversione e la perseveranza nel bene non sono opera del libero arbitrio, come si affermava dai suoi oppositori della Gallia, ma dono di Dio. Seguono: 102. De haeresibus (P.L., 42, 21). Composto nel 428-429 ad istanza del diacono cartaginese Quodvultdeus. E rimasto incompleto, perché manca la parte in cui Agostino intendeva dimostrare "quid faciat haereticum". Nella parte che possediamo, Agostino, con la guida di Eusebio, di Fpifanio e Filastrio e con personali conoscenze, descrive ben 88 eresie, che vanno da Simon Mago a Pelagio e Celestio; 103. Contra secundam Juliani responsionem imperfectum opus (P.L., 45, 1049). Giuliano di Eclano, rifugiatosi in Cilicia, compose un'opera in otto libri contro il De nuptiis et concupiscentia. Agostino, interrompendo il lavoro delle Retractationes, ne intraprese, ad istanza di Alipio, una minuta confutazione, che fu il canto del cigno e rimase sventuratamente incompleta. Tratta del peccato originale, della concupiscenza e del libero arbitrio.
Fin qui i libri (opuscula in libris). Ma per completare la nostra rassegna ci resta a dire delle lettere (opuscula in epistolis) e dei sermoni (opuscula in tractatibus).
104. Le epistole (P.L., 33; C.S.E.L., 34, 44, 57-58), nella raccolta dei Maurini, ascendevano a 270 più un frammento, stampato tra l'Ep. 171 e l'Ep. 172. In seguito, per opera di G. Bessel, del Goldbacher e del Morin, ne furono scoperte altre cinque (Ep. 184 A; Ep. 202 A; Ep. 92 A Ep. 173 A; cfr. C.S.E.L., 58, p. xc111). Ad esse debbono aggiungersi: il De unitate Ecclesiae o Epistola ad catholicos de secta donatistarum, anteriore al Contra litteras Petiliani (cfr. I, 1) che i Maurini e il Petschenig pubblicano tra gli opuscula in libris (P.L., 43, 391; C.S.E.L., 52, 229), ma che Possidio e il concilio di Costantinopoli del 553 considerano espressamente come Epistola ad catholicos (cfr. Possidio, Indicuhs, 3; Mansi, Conc., IX, 261); il De bono viduitatis del 414 circa, che nell'Indiculus di Possidio è menzionato come Epistola de velatione Demetriadis (P.L., 40, 429; C.S.E.L., 41, 303); e il De perfectione iustitiae hominis o Epistola ad episcopum Eutropium et Paulum del 415 (P.L., 44, 291; C.S.E.L., 42, 1). L'epistolario di Agostino risulterebbe, così, di 279 lettere. Ma ne vanno separate 53, che non appartengono al vescovo d'Ippona, e 9 che da lui stesso furono incluse nelle Retractationes tra gli opuscula in libris (cfr. nn. 48, 59, 64, 69, 73, 76, 77). Sicché, in ultima analisi, l'epistolario agostiniano si compone di 217 lettere. Esse trattano per lo più di argomenti teologici, filosofici e morali (v. la divisione per argomento in Patrol. lat., 33, 1175); I Maurini distribuirono le lettere da loro pubblicate in 4 classi, cioè: a) Epistolae 1-30, appartenenti al tempo che precede la consacrazione episcopale di Agostino; b) Epistolae 31-123, scritte dalla consacrazione episcopale alla conferenza di Cartagine del 411; c) Epistolae 124-231, dettate dal 411 al 430; d) Epistolae 232-270, di data incerta. I motivi, che indussero i Maurini a fissare la data delle singole lettere, sono ampiamente esposti nella dissertazione Epistolarum ordo chronologicus che precede l'epistolario (v. anche Goldbacher, in C.S.E.L., 58, 12-63); 105. I Sermoni propriamente detti (P.L., 38-39), nella edizione dei Maurini, raggiungono il numero di 363 e sono distribuiti in quattro classi: a) Sermoni 1-183 De Scripturis Veteris et Novi Testamenti; b) Sermoni 184-272 De tempore, cioè sulle diverse feste dell'anno ecclesiastico, come Natale, Epifania, Pasqua, Ascensione, Pentecoste; c) Sermoni 273-340 De sanctis per il dies natalis o per altra commemorazione dei santi, p. es. di S. Giovanni Battista, dei Ss. Pietro e Paolo, di S. Lorenzo, di S. Stefano, di S. Cipriano, ecc.; d) Sermoni 341-363 De diversis, per lo più su argomenti d'indole morale. A questi sermoni i Maurini aggiunsero: alcuni frammenti raccolti dai florilegi di Eugippio, di Beda, di Floro, e del diacono Giovanni (cfr. P.L., 39, 1719); trentatré sermoni di dubbia autenticità (P.L., 39, 1639); e 317 sermoni, falsamente attribuiti a S. Agostino e divisi, a somiglianza dei sermoni autentici, in quattro classi (P.L., 39, 1735). Da diversi codici, ch'erano sfuggiti alle ricerche dei Maurini, furono pubblicati in seguito altri sermoni: 25 dal Denis (P.L., 46, 817); 4 dal Fontani (P.L., 47, 1113); 10 da O. Fraia Frangipane (P.L., 46, 939); 164 dal Caillau (S. Augustini sermones inediti e cura et studio A.B. Caillau, Parigi 1842); 201 dal card. A. Mai (cfr. Spicilegium Romanum, 8, Roma 1842, p. 715; Nova Patrum Bibliotheca, I,1, Roma 1852, pp.1-413); 10 dal Liverani (cfr. Spicilegium Liberianum, Firenze 1863, p. 11). Ma la maggior parte di essi - meno quelli pubblicati dal Denis e dal Frangipane e taluni pubblicati dal Mai - sono giustamente ritenuti spurî. Ben altra fiducia, invece, meritano i sermoni pubblicati in questi ultimi tempi dai benedettini G. Morin e A. Wilmart (cfr. Morin, Études, textes, découvertes, Maredsous 1913, I, p. 294; S.A. Augustini tractatus sive sermones inediti..., Kempten-Monaco 1917, in Revue Bénédictine, XXXIV, 1922, p.1; XL, p. 215; in Rendiconti della Pontificia Accad. Rom. di Archeologia, III, p. 289; Wilmart, in Revue d'Ascétique et de Mystique, II, 1921, p. 351, IX, 1928, p. 282 in Journal of Theological Studies, XXVII, p. 337; XXVIII, p. 113 e in Revue Bénéd., XLI, 1929, p. 1).
Ai sermoni, propriamente detti, bisogna aggiungere tutta una serie di Tractatus che i varî editori hanno pubblicato tra gli opuscula in libris. Tali sono: il De continentia (P.L., 40, 349) del 395; il De fide rerum quae non videntur (P.L., 40, 171) posteriore alle leggi di Onorio del 399; il De patientia (P.L., 40, 611) del 415; il Sermo ad Caesariensis ecclesiae plebem (P.L., 43, 689; C.S.E.L., 53, 165) del mese di settembre del 418; l'Adversus Judaeos (P.L., 42, 51) di data incerta; le Enarrationes in Psalmos (P.L., 36-37) costituite da sermoni, parte scritti e parte pronunziati in diverse città, come Ippona, Cartagine, Utica; i 124 Tractatus in Johannis Evangelium (P.L., 35, 1379), cioè altrettante omelie sul IV Evangelo, che furono predicate negli anni 416-417, e, finalmente, i 10 Tractatus in Epistolam Johannis ad Parthos (P.L., 35, 1977), predicati nell'ottava di Pasqua del 416.
Il Sistema. - Le fonti alle quali S. Agostino attinse la dottrina che si raccoglie dalle sue opere sono due: l'autorità e la ragione (cfr. Contra Acad., 3, 20, 43). Allorché definisce i rapporti di queste due fonti, egli afferma talvolta che l'autorità precede la ragione e talvolta che la ragione precede l'autorità. Le due affermazioni, benché a prima vista contraddittorie, sono ugualmente vere, perché "tempore auctoritas, re autem ratio prior est" (De ordine, 2, 9, 26).
L'autorità, unica nel suo principio, è rappresentata in concreto dalla Scrittura, dalla Tradizione e dalla Chiesa. La Scrittura, che si compone di tutti i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento di cui Agostino nel 397 riferisce il canone (cfr. De doctrina christiana, 2, 8, 13), essendo da Dio ispirata, è certamente immune da qualsiasi errore: e se talora, in essa, sembra esservi errore, "aut codex mendosus est, aut interpres erravit, aut tu non intelligis" (Contra Faustum, II, 5; cfr. Ep. 82, 1, 3). La Tradizione, che giunge a noi per mezzo del Simbolo, della prassi della Chiesa e degli scritti dei Padri, possiede - purché universale ed apostolica - lo stesso valore dimostrativo della Scrittura (cfr. Ep. 54, 1; De baptismo, 4, 24, 31; 5, 33, 31; Contra Julianum, 2, 9 segg.; 6, 5, 13). La Chiesa, autorità vivente e infallibile, garantisce la Scrittura (Contra ep. Manichaei, 5, 6: "Ego vero Evangelio non crederem, nisi me catholicae Ecclesiae commoveret auctoritas"), conserva la Tradizione (cfr. De doctrina christiana, 3, 2), interpreta l'una e l'altra (cfr. De genesi ad litt. liber imperf., 1, 1), dirime tutte le controversie (cfr. De baptismo, 2, 4, 5).
La ragione trova, accanto all'autorità, uso costante e impiego continuo nella dottrina di S. Agostino. Essa determina "cui sit credendum" (De vera religione, 24, 45; 25, 46); dimostra il fatto della Rivelazione divina; spiega le verità rivelate; le difende da ogni sorta di oppositori. Agostino, come la maggior parte degli scrittori dell'antichità cristiana, pencolava verso la filosofia platonica, liberata però da quelle teorie che erano in aperto contrasto con le verità del cristianesimo (cfr. De civ. Dei, 8, 10 segg.; 9, 16; 10, 1; 10, 30-31; 11, 4-5; 12, 15-20). Sul principio se ne mostrò oltremodo entusiasta, credendo finanche di trovare in essa talune verità del vangelo di S. Giovanni (cfr. Confess., 7, 9, 13-14; 9, 20, 26-21, 27; Contra Acad., 3, 18, 41; 3, 20, 43; De vera religione, 4, 7, ove asserisce che i filosofi platonici "paucis mutatis verbis atque sententiis christiani fierent"; In Joh. tract., 2, 4; Retract., 1, 3, 2); ma, sul declinare della vita, moderò progressivamente il suo entusiasmo sino a farsene un rimprovero (cfr. De civ. Dei, 2, 14, 2; Retract., I, 1, 4: "tantum extuli, quantum impios homines non oportuit") e ritrattò parecchie delle opinioni ch'egli aveva desunto dalla filosofia platonica (cfr. p. es. Retract., I, 1, 4; 4, 23; II, 4).
La dottrina di S. Agostino, che deriva ed è alimentata dalle fonti dell'autorità e della ragione da noi testé menzionate, si aggira intorno a Dio e all'uomo, quasi due fuochi di una ellissi, e riesce ad essere filosofica e teologica insieme. Vi si trovano, intrecciati e fusi, l'acume di Aristotele e lo slancio di Platone, l'ardimento di Origene e di Tertulliano e il senso tradizionale ed ecclesiastico d'Ireneo e di Cipriano.
La verità fondamentale della esistenza di Dio è talmente facile a conoscersi, secondo Agostino, che l'ateismo deve riputarsi una follia di pochi (cfr. Serm. 69, 3), dovuta alla corruzione del cuore piuttosto che all'intimo convincimento della ragione (cfr. Enarr. in ps. XIII, 2). Le prove ch'egli adduce per dimostrare l'esistenza di Dio sono: a) i caratteri della verità, eterna ed immutabile (cfr. De diversis quaest, LXXXIII, q. 54; De libero arbitrio, 2, 3, 7-12, 33; Confess., 7, 10, 16); b) la mutabilità e contingenza delle cose create (cfr. Confess., 10, 6, 8-10; 11, 4, 6); c) l'ordine, la finalità e la bellezza dell'universo (cfr. Serm. 141, 2); d) il consenso del genere umano (In Joh. tract., 106, 4: "exceptis paucis in quibus natura nimium depravata est, universum genus humanum Deum mundi huius fatetur auctorem").
Dio, a preferenza, è concepito da Agostino come "causa subsistendi, ratio intelligendi, ordo vivendi", cioè come principio, causa, fondamento e fine dell'ordine reale, logico e morale; donde la divisione della filosofia in fisica, logica, etica che S. Agostino, seguendo le orme dei platonici, fa sua (cfr. De civ. Dei, 8, 4; 8, 10, 2; Soliloquia, 1, 1, 2-4). Dio possiede la pienezza dell'essere (cfr. De moribus ecclesiae catholicae,1, 14, 24; Enarr. in ps. CXXXIV, 4) con tutte le perfezioni, sempre in atto, mai in potenza. E sebbene in lui, secondo il nostro corto e debole modo d'intendere, la spiritualità (spiritus) "videtur significare substantiam" e tutte le altre perfezioni sembrano "huius substantiae qualitates" (cfr. De Trinitate, 15, 5, 8); pure, in realtà, gli attributi divini sono una stessa e medesima cosa tra di loro e con la divina essenza (cfr. In Joh. tract., 48, 6; De Trinitate, 6, 7; Serm. 341, 6, 8).
Incalzato dal desiderio di penetrare nella vita intima di Dio e di conoscerne le manifestazioni ad extra, Agostino scruta il dogma trinitario e studia il fatto e l'opera della creazione.
Il dogma trinitario, di cui indaga le numerose e sorprendenti analogie nella natura in genere e nell'anima umana in ispecie (cfr. gli ultimi otto libri De Trinitate e Confess., 13, 11, 12), lo tenne desto per lunghissimi anni. Egli, partendo dall'unità di natura, a differenza degli scrittori ecclesiastici greci, che preferivano di partire dalla Trinità delle Persone, dimostra la consustanzialità e la distinzione reale delle tre Persone divine - Padre, Figlio e Spirito Santo - sia contro il subordinazionismo di Ario e di Macedonio, sia contro il modalismo di Prassea, di Noeto e di Sabellio (cfr. De Trinitate, 1-7; Contra sermonem arianorum; Collatio cum Maximino; Contra Maximinum).
Le Persone divine sono costituite dalle relazioni che non entrano però nella categoria degli accidenti; (De Trinitate, 5, 5, 6: "non secundum substantiam dicuntur, sed secundum relativum; quod tamen relativum non est accidens, quia non est mutabile"): il Figlio è generato dal Padre; lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio come da un solo principio (De Trinitate, 5, 14, 15 "fatendum est Patrem et Filium principium esse Spiritus sancti, non duo principia"), quantunque "principaliter" dal Padre (cfr. De Trinitate, 15, 17, 29). Assai difficile riesce il determinare in che cosa, precisamente, la generazione del Figlio si distingue dalla processione dello Spirito Santo (cfr. De Trinitate, 15, 27, 48).
Le operazioni ad extra sono comuni a tutte e tre le Persone divine. Tali sono, secondo Agostino, le teofanie del Vecchio Testamento (De Trinitate, 2, 17, 32; 3, 11, 22-27); tale il fatto della creazione dell'universo (De Genesi ad litteram, 9, 15, 26: "cuiuslibet naturae... creator est Deus, id est ipsa Trinitas, Pater et Filius et Spiritus Sanctus").
La creazione, essendo produzione dal nulla, richiede un atto proprio ed esclusivo di Dio (cfr. De Genesi ad litteram, 9, 15, 26; Quaestiones in Heptateuchum, 2, 21). Essa è avvenuta nel tempo, o, meglio, cum tempore; ma Dio, prima di creare, portava in sé ab aeterno le idee archetipe delle cose (cfr. De Genesi ad litteram, 5, 15, 33), che sono quasi i modelli di tutte le realtà contingenti (De diversis quaestionibus LXXXIII, q. 46, 2: "singula.... propriis sunt creata rationibus"; cfr. De civitate Dei, 11, 10, 3). Agostino, interpretando il passo dell'aclesiastico, XVIII, 1, nel senso di contemporaneità, ritiene che Dio trasse dal nulla l'universo "simultaneamente"; ma non tutte le cose allo stesso modo: talune le creò in atto e talune in potenza o seminaliter, mettendo cioè dei principî latenti nella natura - le rationes seminales - che, sviluppandosi, avrebbero poi dato origine alle diverse specie di esseri (cfr. De Genesi ad litteram, 4, 33, 51, 56; 5, 4, 11; 5, 23, 45; 6, 5, 8; 6, 6, 10; 9, 17, 32; De Trinitate, 3, 9). E per restare in armonia con queste idee Agostino è stato costretto a dare del primo capitolo del Genesi una spiegazione piuttosto allegorica (cfr. De Genesi ad litteram, 4, 26, 43-30, 47; 5, 5, 15; De civitate Dei 11, 7: altre interpretazioni del racconto genesiaco in De Genesî contra manichaeos, 1, 22, 33-24, 42 e in De Genesi ad litteram liber imperfectus, 7, 28).
Il problema del male, che si affacciava alla sua mente nel contemplare l'opera della creazione, fu da A. affrontato specialmente nelle opere polemiche contro i manichei. Confutato il dualismo manicheo, che lo aveva sedotto per nove anni, egli propone la soluzione positiva del tormentoso problema, movendo dal principio che il male è un defectus boni, il quale deriva o dalla imperfezione delle creature (male fisico) o dall'abuso della libera volontà (male morale). Il male però entra nell'ordine stabilito da Dio, che "melius iudicavit de malis bona facere quam mala nulla esse permittere" (Enchiridion, 27; cfr. De civ. Dei, 11, 18; 11, 22; 12, 3; 22, 1, 2).
L'uomo, dopo Dio, è il secondo centro intorno al quale gravita il pensiero di S. Agostino. Nel De Trinitate (15, 7, 11) l'uomo è definito: "Substantia rationalis constans ex anima et corpore". Il corpo, meraviglioso nella sua struttura (cfr. De civ. Dai, 22, 24, 4; De Genesi ad litteram, 7, 12, 20; Enarr. in ps. CXXX, 6), non proviene dal principio del male, né in tutto (cfr. Contra Faustum manichaeum, 20, 15; 20, 22) né in parte (cfr. De haeresibitus' 85); entra nel composto umano come parte essenziale (De anima et eius origine, 4, 2, 3: "Quisquis a natura humana corpus alienare vult, desipit") e riceve dall'anima la vita, la sussistenza, l'essere (De immortalitate animae, 15, 24: "per animam... corpus subsistit, et eo ipso est, quo animatur.... Tradit speciem anima corpori, ut sit corpus in quantum est"). L'anima è una e semplice; esiste tutta in tutto il corpo e in ciascuna parte di esso (De immortalitate animae, 16, 25: "Anima... non modo universae moli corporis sui, sed etiam unicuique particulae illius tota simul adest"); si addimostra spirituale dai caratteri delle idee che concepisce e dalla conoscenza riflessiva che ha di sé stessa (cfr. De quantitate animae, 13, 22; 17, 52-19, 58; Contra epistolam Manichaei, 20, 22); si manifesta immortale e perché spirituale e perché sede della verità (cfr. Soliloquia, tutto il secondo libro; De immortalitate animae, per intero); possiede - oltre le facoltà di ordine inferiore - la memoria intellettiva, l'intelligenza e la volontà (cfr. De civ. Dei, 5, 11; De Trinitate, 14, 11). L'origine dell'anima ha tenuto indeciso Agostino sino agli ultimi giorni della vita, facendolo ondeggiare fra il traducianismo e il creazionismo (cfr. De libero arbitrio, 3, 20, 55-21, 59; De Genesi ad litteram, X; Ep., 166; De anima et eius origine).
Lo stato primitivo dell'uomo, la colpa originale con le sue conseguenze, il riscatto e i mezzi destinati a compierlo furono argomento di aspre contese; e perciò oggetto di studio tenace da parte del vescovo d'Ippona.
L'uomo, creato da Dio, fu elevato all'ordine soprannaturale ed arricchito di doni e di privilegi straordinarî non dovuti all'umana natura. Essi furono: l'esenzione della morte - il posse non mori a differenza del non posse mori che è proprio degli esseri spirituali - (cfr. De Genesi ad litteram, 6, 25, 36); l'affrancamento dalle infermità e dalle sofferenze corporali (cfr. De Genesi contra manichaeos, 2, 7, 8; De Genesi ad litteram, 8, 5, 11; De civ. Dei, 14, 10; 14, 26); la scienza infusa, immune da errore (cfr. De libero arbitrio, 3, 18, 52; Contra mlianum opus imperfectum, 5, 1); l'immunita dalla concupiscenza con impero assoluto della ragione sui sensi (cfr. De Genesi ad litteram, 9, 3, 6; 9, 4, 8; 9, 10, 18; 11, 1, 3; De civ. Dei, 14, 9-11; 14, 18; De nuptiis et concupiscentia, 1, 5, 6-7, 8); l'immagine e la somiglianza soprannaturale di Dio impressa nell'anima (cfr. Confess., 13, 22, 32; De Genesi ad litteram, 3, 19, 29-20; 32; 6, 26, 37-28, 39; De Trinitate, 14, 16, 22-17, 23; Contra Julianum opus imperfectum, 6, 39); la libertà perfetta, cioè il potere di scegliere tra il bene e il male, ma con inclinazione alla scelta del bene - il posse non peccare, a differenza del non posse peccare che è proprio degli eletti - (cfr. De civ. Dei, 14, 11,1; De correptione et gratia, 11, 29-12, 34; Contra Julianum opus imperfectum, 5, 61; 6, 5; 6, 16). Non ostante la possibilità di perseverare in quello stato di grazia con l'adiutorium sine quo da Dio concesso, Adamo, di fatto, peccò e la sua colpa quasi funesta eredità, si trasmette a tutti i suoi discendenti. L'esistenza di questa colpa originale in tutti i figli di Eva viene dimostrata da S. Agostino con diversi testi della Scrittura - specialmente con Romani V, 12 (cfr. per es. Serm. 294, 15) - con testimonianze di scrittori ecclesiastici latini e greci (cfr. Contra Julianum, 1, 3, 5-4, 11; 1, 5, 15-19; 1, 6, 22-28), con il fatto del battesimo amministrato ai bambini (cfr. p. es. Contra Julianum, 6, 5, 13) e con il cumulo di miserie che nello stato presente è inseparabile dalla vita dell'uomo (cfr. p. es. De civitate Dei, 22, 22,1-3).
Precisamente in conseguenza del peccato di origine - quo nihil ad praedicandum notius, nihil ad intelligendum secretius (De moribus Ecclesiae catholicae, 1, 22, 40) - Adamo, e con esso tutta la sua prole, perdette l'immagine e la somiglianza soprannaturale di Dio (cfr. De Genesi ad litteram, 6, 24, 35), fu spogliato della libertà perfetta, pur restandogli il libero arbitrio (Contra duas epistolas pelagianorum, 1, 2, 5: "Quis.... nostrum dicati quod primi hominis peccato perierit liberum arbitrium de humano genere? Libertas quidem periit per peccatum, sed illa quae in paradiso fuit..."); si trovò sottoposto all'impero della morte (cfr. Ep., 166, 7, 21), alla tirannia della concupiscenza (cfr. De nuptiis et concupiscentia, I, 22, 24; Contra duas epistolas pelagianorum, 1, 15, 31; 1, 17, 35), alle tenebre dell'ignoranza e dell'errore (cfr. De libero arbitrio, 3, 18, 52). E tutto il genere umano, precipitato in miseria peccatorum divenne una massa peccati, iniquitatis, irae, perditionis.... (cfr. Enchiridion, 26-27) a cui nulla altro era dovuto se non l'aeterna damnatio (cfr. De diversis quaestionibus LXXXIII, q., 68, 3; Serm., 26, 12, 13). A riparare i danni della colpa originale venne Cristo (Serm., 174, 2, 2: "Si homo non periisset, Filius hominis non venisset"). Egli è il Verbo di Dio che si è degnato di assumere l'umana natura (Enchiridion, 36: "Christus una persona, Verbum et homo"); fu preannunziato non solo dai profeti del popolo ebraico (cfr. Ep., 137, 4, 13), ma anche dagli oracoli dei Gentili (cfr. Ep., 258, 5; De civ. Dei, 18, 47; 19, 23); fu concepito da una vergine (cfr. Ep., 137, 2, 8; Serm., 186, I, 1; Contra Julianum opus imperfectum, 4, 122); nacque "octavo kalendas ianuarias" (cfr. De diversis quaestionibus LXXIII q. 56, De Trinitate, 5, 9). S'ignora sotto quale consolato (Cfr. De doctrina christiana, 2, 28, 42); fu crocifisso "duobus geminis consulibus octavo kalendas aprilis" (De civitate Dei, 18, 54) e la sua morte - la quale ebbe il valore di vero sacrificio espiatorio, offerto per l'umanità peccatrice da Cristo al Padre (cfr. De Trinitate, 4, 13, 17) - riscattò il genere umano dalla schiavitù di Satana e del peccato (cfr. De Trinitate, 13, 12, 16-15, 19). Il riscatto, che fu compiuto a prezzo di sangue, si estese a tutti i peccati e a tutti i figli della prima colpa (Enarr. in ps. CXXIX, 3: "Sanguis innocens fusus delevit omnia peccata.... redemit omnes captivos"), non esclusi i bambini che muoiono senza battesimo (cfr. Contra Julianum opus imperfectum, 2, 175).
Ma la partecipazione effettiva dell'uomo al beneficio e ai frutti di tale riscatto o redenzione si compie attraverso la Chiesa e per mezzo della grazia.
Agostino manifestò ed espose il suo pensiero intorno alla Chiesa nella polemica contro i donatisti. La natura stessa della polemica lo indusse a insistere sulla santità della Chiesa nonostante la condizione di corpus mixtum, sulla cattolicità in opposiziorie al gretto provincialismo donatista, sull'unità di fede e di regime, prefigurata nella veste inconsutile di Cristo, e sulla apostolicità garantita dall'unione delle chiese particolari con la chiesa di Roma "in qua semper apostolicae cathedrae viguit principatus" (Ep. 43, 7, 7; cfr. Ep. 53, 2 ove leggesi l'ordo episcoporum della chiesa romana, da S. Pietro ad Anastasio). Speciale importanza annesse allo studio della validità ed efficacia obiettiva dei sacramenti - specialmente del battesimo e dell'ordine - mettendo in rilievo che tanto l'una come l'altra non dipendono dalle qualità morali di chi li amministra e di chi li riceve, ma unicamente da Cristo che ne fu l'istitutore e ne è il principale ministro (cfr. p. es. Contra Cresconium, 4, 16, 19; In Joh. tract., 5, 7; 6, 7). Nel fervore della polemica antidonatista, alla luce meridiana dei fatti, modificò alquanto le sue teorie sulle relazioni tra la chiesa e lo stato e, precisamente, sull'intervento dello stato nelle questioni religiose (cfr. Retract., 2, 5; Contra ep. Parmeniani,1, 9, 15; Contra Crepsconium, 3, 50, 55)
Non trascurò - quando l'occasione se ne offrì - di dare risalto all'infallibilità del magistero ecclesiastico e di asserire la necessità per l'uomo, di appartenere alla Chiesa per conseguire la salvezza, ripetendo con Cipriano: Salus extra Ecclesiam non est (De batismo, 4, 17, 24).
La dottrina riguardante la grazia, che ha procurato ad Agostino, nella storia, il titolo di "Dottore della grazia", trovò pieno e completo sviluppo nella diuturna ed epica lotta contro il pelagianismo e i suoi epigoni. Sin dalle prime battute della controversia, cioè sin dal 411, Agostino ebbe cura di mettere in evidenza che la grazia santificante produce nell'interno dell'uomo una vera palingenesi spirituale: essa non solo rimette il peccato di origine - il reatus concupiscentiae - e tutti gli altri peccati eventualmente esistenti nell'anima, ma restituisce l'immagine e la somiglianza soprannaturale di Dio e crea nell'uomo la capacità di agire meritoriamente nell'ordine soprannaturale (cfr. p. es. De peccatorum meritis et remissione, 1, 10, 11; 1, 11, 14; 2, 8, 10; De gratia et libero arbitrio, 27; Contra Julianum opus imperfectum, 2, 227; 6, 15; De Trinitate, 14, 16, 22-17, 23). La controversia pelagiana però - da questo lato - si svolse in modo speciale sulla grazia attuale e, più precisamente, sulla grazia interna che muove e aiuta la volontà nel volere e nel compiere il bene. Agostino ne dimostrò la necessità (cfr. p. es. Ep. 217, 4, 12) a cominciare dall'inizio della fede e dal desiderio della conversione (cfr. De praedestinatione sanctorum, 2, 4-5; 5, 10; Contra Julianum, 4, 3, 15. Si noti, però, che Agostino prima del 397 riteneva che l'initium fidei non dipendesse dalla grazia, ma dal libero arbitrio: cfr. Retract., 2, 1, 1; De praedestinatione sanctorum, 3, 7-4, 8) sino al grande dono della perseveranza finale (cfr. p. es., De dono perseverantiae, I, 1); ne difese, specialmente contro il movimento semipelagiano della Gallia meridionale, il carattere di assoluta gratuità - in modo particolare per la prima grazia e per la perseveranza - ed anche in ciò che l'uomo, sorretto dalla grazia, può meritare, vide e mise in rilievo piuttosto il dono di Dio che il merito dell'uomo (Ep. 194, 5, 19: "cum Deus coronat merita nostra, nihil aliud coronat quam munera sua"; cfr. De gratia et libero arbitrio, 6, 15); si studiò, infine, di determinarne la natura e l'efficacia paragonando lo stato dell'uomo innocente, a cui bastava un semplice auxilium sine quo, con lo stato dell'uomo decaduto a cui è necessaria una grazia più potente: un auxilium quo (cfr. De correptione et gratia, 11, 29-12, 38). S'inganna chi crede ed asserisce che Agostino negò l'esistenza del libero arbitrio o lo ridusse ad una facoltà inerte e passiva sotto l'azione della grazia divina (cfr. p. es. De gratia et libero arbitrio, I, 1-3, 5; 17, 33-34).
Gli sviluppi, che prese la polemica intorno alla grazia negli ultimi anni della vita di Agostino, lo costrinsero ad esaminare l'arduo problema della predestinazione; il che egli fece, con la teoria della massa damnata. Il genere umano, a causa del peccato originale, è divenuto una massa destinata alla perdizione. Dio, che previde ciò ab aeterno avrebbe potuto - senza incorrere nella taccia d'ingiustizia - abbandonare l'umanità al suo destino e non liberare alcuno dal meritato castigo: etiamsi nullus inde liberaretur, nemo posset Dei vituperare iustitiam (Enchiridion, 99). Egli, invece, per pura e sovrana misericordia, si degnò di liberare alcuni dalla "massa dannata" - pochi, ma tanti almeno quanti furono gli angeli ribelli (cfr. Serm., 111, 1; Enchiridion, 29; De civ. Dei, 1, 2) - e preparò ad essi i mezzi necessarî ed efficaci per condurli, infallibilmente, alla predestinata salvezza. ("Haec est praedestinatio, nihil aliud; praescientia scilicet et praeparatio beneficiorum Dei, quibus certissime liberantur, quicumque liberantur": De dono perseverantiae, 14, 35). Gli altri, ai quali non estese l'atto positivo della misericordia divina, restarono nella "massa" e, per conseguenza, destinati alla perdizione (De correptione et gratia, 12: "Non sunt ab illa conspersione discreti quam constat esse damnatam"). Alla luce di questo fondamentale pensiero e in armonia con esso, debbono essere interpretate alcune espressioni alquanto dure - p. es., praedestinare ad aeternam mortem, praedestinati ad sempiternum interitum - che leggonsi in De anima et eius origine, 4, 11, 16; De civitate Dei, 22, 24, 5; De perfectione iustitiae hominis, 13, 31; In Joh. tract., 48, 4; 6; 107, 7; III, 5. La ragione e il motivo, che mosse Dio a separare alcuni dalla "massa dannata" e a non separarne gli altri, è un vero e proprio mistero. All'uomo basti sapere che Dio non è ingiusto e che iniquitas non est apud Deum (cfr. p. es. Ep., 149, 2, 22; Contra duas epistolas Pelagianorum, 4, 6, 16; Contra Julianum opus imperfectum, 1, 48). La predestinazione si attua e si svolge nel corso del tempo attraverso le due città, di Dio e del mondo, "una quae praedestinata est in aeternum regnare cum Deo; altera, aeternum supplicium subire cum diabolo" (De civitate Dei, 15, 1, 1) - e riceve, alla consumazione dei secoli, il suo epilogo nei debiti fines (cfr. De civitate Dei, libro 22 e 23). Questa, in sostanza e per sommi capi, la teologia di S. Agostino.
Lo sviluppo del pensiero. - Una valutazione compiuta del pensiero di S. Agostino deve tener presente che, nei suoi scritti, egli non lo espose con la calma di chi ha dinanzi a sé un vasto disegno scientifico, che vien colorendo via via, parte per parte, ma col concitato ardore del polemista che ogni volta ricapitola il suo pensiero nella maniera più agile e più efficace per combattere eretici, o per illuminare i fedeli.
La straordinaria accentuazione, che S. Agostino fa nelle ultime sue opere, della necessità della grazia, fu spesso presentata come una esplicita o implicita negazione del libero arbitrio, dianzi ritenuto necessario perché le opere, essendo volute, risultassero imputabili, e quindi rimunerabili con giustizia. Ma S. Agostino ha sempre ritenuto che lo stesso buon uso del libero arbitrio, e il modo d'usarne, provenga dalla grazia, e che, d'altra parte, questo porre la grazia all'inizio stesso dell'opera di salvazione esiga che gli uomini attivamente si valgano della grazia, non che le si abbandonino passivamente. Se l'interesse dell'ardente polemica contro i pelagiani poté indurre S. Agostino a sottolineare massimamente quel principio che più correva pericolo d'essere disconosciuto, questa accentuazione non si operò mai col sacrifizio totale o con l'abbandono del principio apparentemente opposto difeso in altre opere. Del resto, il pensiero di S. Agostino è complesso, ma non contraddittorio: le azioni devono essere libere perché Dio, nel rimeritarle, possa essere giusto; ma che di fatto si elegga il bene anziché il male, proviene dalla grazia divina: dunque se, a fondamento delle pene e dei premî, sta la libertà delle azioni, a fondamento del buon uso di questa libertà sta la predestinazione divina. Né questa predestinazione è, come subito fu detto, fatum sub nomine gratiae: perché il fato è cieco, mentre Dio è provvidenza: sicché la predestinazione non è arbitrio, è provvidenza: la quale non può essere che santa, per quanto le ragioni dei suoi decreti ci rimangano precluse ed occulte: onde a fondamento della predestinazione degli eletti bisogna porre una grazia che, non perché supera le possibilità dell'intendimento umano, può essere ritenuta irrazionale: essa, al contrario, è, come espressione del volere divino, la razionalità stessa: sicché un atto di suprema, per quanto imperscrutabile, razionalità presiede all'elezione di coloro che, ricevendo la grazia iniziale d'un sano libero arbitrio e, poi, il dono della perseveranza, per libero volere conducono la vita santa che è da Dio rimeritata con la vita eterna. Certo, tutto questo ragionamento poggia su una sincera e intensa fede in Dio, sentito e proclamato buono e giusto, anche quando, al nostro punto di vista interessato e ristretto, sembri ingiusto e crudele; e, altrettanto certamente, il ragionamento di S. Agostino non potrebbe apparire tollerabile a chi non avesse quella fede in Dio: ma non è lecito dimenticare, nell'interpretare S. Agostino, che egli costruiva la coerenza del suo sistema su quella fede, posta la quale, nessuna contraddizione può scorgersi in lui, e quindi nessun segreto pentimento d'aver ammesso il libero arbitrio, come se questo, nel pensiero di un credente, rendesse superflua quella grazia, da cui invece, per un credente, deriva il buon uso di esso.
Erra dunque, a nostro avviso, chi ha creduto di poter suddividere l'attività agostiniana in periodi, contrapponendo anzi gli ultimi ai primi. Ammessa invece la continuità e la coerenza del suo pensiero, il compito di chi voglia seguire il pensiero agostiniano nel suo sviluppo è piuttosto quello di mostrare come l'interesse della mente di S. Agostino, polemista, vescovo, uomo d'azione, e non mai puro teorico, si polarizzi via via verso la questione che più gravemente preoccupa le coscienze cattoliche del tempo: e a misura che l'interesse, religioso e filosofico a un tempo, si sposta dall'una all'altra questione, anche le opere assumono fisionomia diversa, trovando, a volte, forme d'espressione così intense di passione e così nuove, da divenir modello mille volte imitato, nei secoli medievali illuminati dalla dominatrice figura del santo africano.
I primissimi scritti che possediamo di S. Agostino lo mostrano appena uscito da quel periodo di scetticismo in cui era caduto quando, ripudiato il manicheismo, non ancora la fede cristiana aveva conquistato il suo animo e la sua mente. Con gli accademici egli aveva sostenuto che il vero non è raggiungibile; che, anzi, sola sapienza è non assentire a nessuna affermazione, e sola beatitudine è librarsi in questa calma, in cui non si aderisce a nessuna asserzione. Violenta è ora la reazione di S. Agostino: egli nega che alcuno viva senza saper qualcosa e senza assentire a ciò che sa; e intende la sapienza come possesso di verità, e la beatitudine come trovamento, non come semplice ricerca, del vero indefettibile, che è Dio.
S. Agostino procederà ormai con la guida della Scrittura: ma gli si affollano problemi infiniti. Egli li chiarirà a sé stesso con uno sforzo di pensiero incessante; ma da prima si sente soverchiato dalla loro molteplicità e gravità, e dà talora in grida di cocente dolore per lo stato in cui si scorge. Questo dolore, però, si muta in altrettanto zelo di appassionata ricerca: e da questo stato d'animo nascono i due libri dei Soliloquia, in cui S. Agostino dialoga con la propria ragione trovando, a volte, accenti di ardentissima lirica (Solil., I, 16), e nei quali (II, 1) si annunzia quell'argomento ("se l'anima erra, è") che, ripreso nel De libero arbitrio (II, 3, 7), assumerà nel De vera religione (39, 73) e massimamente nel De Trinitate (X, 10, 14) la forma, destinata a divenir così efficace e così nota attraverso Campanella e Descartes: "Utrum aëris sit vivendi, an ignis, dubitaverunt homines; vivere se tamen et meminisse et intelligere et velle et cogitare et scire et iudicare quis dubitet? quandoquidem etiam si dubitat, vivit, si dubitat, unde dubitet meminit, si dubitat, dubitare se intelligit, si dubitat, certus esse vult, si dubitat, cogitat, si dubitat, scit se nescire, si dubitat, iudicat non se temere consentire oportere" (De Trin. 10, 10, 14).
Dei molti problemi che nel De ordine assediavano S. Agostino, quello che primo occupa la sua attenzione è l'origine del male. S. Agostino aveva abbandonato il manicheismo quando aveva compreso la falsità della teoria che ammetteva un principio del male coeterno al principio del bene: e da tale dottrina s'era allontanato quando s'era convinto, seguendo in ciò Origene, che il male sia dovuto alla debolezza dell'umano volere, che prepone i beni inferiori ai superiori. Su questo cardine poggia tanto quella trattazione teorica, anch'essa celebre, che s'intitola De libero arbitro, quanto le molte confutazioni di dottrine e di scritti manichei che S. Agostino continuò a pubblicare anche durante la polemica contro i donatisti, nonché le esposizioni e interpretazioni specialmente dell'Antico Testamento, dirette a difendere la purezza e santità di questo contro i rilievi dei manichei. Celebre il De libero arbitrio, sia per la chiarezza e precisione con cui vi è posto il problema dell'origine del male ed è prevista e combattuta ogni rilevante obiezione contro la dottrina dell'origine del male dalla volontà umana; sia perché la tesi sostenuta nel De libero arbitrio fu poi invocata da Pelagio contro S. Agostino stesso, sicché questi, nei suoi scritti antipelagiani, dovette molto adoprarsi per dimostrare l'accordo tra la dottrina del libero arbitrio e quella della grazia; sia perché, infine, contro il De libero arbitrio puntarono quei riformatori che, come Lutero, scrissero De servo arbitrio, provocando da parte dell'ortodossia cattolica una reazione tutta favorevole al libero arbitrio, pur nei disegni della grazia divina.
Si delinea, intanto, e si precisa nella mente di S. Agostino la descrizione della via che l'anima deve percorrere per raggiungere, nel più profondo di sé medesima, Dio. Superata la sfera della vita vegetativa, della vita sensitiva, della vita pratica, l'anima perviene alla bontà, ma, raggiunta la purezza, deve poi conservarla, indi staccarsi da ogni concupiscenza di cose mortali, infine affissarsi in Dio (De quantitate animae, 70-77). Questi sette gradi, attraverso i quali l'uomo perviene a Dio, altrove son presentati diversamente: nel De vera religione, per esempio, essi sembrano riferiti alle varie età dell'uomo sino al passaggio alla eterna vita, con l'oblio totale della vita passeggera (sesta età); alla quale segue la quiete e beatitudine eterna, senza più distinzione di età (De v. rel., 23). E questo itinerario della mente a Dio è poi ripreso e descritto ancora nel De Genesi contra manichaeos (1, 43: allegoria dei sette giorni della creazione) e nel decimo libro delle Confessioni, e nel tredicesimo del De Trinitate, per tacer d'altri accenni minori: ed è motivo che più tardi risonerà non solo nella celebre opera di S. Bonaventura, ma in tutta la mistica medievale, di ispirazione, direttamente o indirettamente, agostiniana.
La prima professione di fede che S. Agostino scrive, compiuta come un sistema, è il De vera religione. Ivi si legge quel celebre appello: Noli foras ire; in te redi, in interiore homine habitat veritas (De v. rel., 72), che non sarà più dimenticato né dalla mistica medievale e moderna, né da quante filosofie, nell'età moderna e contemporanea, riterranno di dover richiamare l'uomo dalla dispersione del mondo esterno al raccoglimento dell'analisi interiore.
In S. Agostino, per altro, l'in te redi non ha solo il significato generico di un appello al raccoglimento interiore: ha anche un valore tutto particolare, in quanto S. Agostino vuole, con Plotino, che l'anima torni in sé per accorgersi della propria mutevolezza e ricercare, di là dai ragionamenti che costituiscono la sua vita, la verità, oggetto del desiderio di chi ragiona, e per cui è vero ogni vero ragionamento: la quale incommutabile verità, onde s'accende il lume della mente umana, è Dio stesso.
Una nuova esposizione completa della sua dottrina S. Agostino scriverà oltre trent'anni più tardi quando, ormai agguerritissimo contro tutte le obbiezioni dei pelagiani, egli potrà, in linee semplici e sicure, schizzare l'intera materia nel breve Enchiridion ad Laurentium, sive de fide, spe et caritate. Ma anche prima, quante volte gli verrà fatto, dedicherà excursus talora anche vasti, a richiamare, di scorcio, il complesso delle sue dottrine: così nelle opere destinate a entrare nella letteratura universale, e suscitare fervidi impeti di ammirazione, i tredici libri di Confessioni e i ventidue De civitate Dei.
Dei mali che ha patiti e dei beni che ha goduti, dei vizî che ha sperimentati e delle emendazioni a cui è pervenuto, S. Agostino loda (è questo il senso del termine confiteri) Dio con una veemenza così sincera e commossa, da tramutare in lirica eloquenza anche la concettosità ornata e sottile dei suoi periodi ardenti, rotti, eppur alati, come non ne aveva mai scritti nessun autore greco né romano. La letteratura latina s'arricchì, con le Confessioni, d'un modello pieno di fascino, destinato a provocare non solo imitazioni, rifacimenti, traduzioni, ma anche tutta una letteratura, volta all'analisi interiore non superficiale né generica, ma coraggiosa e risoluta ad affondare il bisturi nel profondo delle carni pur di giungere alla radice del male, mostrarlo, confessarlo, e così solo sperar di guarirlo. Questo bisogno cocente di sincerità spietata, di veder chiaro e di denunziare ad alta voce le proprie colpe, costituirà una scuola di austerità morale, un imperativo di ferma e rigida vigilanza sui propri atti e detti e pensieri e desiderî.
Le Confessioni, per altro, non sono celebri solo per l'analisi psicologica acutissima che S. Agostino vi fa d'ogni moto della sua anima e della sua mente dalla prima infanzia alla grande crisi della conversione, ma anche per quelle indagini di carattere più propriamente filosofico che S. Agostino vi istituisce quando, descritta la sua avvenuta dedizione alla verità della fede cristiana, egli cerca Dio nella propria mente - ond'è condotto a indagare che sia la memoria - e, iniziando l'esposizione delle verità di fede quali si ricavano dalla Scrittura, si trova a dover illuminare il significato della creazione nel tempo - ond'è portato a studiare il concetto di tempo. Il libro X delle Confessioni - uno degli scritti agostiniani dove la ricerca filosofica s'accende di più vivo pathos religioso - muove da una commossa ammirazione per la memoria, così immensa e potente che tutto l'universo vi si contiene; e distingue, sulle orme di Plotino, memoria di cose corporee, memoria delle scienze, memoria degli affetti umani. Ma ivi non è Dio; eppure Dio è nella memoria. Egli è quella verità che si cerca quante volte si cerca un vero, quella beatitudine che si cerca quante volte si Cerca un godimento. Luce intima, noi volgiamo gli occhi lungi da lei, ed erriamo; non dobbiamo che ritrarci dalla dispersione, per ritrovare in noi quell'unità suprema che a tutto presiede. Parimenti il libro XI muove dalla meraviglia per questo tempo che non è più o non è ancora, o è, ma con così breve dimora che non ha spazio alcuno. Ora il tempo non è misurabile, come potrebbe sembrare, dal moto degli astri; bensì il moto e degli astri e d'ogni cosa è misurato dal tempo. Ma esso tempo come si misura? Non si misura il passato, perché non è più; non il futuro, perché non è ancora; non il presente, perché non si estende, non dura, sicché possa misurarsi mentre dura. Ed anzi, bisogna che uno spazio di tempo sia finito perché possa valutarsene la lunghezza: il tempo, dunque, si misura nella memoria. E se esso è una distensio animi, è l'attenzione dell'animo quella che misura, nella memoria, il tempo passato, o, nell'aspettazione, il tempo futuro.
Accanto a queste opere grandiose, monumenti non più obliati nella storia delle lettere e del pensiero, s'incontrano, fra gli scritti agostiniani, brevi trattati in cui il santo ci appare nella sua funzione, diremmo, di direttore di coscienze, di guida morale di quanti si rivolgono a lui.
Ma, in mezzo a questi scritti che vanno incontro ai particolari bisogni spirituali dei suoi fedeli e dei suoi corrispondenti, s'erge il gran monumento della maggiore opera teologica agostiniana, i quindici libri De Trinitate, il più alto e più originale sforzo teologico della patristica occidentale.
In quell'opera piena di liriche effusioni che sono le Confessioni, l'intero libro X era stato costruito sul motivo conduttore: Da quod iubes, et iube quod vis. Cioè, di obbedire ai voleri divini S. Agostino chiedeva a Dio la forza e il potere, ben consapevole di non avere in sé saldezza che valesse a tanto. Pelagio ritenne che questa concezione umiliasse l'umana natura, da lui considerata ancora integra e valida a salvarsi da sé con le proprie forze morali. E gli sembrò che contro questa concezione agostiniana, che solo a Dio attribuiva una valida iniziativa della salvezza umana, stesse l'affermazione del medesimo Agostino, che per libero volere si pecca. Parve a Pelagio che, se fosse Dio a lasciarci deboli nel volere, non potrebbe dirsi nostra la colpa del peccato. A questi argomenti di Pelagio, S. Agostino rispose ribadendo che Dio, e Dio solo, predispone e prepara la salvazione di coloro che elegge, ponendo loro in cuore la fede e la speranza e assistendoli col dono della perseveranza. Il quale aiuto, che solo è valido e sufficiente, di Dio, non toglie che gli eletti liberamente vogliano il bene supremo; come il mancante aiuto divino non toglie che i reprobi liberamente si volgano al male. Verso chi lascia dannare, Dio è giusto; verso chi predestina alla salvezza, Dio è misericordioso. Né gli si può, senza empietà, chieder conto dei suoi decreti. E molto meno si può pensare che la grazia divina sia come attirata dagli sforzi umani; ché, in tal caso, la grazia sarebbe dovuta ai meriti umani, e l'iniziativa della salvezza passerebbe da Dio all'uomo.
I rudi colpi diretti contro Pelagio; la violenza stessa delle dure affermazioni che tutta l'umanità è, dopo il peccato originale, massa damnationis, a cui null'altro giustamente spetta se non la morte eterna; la cupa rappresentazione di questa dovuta, necessaria dannazione, se non intervenga la misericordia divina; questi colori crudi, questa luce di tragedia han fatto apparire S. Agostino, proprio negli ultimi anni della sua vita, spietato e disumano. Sicché e il tomismo e, contro il rinnovato ed esagerato ed esasperato agostinismo dei teologi della riforma protestante, la nuova scolastica della controriforma, si assunsero il compito di chiarire che, per quanto la grazia divina in nessun caso sia dovuta, pure essa non lascia inascoltate le sincere preghiere, né lascia inesauditi gl'intensi sforzi delle volontà umane. Il che, si badi, non è contro S. Agostino, il quale aveva affermato che questi medesimi sforzi, per sé inefficaci ma tuttavia non inascoltati, presuppongono l'aiuto di Dio, e il decreto che si salvino coloro a cui per questo scopo, egli concede abbastanza energie morali per aspirare al bene. Ma questa accentuazione, fatta dal tomismo e dalla dottrina ufficiale della Chiesa, piuttosto della misericordia che della giustizia divina, pur non essendo contro S. Agostino, diede un tono diverso, più mite, alla dottrina della salvezza, alimentando pie speranze nelle coscienze cattoliche; mentre il vento di sterminio della dottrina della grazia, esasperata fino a negare, contro lo stesso S. Agostino, qualsiasi valore alle opere e agli sforzi umani, ritenuti determinati e non liberi, agitò le coscienze protestanti, luterane e, specialmente, calviniste, determinando vaste correnti di rigorismo, sinceramente professato, eppure, a lungo andare, risecchito in un formalismo esteriore.
Le ultime opere di S. Agostino son quelle in cui egli non dubita di affermare la predestinazione dei santi, e intanto s'adopera a chiarire il rapporto tra fede e opere, tra natura e grazia, tra grazia e libero arbitrio. Del resto, non va dimenticato che, se S. Agostino non avesse vinto, dando così rude violenza al suo pensiero e alle sue parole, la battaglia contro Pelagio, la morale si sarebbe riatteggiata a morale naturale, qual era stata presso i pagani; si deve a S. Agostino se fu nettamente stabilito che non c'è vita morale, né, quindi, salvezza, senza grazia. Il qual principio rimase e rimane fermo nella dottrina cattolica. E se l'umanesimo, poi, riesumò il concetto di una morale svolgentesi dalle pure forze di natura, questa natura dovette tuttavia esser considerata essa stessa come spirituale e creativa e investita di assolutezza, perché potesse esser pensata come fondamento di vita etica.
S. Agostino che, impegnato simultaneamente in molti lavori, non poté quasi mai scrivere d'un fiato le sue opere più vaste, ed anzi spesso dové tenerle in composizione per interi decennî, solo quattro anni prima della sua morte poté compiere la sua grande opera di revisione e interpretazione, dal punto di vista cristiano della grazia divina, del mondo delle antiche civiltà orientali e grecoromana. I ventidue libri De civitate Dei affondano, sì, le radici, non nel medioevo non ancora venuto, ma nella tarda antichità come sostenne il Troeltsch; ma essi recano in sé un'immagine di vita terrena, sociale e statale, tutta diretta da Dio pei suoi fini, quale appunto avrà dinnanzi a sé come modello il miglior Medioevo, quello di Carlo Magno prima, quello di Gregorio VII poi. In realtà, però, la civitas terrena di cui parla S. Agostino non è, nel pensiero del santo, una realtà politica: è l'accolta ideale di tutti i nemici di Dio, nata dall'amor sui usque ad contemptum Dei: societas impiorum, com'egli dice (De civitate Dei, XIV, 28), destinata a patire, col diavolo, l'eterna perdizione. Di contro, la civitas Dei è il regno, parimenti ideale, degli eletti, nata a sua volta dall'amor Dei usque ad contemptum sui. Tutta la storia umana è il cozzo di queste due schiere, degli eletti e dei reprobi. Ma se, dopo l'innocenza originaria, il genere umano soggiacque al piacere di questo mondo e ne fu vinto, venne infine, con Cristo, l'età della grazia e il mondo fu vinto.
Il De civitate Dei è stato detto giustamente l'ultima e la più splendida e grandiosa apologia della fede cristiana contro le accuse dei pagani. Ma non è una pura e semplice difesa: è, invece, un processo, dov'è chiamata in giudizio la gloria dell'antica civiltà specialmente romana. Poiché i grandi romani seppero amare la patria e la gloria più di sé stessi, di questa virtù ricevettero dal vero Iddio, non dai falsi dei, il premio nella potenza terrena: ma fu vana mercede di una vana virtù, che piuttosto fu vizio.
Questo guardare dall'alto, dal punto di vista dei disegni divini, l'intera distesa dei tempi, le civiltà e i regni, fu l'ardimento che sant'Agostino insegnò a quanti più tardi tentarono - sommo su tutti Giambattista Vico - quella che impropriamente fu detta filosofia della storia.
La voce lanciata da S. Agostino - il più autorevole, il più geniale, il più grande dei padri della chiesa latina - non si spense più mai. Non solo essa dominò nei secoli fino al mille, vuoti di opere che potessero, anche da lungi, gareggiare con la agostiniana; ma, quando con la nuova cultura diffusasi nei primi secoli dopo il mille sorsero le potenti Somme aristoteleggianti, S. Agostino ispirò la reazione di coloro che, come i francescani, pur apprezzando Aristotele, sentirono di dover porre più in alto, nel quadro della vita cristiana, il fervore mistico dell'anima che, con impeto di fede, cerca Dio nel suo profondo. Così S. Agostino fu contrapposto a S. Tommaso dovunque parve che l'intellettualismo tomistico troppo deprimesse le energie puramente affettive dell'anima. Avvenne che, come Platone era risorto quando Aristotele era apparso, nonostante la sua grandezza, arido, tecnico e troppo terreno, cosi S. Agostino parimenti risorse quando la meravigliosa lucidità della mente tomistica parve lasciar inascoltati, non curati, i bisogni del cuore. Del resto, come tutto il pensiero occidentale s'è nutrito delle opposte tendenze di Platone e di Aristotele, complementari appunto perché opposte, ma sorgenti su lo stesso presupposto, che il vero è concetto, non fatto bruto, così il pensiero cristiano s'è alimentato, per rivi diversi ma confluenti, della fervida mistica agostiniana e dello strenuo intellettualismo tomistico, sorgenti entrambi sul fondamento, prettamente cristiano, della razionalità del Dio che è essere, in quanto è pensiero ed amore.
La critica moderna ha sollevato, intorno alla formazione ed allo sviluppo del pensiero agostiniano varie questioni, che vennero dibattute per decennî, né si possono ritenere definitivamente risolte. Già nel 1888, A. Harnack e G. Boissier, indipendentemente l'uno dall'altro, rilevavano alcuni contrasti tra il racconto della conversione di A. nelle Confessioni, e le opere giovanili di lui, contemporanee alla conversione stessa. Nei dialoghi di Cassiciaco la preghiera e le preoccupazioni veramente religiose non hanno il primo posto; Agostino non mostra di avere abbandonato del tutto le sue occupazioni letterarie (legge e commenta Virgilio); infine, la sua vita giovanile non sarebbe stata eosì corrotta come egli vuol far vedere: lo stesso concubinato non era, secondo le leggi ed i costumi del tempo, cosa moralmente o socialmente riprovevole: la stessa chiesa lo tollerava, purché strettamente monogamico (concilio di Toledo del 400, can. 17). Altri (Schmid, Loofs, Thimme) insistettero anche sul colorito filosofico di queste opere, di cui appare chiaramente l'ispirazione neoplatonica; si giunse a negare completamente il valore storico delle Confessioni, e a parlare di una "conversione al neoplatonismo" nel 386-87, alla quale, solo nel 391, con l'elevazione al presbiterato, avrebbe fatto seguito quella al cattolicismo (Gourdon, Alfaric). L'evidente esagerazione di questa tesi è stata messa in luce da studî più recenti (Harnack, Noerregaard, De Labriolle) che, in maniera diversa, hanno riconosciuto il valore delle Confessioni, pur senza negare l'influsso neoplatonico. Rimane probabilmente da studiare se ciò che appare neoplatonico, negli scritti di questo periodo, sia esclusivamente e del tutto tale, o non piuttosto affine alla teologia greca del tempo, di colorito indubbiamente origeniano, alla quale anche S. Ambrogio aderiva.
Un'altra difficile questione riguarda la dottrina del peccato originale; circa la cui sostanza, rispondendo a Giuliano di Eclano che l'accusava di aver mutato sentimento sul peccato originale, e di aver manifestato su tale argomento, all'indomani della conversione, un pensiero assolutamente opposto a quello che difendeva più tardi, nella lotta contro il movimento pelagiano, S. Agostino dichiara di non avere mutato mai opinione, ma di aver sempre tenuto ciò che insegna tutta la Chiesa (c. Julian., VI, 12, 39). Ma circa qualche importante punto particolare, come nella interpretazione discussa di un passo di S. Paolo (Romani, VII, 14) dichiara egli stesso d'aver mutato parere, e ciò per la lettura di alcuni tractatores divinorum eloquiorum (cfr. Retract., I, 23). Nei quali, sulla base di raffronti testuali, e dell'uso caratteristico del termine massa, si è ravvisato da qualcuno (Buonaiuti) il cosiddetto Ambrosiastro (v.), il cui commento a S. Paolo sarebbe stato letto da S. Agostino intorno al 396. Altri (Casamassa) ha per contro sostenuto che nel 396 e per più anni dopo, la interpretazione del testo paolino non pare ancora mutata nelle opere di S. Agostino (cfr. De div. quaest. ad Simplic., I, 1, 9 e Retract., II, I,1); che solo in quelle posteriori al 417 (p. es., Serm. 154, De nupt. et concup., I, 27, 30; 28, 31; 31, 36, ecc.) essa si troverebbe modificata nel senso dei menzionati tractatores tra i quali (Cipriano, Ilario di Poitiers, Gregorio di Nazianzo, Ambrogio e Girolamo; cfr. Contra . Julianum, II, 3, 5; 4, 8; VI, 23, 70; Opus imperf., I, 67, ecc.) non si potrebbe annoverare l'Ambrosiastro. V. anche Tixeront, Histoire des dogmes, 4ª ed., Parigi 1912, p. 466 segg. Portalić ammette soltanto che prima dell'episcopato, Agostino non aveva capito come la prima buona disposizione della volontà, per esempio la fede, deve venire da Dio: e attribuisce alla libertà sola questo initium salutis (cfr. Opere, n. 101). "Au fond tout le sémi-pélagianisme (non le pélagianisme, comme prétendait Jansénius) pouvait entrer par là. Cette erreur unique avait inspiré diverses formules qu'il a lui-meme corrigées plus tard". (Dict. di théol. cathol., I, II, col. 2378). Altri (Hahn, Pincherle) ha messo in luce l'influsso di Ticonio (v.) sulla formazione delle dottrine ecclesiologiche, strettamente connesse con quella della grazia, e sulla concezione delle "due città", già espressa in alcuni sermoni.
Ma coloro che parlano di "crisi" spirituale, non intendono un brusco, e pertanto inspiegabile, voltafaccia, bensì soltanto un più rapido maturare di esperienze e un chiarirsi di esigenze, già vive nell'animo di S. Agostino. Una lettura, secondo l'ordine cronologico, di tutti gli scritti agostiniani mostra ad evidenza come, progressivamente, egli abbia dato sempre maggiore importanza all'auctoritas, cioè alla rivelazione, contro la ratio; e, di pari passo, alle pratiche pie, ai sacramenti, all'opera redentrice del Cristo. Per questo aspetto, S. Agostino è davvero un teologo occidentale, che si differenzia nettamente dalla maggior parte dei suoi contemporanei greci per l'interpretazione realistica da lui data della salvezza, e la importanza preminente del problema morale, intorno a cui il suo pensiero non cessò di affaticarsi, fin dai primi anni della sua vita, quando gli parve che il manicheismo ne desse la soluzione più soddisfacente. Sotto questo punto di vista, resta vero che un'opera, pur poderosa, come il De Trinitate, rimane, nell'opera agostiniana, come qualche cosa di freddo e isolato, di cui vanno studiati i rappporti col rimanente. L'eterno problema che la filosofia considera come quello dei rapporti fra trascendenza e immanenza, si presenta al suo spirito, teologicamente, assai più sotto la specie del domma della Redenzione (dottrina della Grazia) che non sotto quelli della Creazione e dell'Incarnazione (dommi trinitario e cristologico). Se questi problemi gli apparvero più vivi e urgenti quando, con le funzioni episcopali, egli sentì accresciuta la propria responsabilità, non può dirsi che gli fossero del tutto ignoti anche prima; benché, su alcuni punti importanti, non abbia veduto interamente chiaro sin dal principio, o abbia dovuto modificare le sue opinioni, prima troppo strettamente ligie al platonismo od al neo-platonismo. Non è infine da dimenticare che troppe volte gli studiosi di S. Agostino hanno ceduto a preoccupazioni polemiche od apologetiche. Basti ricordare (ed è questo d'altronde il segno più evidente della sua enorme importanza nella storia del pensiero) che a lui, come a S. Paolo, si sono rifatti quanti hanno creduto di innovare, o di ricondurre alla primitiva purezza, il corpo delle dottrine cristiane; che nel suo nome si sono combattute le più importanti dispute teologiche. Ricorderemo soltanto le contrastanti interpretazioni che del suo pensiero hanno dato protestanti e cattolici, e le annose e vivaci controversie che, a proposito della grazia, agitarono lo stesso campo cattolico nei sec. XVII e XVIII.
Sono questi i principali problemi, non i soli. Così si discute da taluni intorno al valore storico delle Retractationes, come di altre delle dichiarazioni fatte da Agostino nel corso della polemica antipelagiana; intorno alla data precisa della consacrazione episcopale (Morin, in Revue bénéd., XL, 1928, p. 366 segg., propone ora il gennaio 395) e della composizione di alcune opere. Particolarmente interessante la discussione intorno alle Confessioni (De Labriolle, Wundt, Zepf citati nella bibliografia) e al De doctr. christ. a causa della nota frase intorno alle versioni latine della Bibbia: in ipsis autem interpretationibus "itala" ceteris praeferatur, nam est verborum tenacior cum perspicuitate sententiae (II, 14, 15): aprioristico il voler immaginare un errore di copista e leggere illa o altro. Tra coloro che identificano l'itala con la Vulgata di S. Gerolamo, il De Bruyn, avanzò l'ipotesi di una doppia edizione; ora, però, (Revue d'Hist. ecclés XXIII, 1927, p. 783 segg.) senza abbandonare la tesi principale, ammette una sola edizione del De doctr. christ., nel 426. Del resto, per ciò che riguarda il testo della Bibbia latina usato da Agostino specialmente nei primi scritti, il campo è ancora aperto a fruttuose investigazioni.
Lo scrittore. - Anche una valutazione adeguata dell'importanza dell'opera letteraria di S. Agostino esigerebbe lungo discorso e copia di minuti raffronti testuali. A un'indagine compiuta delle sue abitudini grammaticali, stilistiche, lessicali, mancano tuttora troppi elementi, che solo studî recentissimi vengono approntando. Della sua prima educazione retorica, le opere, anche tardive, serbano tracce evidenti. Studiò poco il greco; e non giunse mai ad averne più che una conoscenza affatto superficiale (anche sotto questo aspetto, egli è un rappresentante caratteristico di quell'Occidente dei secoli IV e V, che maturava sempre più il distacco dall'Oriente). La conoscenza della parlata punica, tuttora viva almeno in alcune località, lo pose in grado di fare occasionali riscontri con termini ebraici. Ma la letteratura latina, dalle opere dei più oscuri grammatici fino a quelle degli autori preferiti, Cicerone e Virgilio in primo luogo, Sallustio (lectissimus pensator verborum; cfr. De b. vita, 31), Terenzio, Apuleio, Varrone, gli fu tutta familiare: parecchie citazioni anonime mostrano l'estensione e la varietà delle sue letture. È tuttavia evidente, man mano che si procede verso le opere della maturità spirituale, il crescente disprezzo di Agostino per la pura e vacua grammatica, per i retori che condannavano, non i trascorsi morali o le manchevolezze nella sostanza, ma gli errori di pronuncia o di concordanza (ominem e inter hominibus; cfr. Conf., I, 28 seg.); a questo proposito, e ricordando l'educazione avuta in gioventù, egli ha occasione di esporre sull'insegnamento delle lingue ed il prevalere, nel fanciullo, della fantasia e del sentimento, vedute di valore pedagogico permanente (Conf., I, 20-23). Sempre più egli si orienta verso una maggiore semplicità e schiettezza di espressione, che arieggia il linguaggio parlato, di cui riproduce in sostanza gli atteggiamenti, pur senza saper rinunciare al giuoco delle antitesi e alle altre figure stilistiche.
Evidentissimo è questo atteggiamento nei Sermoni. Li conosceremo meglio quando potremo disporre dell'edizione critica di tutti quelli pubblicati posteriormente ai Maurini, edizione che il Morin (Revue bénéd., LX, 1928, p. 215) ha promesso di dare in occasione del prossimo centenario (1930): su più di 650 da lui esaminati fino allora, circa 150 sarebbero autentici. L'importanza dei sermoni, d'altronde, anche per un compiuto disegno dello sviluppo del pensiero agostiniano, non è forse stata finora sufficientemente apprezzata (difficile ne è in particolare la datazione: un tentativo, per quelli anti-donatisti, è in Monceaux, Histoire littér. de l'Afrique chrétienne, VI, Parigi 1925). E in essi anche appare manifesto quel caratteristico processo d'ideazione, in cui S. Agostino si mostra degno compagno dei grandi mistici di tutte le età, e che si potrebbe definire musicale, in quanto procede veramente più in base a richiami di idee, o talvolta, si direbbe, puramente sonori, anziché ad uno schema logico preconcepito e rigidamente applicato. La prosa di Agostino assume del resto assai spesso un andamento ritmico. Se, specie nelle prime opere, gli ritorna sotto la penna qualche cadenza tipicamente ciceroniana, più tardi, indubbiamente anche sotto l'influenza del parallelismus membrorum tipico della poesia biblica, egli tende sempre più a liberarsi dagli schemi quantitativi dell'epoca classica. Così, questo trattatista di metrica (nei primi cinque libri del De musica), autore del Carmen theatricum premiato a Cartagine, scrive quel Psalmus contra partem Donati che, opera assolutamente secondaria sotto altri aspetti, ha invece nella storia della lingua e della letteratura un'importanza di prim'ordine perché nei suoi versi, conchiusi monotonamente dalla costante assonanza in e, la quantità e tutte le regole della prosodia e della metrica classica sono completamente messe da parte.
Dobbiamo poi in gran parte a S. Agostino se la letteratura classica, di cui egli tramandò l'amore, al Medioevo è giunta sino a noi. Per le sue tendenze all'ascetismo, per la condanna pronunciata su tutta la sua vita anteriore alla conversione, per le sue concezioni teologiche, e per la valutazione (che ne dipende) da lui data dell'antichità romana nel De civitate Dei, Agostino era, da una parte, ineluttabilmente portato a condannare, in blocco e senza remissione, tutta l'antichità profana. Nelle Confessioni, i nomi di Cicerone e Virgilio, nelle citazioni, sono accompagnati da un nescio quis pieno di dispettoso disprezzo. Ma troppo forte era il sentimento della romanità, nel grande vescovo che, di fronte all'invasione barbarica di Alarico, sapeva dire ai profughi la parola di conforto destinata a risuonare alto e a lungo nel corso della storia: Roma non perit, si romani non pereunt (Serm. LXXXIII). Egli stesso dava l'esempio; e le grandi opere della classicità sono continuamente citate da lui. Per giustificare tale atteggiamento, egli ricorse ad un'immagine, che non rappresenta però soltanto la scappatoia di un alto, pronto e fertile ingegno. Le lettere profane sono, egli dice nel terzo libro del De doctrina christiana, come quelle suppellettili degli Egiziani, che gli Ebrei nell'esodo portarono con sé attraverso il deserto. Così, sotto questa allegoria, S. Agostino, il più alto rappresentante del cristianesimo romano ed occidentale, sintetizzava felicemente, alla vigilia del tramonto dell'Impero e all'inizio del Medioevo, l'innesto delle due tradizioni, giudeo-cristiana e greco-romana; esprimeva così un'altra profonda verità storica, e additava l'essenza stessa della nostra civiltà mediterranea, classica e cristiana ad un tempo.
Fonti: Per la biografia di Agostino, fonte principalissima sono le sue opere, in primo luogo le Confessioni stesse (sul valore storico, v. sopra); quindi numerose allusioni sparse qua e là negli scritti (specialmente i prologhi ai due primi libri c. Acad. e al De vita beata; i primi capitoli del De util. credendi, ecc.); le Retractationes; in fine, importantissima, la copiosa raccolta delle lettere (sue e di altri). Vengono poi la Vita scritta da Possidio, suo familiare per quasi quarant'anni (in Patrologia latina, XXXII, col. 33 segg.; ediz. critica di H. Weiskotten, Princeton 1919). Altre notizie sparse si possono desumere da varie fonti contemporanee. Esse furono raccolte e criticamente vagliate dal Tillemont (Vie de saint Aug., pubblicata postuma nel t. XIII dei Mémoires pour servir à l'histoire ecclésiastique, Parigi 1702): opera classica, che servì di base, se pure non fu tradotta, alla biografia latina (Vita S. Aur. Aug. ex eius potissimum scriptis concinnata) che è nel vol. XI dell'edizione dei Maurini (e in Patr. lat., XXXII, col. 65 segg.). Un'altra biografia, di Filippo di Harveng, è in Patr. lat., CCIII, col. 1205 segg.).
Edizioni: Troppo lungo sarebbe parlare della ricca e complessa tradizione manoscritta. Delle edizioni a stampa delle opere complete l'editio princeps è quella di A.D. Amerbach, Basilea 1506, in undici tomi; non comprende i sermoni, le Enarrationes in psalmos e le lettere, perché già pubblicate dallo stesso editore. Seguono: quella curata da Erasmo di Rotterdam (Basilea 1528-29, in dieci volumi); quella di Lione del 1561-63; quella dei Theologi lovanienses, sotto la direzione specialmente di Tommaso Cozée (Cozaeus) e di Giovanni van der Meulen (Molanus) pubblicata ad Anversa nel 1571: comprende 11 volumi. L'oratoriano Vignier pubblicò nel 1654-55 un Supplementum a tutte le edizioni, con nuovi sermoni, lo Speculum apocrifo (dal cod. paris. 9380), ecc.
Rimasta allo stato di progetto l'edizione a cui si accingeva Sisto V, quella che doveva per due secoli rimanere come definitiva è l'altra pubblicata a Parigi, tra il 1679 e il 1700, dai benedettini della congregazione di S. Mauro (Maurini). Essa introdusse una nuova divisione in capitoli (in cifre arabiche), una classificazione metodica e cronologica delle opere; pose su nuove basi la critica del testo. Per quanto non si possa avere la sicurezza che tutti i manoscritti esaminati siano stati collazionati con la stessa diligenza, questa edizione, per la quale furono utilizzati codici poi perduti, ha un valore permanente. Ebbe anche una storia delle più interessanti: suggerita dall'Arnauld, iniziata da Delfau e Guérard, fu poi continuata da altri benedettini, tra i quali il Blampin, il Constant, il Guésme, il Guyrot, il Martène, aiutati dal Mabillon, che scrisse l'epistola dedicatoria a Luigi XIV e dal Tillemont. È corredata da indici che costituiscono il più prezioso dei sussidî. Il primo volume uscì nel 1679, l'undecimo nel 1700; ma fin dal 1689 era incominciata la ristampa dei primi. Non mancarono gli attacchi, soprattutto anonimi; pare provenissero specialmente dal gesuita Langlois. Bossuet si assunse la difesa dei benedettini; in appoggio dei quali, sotto lo pseudonimo D. B. de Rivière, scrisse anche il Montfaucon; la controversia fu troncata dal decreto del S. Uffizio del 7 giugno 1700 che diede ragione ai benedettini, condannando tre dei libelli, tra cui quello del Langlois. L'edizione maurina fu poi riprodotta, con varianti, nella Patrologia latina del Migne (v. Kukula, in Sitzungsberichte der Akad. der Wissensch. di Vienna, CXXI e CXXII, 1890; CXXVII, 1892; CXXXVlII, 1898; Rottmanner, ivi, CXXIV, 1891; Ingold, Histoire de l'édition bénédictine de S.A., Parigi 1903).
Una edizione moderna si viene pubblicando, già da parecchi anni, nel Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum latinorum, a cura dell'Accademia di Vienna. Ne sono usciti finora oltre venti volumi, a cura di F. Weirich, J. Zycha, C. F. Vrba, E. Hoffmann, M. Petschenig., A. Goldbacher, P. Knöll. Il testo delle Retractationes edito da quest'ultimo ha dato luogo a critiche vivaci: v. Jülicher, in Theologische Literaturzeitung, LIII, 1903; Harnack, in Sitzungsberichte der Preuss. Akad. der Wissensch., 1905, pp. 1130-1131. Quanto alle Confessioni (ed. princeps, Strasburgo 1470) il testo dello Knöll fu abbandonato in gran parte, per quello dei Maurini, dai De Labriolle, nella sua edizione (I, Parigi 1925; ivi II 1927), ma vi ritorna, in molti punti, W. Montgomery nella sua 2ª ed. (Cambridge 1927). Per il testo di queste, v. anche F. Ramorino, in Rivista Stor. crit. delle scienze teologiche, V (1909), pp. 119 segg., 294 segg. Del De civitate Dei (ed. princeps, Subiaco 1467) è poi da ricordare l'edizione del Dombart, Lipsia 1908, voll. 2.
Bibl.: E. Nebreda, Bibliographia augustiniana, Roma 1928; articoli generali, di E. Portalité, in Dictionn. de théol. cath., I, II, coll. 2268-2472; di Loofs, in Realencykl. für Protest. Theologie und Kirche, II e XXIII; di Noerregaard, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, 2ª ed., I, p. 656 segg., oltre a opere di consultazione, quali: M. Sxhanz, Geschichte der römischen Literatur, IV, II, Monaco 1920, pp. 398-472 (di K. Krüger); O. Bardenhewer, Geschichte der altkirchlichen Literatur, IV, Friburgo in Br. 1924, pp. 434-511 P. de Labriolle, Histoire de la littér. latine chrétienne, 2ª ed., Parigi 1925 (specie per la trasmissione della letteratura classica); P. Monceaux, Histoire littéraire de l'Afrique chrétienne, VI, Parigi 1925, (le opere antidonatiste). Altre opere di carattere generale: Mc. Cabe, S. A. and his age, Londra 1902; G. v. Hartling, Augustin, Magonza 1912; L. Bertrand, St. Augustin, Parigi 1913 (trad. it. di A. Masini, Milano 1920); E. Buonaiuti, Il Cristianesimo nell'Africa romana, Bari 1928; P. Guilloux, L'âme de St. A., Parigi 1922 (N. C.), S. Agostino, Firenze 1926; W. Montgomery, St. A., 3ª ed., Londra 1928.
Sulle Confessioni: G. Misch, Geschichte der Autobiographie, Lipsia 1907, I, p. 402 segg.; Böhmer, Die Lobpreisungen des A. in Neue Kirchliche Zeitschrift, XXVI, 1915, pp. 419 segg. e 487 segg.; sulla conversione, l'evoluzione spirituale e il valore storico delle Confessioni, G. Boissier, in La fin du paganisme, Parigi 1891 (rist. da Revue des deux mondes, 1888, p. 43 segg.); A. Harnack, A. Konfessionen, Giessen 1888 (e, in Reden und Aufsätze, Giessen 1904, I, p. 49 segg.); F. Wörter, Die Geistesentwicklung des hl. A., Paderborn 1892; W. Thimme, A. geistige Entwicklung, Berlino 1908 (riassunto, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, XXXI, 1910, p. 172 segg.); id., A., ein Lebens- und Charakter-Bild, Gottinga 1910, P. Alfaric, L'évolution intellectuelle de S. A., Parigi 1918 I; K. Holl, A. innere Entwicklung, Berlino 1923; J. Noerregaard, A. Bekehrung, Tubinga 1923 (notevole l'introduzione, con storia della critica); Ottley, Studies in the Confessions of St. A., Londra 1919; R. Reitzenstein, Augustin, antiker und mittelalterlicher Mensch, Lipsia 1924; M. Zepf, A. Confessionen, Tubinga 1926; Gros, La valeur documentaire des confessions de S. A., Parigi 1927.
Esposizioni complessive della dottrina in: J. A. Schwane-Degert, Histoire des Dogmes, Parigi 1903; J. Tixeront, Histoire des Dogmes, II, 4ª ed., Parigi 1912; A. Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, Friburgo in B. 1909-1910; A. Dorner, Augustinus, sein theologisches System u. seine religionsphilosophische Anschauung, Berlino 1892; F. Ueberweg-B. Geyer, Grundriss der Geschichte der Philosophie, Die patritische und scholastische Philosophie, Berlino 1928, pp. 90-116.
Sul pensiero e su opere o singoli punti di dottrina: J. F. Nourrisson, La phil. de S. A., Parigi 1865, voll. 2; Cunningham, St. Austin and his place in the History of Christian Thought, Londra 1886; J. Storz, Die Philos. des hl. A., Friburgo in B. 1882; L. Grandgeorge, S. Aug. et le néoplast., Parigi 1896; Kratzer, Die Erkenntnislehre des Aurelius Augustinus (Inaug. Diss.), Monaco 1913; Hessen, Die Begründung der Erkenntnis nach dem hl. A., Münster in W. 1916; id., Die unmittelbare Gotterserkenntnis u. d. hl. A., Paderborn 1919; id., Der august. Gottesbeweis, Münster in W. 1920; A. Berthaud, S. Aug. doctrina de pulchro ingenuisque artibus (Tesi), Poitiers 1891; A. Wilkmann, Beiträge zur Aesthetik A. (Inaug. Diss.), Weide in Th. 1909; Fr. X. Eggersdorfer, Der hl. A. als Pädagoge, Friburgo in B. 1907; H. Scholz, Glaube und Unglaube in der Weltgeschichte, ein Kommentar zu A. "De civ. Dei", Lipsia 1911; De Guibert, La notion d'hérésie dans St. A., in Bulletin de littérature ecclésiastique, 1920, p. 368 segg.; A. Bruckner, Die vier Bücher Jul. v. Aecl. an Turbantius, ein Beitrag zur Charakteristik Iulians und Augustins, Berlino 1910; I. R. Smith, Augustine as an Exgete, in The Bibliotheca sacra, LXI (1904), p. 318 segg.; E. Troeltsch, Augustin, die christliche Antike und das Mittelalter, Monaco di Baviera, 1915; H. Lindau, A. geschichtliche Stellung, in Zeitschrift für Kirchengesch., XXXVII (1918), pp. 406-432; W. Schulz, Der Einfluss A. in der Theologie und Christologie des 8. und 9. Jahrhundert, Halle 1913: id., Der Einfluss der Gedanken A. über das Verhältnis von "ratio" und "fides" im 11. Jahrhundert, in Zeitschr. f. Kirchengesch., XXXIV (1913), p. 323 segg. e XXXV (1914), pp. 9-39; J. Hessen, Augustinische und thomist. Erkenntnislehre, Paderborn 1921; B. Mirbt, Die Stellung A. in der Publizistik des Gregorianischen Kirchenstreits, 2ª ed., Lipsia 1888; M. Grabmann, Die Grundgedanken des hl. A. über Seele und Gott in ihrer Gegenwartsbedeutung dargestellt, Colonia 1916; P. Batiffol, Le catholicisme de S. A., Parigi 1920; O. Scheel, Die Anschauung A. über Christi Person und Werk, Tubinga 1901; id., in Theol. Studien und Kritiken, LXXVII (1904), pp. 401 segg., 491 segg.; O. Rottmanner, Geistesfrüchte aus des Klosterzelle, Monaco 1908; M. Wundt, Ein Wendepunkt in A. Entwicklung, in Zeitschr. f. die Neutestam. Wiss. und die Kunde der älteren Kirche, XXI (1912), p. 53 segg.; ivi, XXIII (1924), p. 154; ivi (contro Zepf), XXVII (1928), p. 199 segg.; Dörries, Das Verhältnis des Neuplatonischen und Christlichen in A. "De v. relig.", ibid., XXIII (1924), p. 64 segg.; Humphrey, Politics and religion in the days of Augustine, New York 1912; A. Guzzo, A., dal "Contra academicos" al "De vera religione", Firenze 1925; C. Boyer, Christianisme et néoplatonisme dans la formation de S. A., Parigi 1920; J. Rivière, Le dogme de la Rédemption chez S. A., Parigi 1928; Arts, The Syntax of the confessions of S. A., Washington 1927; G. Beyerhaus, Philosoph. Voraussetzungen in A. Briefen, in Rhein. Museum, LXXV (1926), p. 6 segg.; M. Wundt, Der Zeitbegriff bei A., in Neue Jahrbücher f. Klass. Altert., 1918, p. 32 segg.; M. P. Borghese, Il problema del male in S. A., Palermo 1921; H. Leisegang, Der Ursprung d. Lehre A. von der civitas Dei, in Archiv f. Kulturgesch., XVI (1925), p. 127 segg.; J. M. Colbert, The Syntax of the De civit. Dei of S. A., Washington 1923; G. Reynolds, The clausolae in the De civit. Dei of S. A., ivi 1924; J. Barry, S. A., the orator (a study of... S. A.'s sermones ad populum), ivi 1924; V. Stegemann, Augustins Gottesstaat, Tubinga 1928.