FIRENZUOLA, Agnolo
Nacque a Firenze il 28 sett. 1493, primo dei cinque figli del notaio Bastiano Giovannini da Firenzuola e di Lucrezia Braccesi, figlia dell'umanista Alessandro, che Bastiano servì come segretario personale.
Bastiano apparteneva al ramo della famiglia che verso la metà del sec. XV si era trapiantato a Firenze, prendendo la cittadinanza e cambiando il cognome in "da Firenzuola" e poi semplicemente "Firenzuola". Coinvolto con il suocero nella Repubblica piagnona, dopo la morte di G. Savonarola, che costò al Braccesi l'incarico di segretario della seconda Cancelleria fiorentina (gli subentrò N. Machiavelli), si dedicò alla professione redigendo atti in particolare per l'Ordine dei vallombrosani. Ricoprì qualche modesto ufficio, finché dal 1531 al 1537 fu segretario dei magistrati delle Tratte.
Il F. fu battezzato con i nomi di Michelangelo e Gerolamo, che era il santo familiare. Trascorse l'infanzia a Firenze in un ambiente intriso di spirito umanistico per l'influenza del nonno materno. Sedicenne, intraprese lo studio del diritto a Siena; quindi fu a Perugia, dove completò gli studi nel 1515-16. A Siena il F. si legò a Claudio Tolomei, a Perugia conobbe Pietro Aretino ; Animato dalle speranze di un affermazione al di fuori della cerchia colta ma cittadina in cui era maturato, dopo la laurea il F. avrà intravisto nell'ingresso da lungo tempo pianificato dal padre nell'Ordine vallombrosano la scelta più consona a garantirgli una sistemazione stabile senza menomare la propria libertà. Così, venticinquenne, nel 1518 approdò nella Roma di Leone X con l'incarico di procuratore dell'Ordine presso la Curia. Durante il soggiorno romano (che si protrasse verosimilmente fino a tutto il pontificato di Clemente VII (con l'intervallo del papato di Adriano VI) il F. ritrovò gli amici senesi e perugini, oltre a stringere legami con gli intellettuali più in vista del momento: A. Caro, G. Della Casa, F.M. Molza. Apparentemente per qualche tempo fu al servizio di Paolo Giordano Orsini e frequentò l'accademia che si riuniva nel palazzo del cardinale Pietro Accolti.
Al colto e stimolante ambiente romano va ricondotto il Discacciamento de le lettere inutilmente aggiunte ne la lingua toscana (Roma, L. Vicentino e L. Perugino, 1524), con cui il F. intervenne nel dibattito sollevato dalla proposta ortografica di G.G. Trissino, contemplante l'introduzione di alcune lettere dell'alfabeto greco nella grafia dell'italiano (il titolo del pamphlet firenzuoliano riprende polemicamente quello dell'Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, uscita poco prima per gli stessi stampatori).
Tornato a Roma dopo aver trascorso a Firenze gli anni del breve pontificato di Adriano VI, il F. lasciò l'incarico di procuratore dei vallombrosani per dedicarsi interamente alla letteratura. In questa scelta fu determinante la relazione con una gentildonna, nata a Roma ma di famiglia fiorentina, imparentata con i Giovannini, che il F. celò sotto lo pseudonimo gentile di Costanza Amaretta (forse postuma allusione alla dolorosa fedeltà conservata alla donna dopo la sua scomparsa) e della quale non si hanno altre notizie che quelle fornite dal F. nei suoi Ragionamenti, in un ritratto in cui i dati biografici sfumano in prospettiva esemplare. Moglie di un avvocato romano avido e materiale, la colta e sensibile Costanza scelse di riscattarsi dal mortificante legame coniugale dedicandosi agli studi poetici e filosofici, per tramite dei quali poté instaurare un'intellettuale relazione con il dotto parente fiorentino. Per il F., l'amicizia con Costanza fu l'occasione per sottrarsi agli "asinini studi delle leggi umane, anzi inumane" che lo avevano tenuto occupato fin lì, in una conversione percepita come svolta così radicale da suggerire l'idea di tradurre l'Asino d'oro di Apuleio, ravvisando nella trama del romanzo latino un itinerario di elevazione spirituale analogo al proprio.
All'ispirazione di Costanza va riportato l'ambizioso progetto dei Ragionamenti, delle cui sei giornate progettate il F. portò a termine solo la prima, conclusa entro il gennaio 1525. Costanza era morta poco prima. L'opera fu sottoposta al Tolomei, che dovette esprimere riserve sulla scelta di affidare temi filosofici a interlocutrici femminili, se il F. gli rispose il 7 febbr. 1525 con una Epistola in difesa delle donne, utilizzata poi come premessa, che è in sostanza un'erudita galleria di donne illustri dall'antichità all'età moderna senza elementi personali. In maggio, forse dopo una revisione, i Ragionamenti furono dedicati dall'autore alla nipote del pontefice, Caterina Cibo, duchessa di Camerino. Del resto dell'opera restano i frammenti della seconda giornata. È plausibile pensare che l'interruzione dell'opera fosse dovuta alla sterile accoglienza riservata da Clemente VII, che lesse i Ragionamenti, e dalla Cibo, alla cui corte il F. aveva forse vagheggiato una sistemazione.
Forse anteriore nell'ideazione ai Ragionamenti ma contemporanea nella stesura dovette essere la traduzione dell'Asino d'oro di Apuleio.
Un'ipotesi critica formulata da G.P. Martinez (A. F. L'"Asino d'oro" e i "Discorsi sulla bellezza delle donne", Campobasso 1921, pp. 9 ss.) e ripresa recentemente da D. Romei (La maniera..., p. 151) vuole che la prima parte dell'opera comprendente i capitoli I-VII fosse compiuta entro il 1525, mentre i tre libri restanti sarebbero da assegnare ad una data più avanzata, 1538 per il Martinez, genericamente dopo il 1532 per il Romei. Una gestazione non lineare è confermata indirettamente dal fatto che al lavoro mancò l'ultima mano se vi si leggono sviste, incongruenze, omissioni e che l'originale arrivò così malconcio allo stampatore da richiedere, in misura ancor più massiccia che per le altre opere edite postume, l'intervento editoriale di L. Domenichi, il quale per la princeps (Dell'asino d'oro, Venezia 1550) sanò in cinque punti (tutti negli ultimi tre libri) le lacune del manoscritto ricorrendo alla traduzione quattrocentesca di M.M. Boiardo (Venezia 1518).
Nei mesi successivi alla presentazione dei Ragionamenti a Caterina Cibo si verificò l'evento decisivo della vita del F., che condizionò l'esistenza dello sfortunato scrittore costringendolo a ritirarsi nell'ombra. La grave infermità di cui parla negli sciolti Intorno la sua malattia, nel capitolo In lode del legno santo e nella lettera a P. Aretino del 5 ott. 1541, molto probabilmente la lue celtica o (Romei, La maniera..., p. 9) la malaria, lo afflisse con febbri e dolori a più riprese e con diversa intensità fino alla morte. Resta tuttavia oscuro il motivo che spinse il F. a chiedere e ottenere l'8 maggio 1526 la dispensa dai voti monastici, pur mantenendo per speciale concessione del pontefice il godimento dei benefici di cui era titolare e rimanendo in seno alla Chiesa come chierico secolare, per rinchiudersi in un doloroso e impenetrabile isolamento. Nel novembre 1529 era a Firenze, dove il Tolomei gli scrisse, ricordandogli i trascorsi interessi ortografici e sollecitandolo ad intervenire ad un concilio di letterati italiani in materia di lingua da tenersi a Bologna in occasione dell'incontro fra Clemente VII e Carlo V (la lettera è in G. Fatini, A. F. e la borghesia letterata del Rinascimento, Cortona 1907, p. 15), ma è certo che il F. non vi aderì. Nel 1530 partecipò molto probabilmente a qualche riunione della neonata Accademia dei Vignaiuoli a Roma, alla quale va ricondotta almeno parte della sua produzione bemesca, nel complesso convenzionale e di scarsa inventiva comica. Intorno al 1533 si verificò però una recrudescenza del male che preluse al definitivo distacco dall'ambiente romano, probabilmente successivo alla morte dì Clemente VII il 25 sctt. 1534.
Nel 1538 era a Prato, migliorato in salute, di nuovo nell'Ordine vallombrosano e in buone condizioni economiche grazie al ricco beneficio della badia di S. Salvatore, a Vaiano nel Pratese, di cui almeno da quest'anno fu abbas perpetuus. Nella tranquilla e prospera cittadina toscana, alla cui aria salubre attribuì in numerose rime il suo risanamento, il F. si riaprì alla vita sociale e forse all'amore non solo spirituale, come testimonia la concretezza delle rime per una Selvaggia della famiglia dei Buonamici, cogliendo nel quieto e ristretto orizzonte culturale e mondano pratese quell'opportunità di affermarsi che l'ostico ambiente romano gli aveva negato. Sono di questo periodo le commedie I Lucidi (rifaciniento dei Menaechmi plautini) e Trinuzia.
A Prato per iniziativa del F. sorse l'Accademia dell'Addiaccio (dal nome del recinto all'aperto dove i pastori rinchiudevano gli armenti nei cui istituti di ispirazione pastorale si è voluto vedere anacronisticamente un'anticipazione dell'Arcadia settecentesca. Di breve durata e di risonanza modesta, presto minata da una ribellione interna che portò il F. alla creazione di un sodalizio più ristretto, il Nuovo Addiaccio, l'accademia maturò purtuttavia una sua poetica che vediamo riflessa nella voga pastorale che pervade le rime pratesi del Firenzuola.
Al felice incontro con le famiglie pratesi è dovuta la riproposta della soluzione dialogica nel Dialogo delle bellezze delle donne intitolato Celso (dal nome dell'interlocutore principale, che come nei Ragionamenti adombra l'autore) in forma di trattato, abbandonando la circolarità decameroniana caratteristica dell'opera giovanile.
La bellezza femminile era un soggetto in voga nella vasta pubblicistica contemporanea di matrice platonica; il F. lo recepisce accentuando il tema della bellezza come armonia delle forme in cui il piacere dei sensi sublima in superiore contemplazione intellettuale. Tuttavia le allusioni velate ma facilmente (e volutamente) decrittabili alle donne pratesi utilizzate come modelli per delineare il ritratto della bellezza ideale non mancarono di suscitare pettegolezzi e risentimenti, in cui il F. si trovo senza volere invischiato, con il risultato di alienarsi il favore delle famiglie cittadine e avviarsi ad una nuova solitudine.
Il superamento del modello boccacciano come possibile cifra del periodo pratese sembra confermato dalle opere narrative, dove lo spunto novellistico e favolistico sì libera dalla sovrastruttura ideologico-culturale della cornice. Così è per le due novelle note come Novelle del periodo pratese, a ragione considerate dalla critica tra i prodotti più originali del genere nel sec. XVI. Ma lo scacco più radicale al modello boccacciano si consuma nella Prima veste dei discorsi degli animali, volgarizzazione del Pañciatantra indiano attraverso la mediazione del duecentesco Directorium humanae vitae di Giovanni di Capua e del rifacimento spagnolo di quest'ultimo, l'Exemplario contra los engaños y peligros del mundo (Burgos 1498, più volte fistampato fino a Cinquecento inoltrato). Della versione spagnola il F. tradusse soltanto il quinto libro.
Sulla trama conduttrice del racconto, la storia del mansueto bue Biondo e del perfido montone Carpigna alla corte dei re leone raccontata dal filosofo Tiabono al leone Lutorcrena si inanellano ventiquattro favole, talvolta in rapporto d'inclusione tra loro, dando vita ad un gioco di incastri in cui sono i personaggi delle novelle a trasformarsi di volta in volta in narratori.
Dopo la grande alacrità all'insegna della quale si era inaugurato il soggiorno pratese subentrò per il F. un nuovo periodo infelice. In difficoltà economiche dovute alla perdita, verso la fine del 1540, del beneficio di Vaiano e al trascinarsi di una controversia con la sorella Alessandra per l'eredità del padre morto nel 1538, condannato all'isolamento a causa dei dissapori subentrati nei rapporti con le famiglie pratesi, il F. si spense a Prato il 27 giugno 1543 in assoluta solitudine. I fratelli appresero della sua morte solo due settimane dopo, come si legge nel rogito con cui rinunciarono all'eredità perché ritenuta passiva.
Tranne il Discacciamento, le opere apparvero postume per sollecitudine del fratello Gerolamo (autore per suo conto di un modesto trattato Dell'agricoltura, edito a Siena solo nel 1871), che affidò i manoscritti, mal conservati dal F. e forse dispersi dopo la sua morte, alle cure editoriali di L. Scala e L. Domenichi. A Firenze presso i Giunti videro la luce nel 1548 le Prose; nel 1549 le Rime, la Trinuzia, e i Lucidi; a Venezia per G. Giolito nel 1550 l'Asino d'oro. Nel 1545 a Venezia era stato inoltre dato abusivamente alle stampe sotto il nome di un oscuro Grappa il Commento sopra la canzone del F. in lode della salsiccia con incluso il testo della canzone (ed. crit. a cura di C. Alderighi, Bologna 1881). Dopo le numerose stampe cinque e secentesche, i primi emendamenti testuali si registrano in Delle opere di m. A. F. fiorentino (Firenze [ma Napoli] 1723-30) e nelle Opere di m. A. F. fiorentino (a cura di P.L. Fantini, Firenze [ma Venezia] 1763-66). Dalla edizione Fantini derivano le edizioni successive sette e ottocentesche (da segnalare Le opere di m. A. F. fiorentino, Milano 1802) fino al primo tentativo di una vera e propria edizione critica ad opera di B. Bianchi (Le opere di A. F. ridotte a miglior lezione, Firenze 1848). Oltre all'antologia curata da S. Ferrari (Prose scelte, ibid. 1895) apprezzabile per il commento, edizioni critiche condotte con metodo aggiornato sono quella delle Opere scelte, a cura di G. Fatini, Torino 1957; delle Opere, a cura di A. Seroni, Firenze 1958; della Trinuzia, a cura di D. Maestri, Torino 1970; delle Novelle, a cura di E. Ragni, Roma 1971; delle Opere, a cura di D. Maestri, Torino 1977; del Discacciamento, in Trattati sull'onografia del volgare, 1524-1526, a cura di B. Richardson, Exeter 1984.
Fonti e Bibl.: Per la ricca bibliografia critica intorno al F. si vedano gli studi di M. Oliveri, Bibliografia essenziale ragionata di A. F., in Riv. di sintesi lett., I (1934), pp. 390-400, e di A. Seroni. Bibl. essenziale delle opere di A. F., Firenze 1957; ci si limita pertanto a segnalare i contributi successivi: L. Russo, Novellistica e dialogistica nella Firenze del '500, in Belfagor, XVI (1961), pp. 535-554; P. Thompson, F., Surrey, and Watson, in Renaissance News, XVIII (1965), pp. 295-298; F. Cerreta, Una canzone del F. e una vecchia teoria sulla paternità degl'"Ingannati", in La Bibliofilia, LXXIII (1971), pp. 151-163; D. Maestri, Le rime di A. F.: proposta di ordinamento del testo e valutazione critica, in Italianistica, III (1974), pp. 7896; E, Scuderi, F. e il suo ideale di bellezza femminile, in Id., Scrittori irregolari, Bologna 1977, pp. 35-40; A. Seroni, Poesia ideologica nel canzoniere di A. F., in L'Approdo letterario, n.s., XXIII (1977), 79-80, pp. 99-103; S. Maniscalco, Criteri e sensibilità di A. F. traduttore di Apuleio, in La Rass. della letteratura ital., LXXXII (1978), pp. 88-109; P. Getrevi, Dalla Toscana a Venezia: l'itinerario della sposa cucita, in Miscellanea di studi in onore di V Branca, III, Umanesimo e Rinascimento a Firenze e a Venezia, t. 3, Firenze 1983, pp. 619-639; D. Romei, La maniera romana di A. F. (dicembre 1524-maggio 1525), Firenze 1983; Id., Lucrezia, il F., la poesia: 1522, in Filologia e critica, XI (1986), pp. 66-74; T.C. Riviello, A. F.: The androgynous vision, Roma 1986; M. Rogers, The decorum of women's beauty Trissino, F., Luigini and the representation of women in sixteenth-century painting, in Renaissance Studies, II(1988), pp. 47-88.