FIRENZUOLA, Agnolo
Nato a Firenze il 1493, studiò legge a Siena e a Perugia; fattosi vallombrosano, fu a Roma procuratore dell'ordine nella Curia sotto Leone X e Clemente VII, guadagnandone benefici ecclesiastici e dandosi a vita mondana. Nel 1526 fu dispensato dai voti monastici, conservando i benefici. Colpito da lue celtica, che lo straziò per undici lunghi anni, tornò a Firenze verso il 1534, e poco dopo si stabilì a Prato, essendo abate perpetuo della Badia di S. Salvatore presso Vaiano. Visse allora fra gli studî e i lieti conversari; fondò l'accademia dell'Addiaccio, una specie d'Arcadia anticipata. Perduta la prebenda della Badia, rimanendone solo pensionario, si trovò in gravi strettezze; povero e dimenticato morì a Prato il 27 giugno 1543.
Gaio e spensierato, il F. ritrae negli scritti le tendenze varie e discordanti di quel ceto medio del Rinascimento che gareggiava con la classe aristocratica nell'amore del bello e nel pieno godimento della vita, senza un'idealità che l'ispirasse, senza un vigoroso pensiero che lo sorreggesse. Perciò i suoi scritti hanno tutti un'impronta amena e mondana, tanto quelli del periodo romano, che sotto l'influsso dell'arte del Boccaccio e di Apuleio, ancora non bene assimilata, si muovono un po' impacciati e rozzi, quanto quelli del periodo pratese, che da una più intima fusione degli elementi classici coi popolari derivano spigliatezza, eleganza e perspicuità, facendoci dimenticare la loro povertà di pensiero. Così il F. toccò con arguta festevolezza della questione della lingua (Discacciamento delle nuove lettere aggiunte, Roma 1524); provò la sua abilità stilistica con la libera traduzione dell'Asino d'oro d'Apuleio (Venezia 1550), adattandolo ai suoi tempi per aver modo di esaltare la sua donna ispiratrice e cantare la propria palingenesi; difese la dignità della donna con la monotona Epistola in lode delle donne; nei Ragionamenti discusse delle astruserie dell'amore platonico con un tono solenne, temperato dall'arguzia, in pagine che fanno da introduzione a scollacciate novelle: questi Ragionamenti, ricollegandosi agli Asolani e al Decameron, offrono, benché incompleti, un vivace quadro della società contemporanea.
Nel periodo pratese tentò il teatro con due fredde commedie I Lucidi e La Trinuzia (Firenze 1549); continuò a scombiccherare versi petrarcheschi, meglio riuscendo nelle ridanciane poesie bernesche; gareggiando coi maestri della pittura e della scultura, delineò con mano sicura il tipo ideale di bella donna nel trattato dialogico I discorsi delle bellezze delle donne; per il tramite d'una riduzione spagnola rifece il Panciatantra indiano in La prima veste dei discorsi degli animali, abbellendola di novelle e di favole animate da un piacevole sorriso satirico.
Opere: Prose di A.F., Firenze 1548; Rime, Firenze 1549
Bibl.: G. Fatini, A. F. e la borghesia letterata del Rinascimento, Cortona 1907; Le più belle pagine di A. F. scelte da A. Baldini, Milano 1925; E. Ciafardini, A. F., in Rivista d'Italia, XV, ii (1912), pp. 3-46; 881-946.