GUIDI, Aghinolfo
Figlio di Guido conte di Romena e di Maria di Uberto Pallavicini, fu probabilmente il primogenito. Poiché le nozze dei genitori sono da collocarsi fra 1250 e 1254, la nascita del G. dovrebbe situarsi fra 1251 e 1258.
Fu avviato all'esercizio delle armi dal padre che egli forse accompagnò in qualche incarico politico. Alla morte abbastanza precoce del padre, intorno al 1280, il G. e i fratelli si trovarono costretti ad aderire alla pacificazione fra guelfi e ghibellini toscani promossa dal cardinal Latino Malebranca, che egli infatti ratificò tramite un procuratore insieme con il fratello Guido.
Intanto, però, per creare difficoltà in Firenze o forse per risolvere una crisi finanziaria che si stava facendo preoccupante, i fratelli conti di Romena sembrerebbero aver spinto un loro uomo, maestro Adamo (originario di Brescia o, secondo i più recenti commentatori danteschi, dell'Inghilterra), a fabbricare con il loro appoggio fiorini falsi e a spenderli a Firenze. Il G. è il terzo fratello - il cui nome rimane implicito - nell'invettiva che Dante fa esprimere a tal riguardo a maestro Adamo, l'unico che in effetti pagò con la vita (Inferno, XXX, vv. 73-78). I conti di Romena, infatti, al momento erano troppo potenti e lontani per la giustizia fiorentina e in ogni caso poco tempo dopo, probabilmente intorno al 1283, decisero di passare alla parte guelfa, per cui Firenze accogliendoli come alleati dimenticò ogni condanna.
Nel frattempo il G., nel 1281, insieme con il fratello Guido aveva sistemato questioni patrimoniali in Romagna, acquistando il castello di Montebovaro, e si era sottomesso all'alta signoria del Comune di Arezzo per i castelli casentinesi di Ragginopoli, Lierna, Partina e Corezzo; quindi nel 1282 aveva tenuto la carica di podestà nel Comune di Città di Castello. A questi anni, al più tardi, dovrebbero risalire anche le sue nozze con Idana figlia di Ruggero conte di Bagnacavallo e la nascita dei primi figli. Nel 1284 il G. succedette al fratello Guido nella carica di podestà di Siena, quindi nel dicembre 1285 i Fiorentini, che si preparavano alla guerra contro Arezzo, decisero di porlo per i primi sei mesi del 1286 al comando delle truppe della Lega guelfa.
Il ruolo militare di prestigio assunto in questo caso fa pensare che il G. abbia continuato insieme con il fratello Alessandro a combattere per la parte guelfa fino alla battaglia di Campaldino del 1289 e alle scorrerie nell'Aretino dell'anno successivo.
Quando il fratello Ildebrandino - già nominato vescovo di Arezzo in seguito alla morte a Campaldino del predecessore Guglielmino degli Ubertini - fu dal papa inviato nel gennaio del 1291 come suo legato in Romagna, il G. e Alessandro lo accompagnarono e si trovarono subito invischiati nelle guerre che opponevano le fazioni, i Comuni fra loro, e in generale le città ai tentativi della Chiesa di instaurare un effettivo dominio. Così l'anno successivo, mentre con suoi uomini aiutava il fratello assediato a Forlì da Maghinardo Pagani che guidava le truppe di Ravenna, Cervia e Faenza, il G. fu ferito e preso prigioniero da Maghinardo, insieme con il figlio Uberto. Dopo essere stati condotti a Faenza, padre e figlio furono imprigionati dai primi di marzo ai primi di maggio nella rocca di Calamello, quindi il 9 di questo mese il G. ottenne una tregua e, lasciando in ostaggio altri due figli, Guido e Ruggero, fu liberato con l'impegno di mediare una pace fra Maghinardo e Ildebrandino. Non rispettando l'impegno preso, il G. ricominciò subito a combattere e nel giugno respinse l'assedio che i Forlivesi gli avevano posto nel castello di Castrocaro. Alla pace si arrivò nel maggio del 1294 e probabilmente solo allora furono liberati i suoi figli. Nello stesso anno, con il ritorno in ottobre di Ildebrandino ad Arezzo, il G. lo seguì per aiutarlo a riprendersi il ruolo politico oltre che spirituale che il vescovo aveva sempre avuto in quella città.
Fra i maggiori problemi che dovettero affrontare ci fu l'ostilità verso i Guidi dei potenti ceppi degli Ubertini e dei Tarlati che, attribuendo anche alla politica di Ildebrandino la causa della loro cacciata da Arezzo, devastarono i beni casentinesi spettanti al vescovo ma anche quelli della casata dei conti di Romena. Nella guerra feudale che ne seguì, al G. fu occupato dagli Ubertini il castello di Loro in Valdarno, ma egli prese ai Tarlati i castelli di Caprese, Rocca Cinghiata e Pieve Santo Stefano nell'alta Val Tiberina. Si arrivò alla pace nel 1297, anche grazie alla minaccia di Firenze e al fatto che Ubertini e Tarlati erano riusciti a rientrare in città.
In buoni rapporti con Firenze, tanto da lasciare che fossero i Consigli del Comune ad approvare i podestà che nominava a reggere i castelli della famiglia in Mugello, il G. si era però avvicinato agli esponenti guelfi della parte bianca che dovevano risultare perdenti nella lotta politica cittadina. Così dopo che i bianchi furono cacciati dalla città e si furono rifugiati ad Arezzo nel 1302, il G. e il fratello Alessandro furono i loro capi militari.
Non è chiaro chi dei due fosse fino alla primavera 1304 il comandante generale; fra i dodici consiglieri di questo era stato scelto anche Dante che avrebbe scritto in tale periodo una lettera al cardinale Niccolò da Prato, legato di pace a Firenze, per conto e a firma di un A. Ca(pitaneus). Pare comunque certo che il G. con uomini aretini e romagnoli abbia riportato una vittoria sui mercenari assoldati dai neri a Cennina in Val d'Ambra nel novembre 1303, ed è assai probabile che abbia partecipato all'impresa contro Firenze del luglio 1304 conclusasi con lo scontro alla Lastra che per poco non rovesciò la situazione in città.
Morto comunque Alessandro in quegli stessi mesi del 1304, il G. fu dichiarato ribelle e nemico del Comune di Firenze e gli venne quindi occupato nel 1306 il castello di Loro che aveva appena riavuto dagli Ubertini. Nello stesso anno, pressato forse dalle necessità economiche della guerra, vendette al conte Tancredi Guidi di Modigliana il castello di Monte Bovaro in Romagna. Quindi sostenne probabilmente il tentativo di pacificazione dell'inviato del papa, il cardinale Napoleone Orsini, giunto ad Arezzo nella primavera 1307, e forse non è un caso se la spedizione che doveva far pressione sui neri di Firenze passò per il Casentino invece che per il Valdarno. L'azione del cardinale si rivelò comunque un fallimento e i neri fiorentini riuscirono a far rientrare in Arezzo Uguccione Della Faggiuola che era in concorrenza con il vescovo Ildebrandino nel cercare di imporre un personale controllo politico sulla città.
Il G. continuò a combattere in difesa di Arezzo contro Firenze per i tre anni successivi, e forse proprio per questo non poté accogliere personalmente ad Arezzo gli ambasciatori inviati da Enrico VII di Lussemburgo che preparava la sua discesa in Italia, ma inviò un suo messo, Andrea di Betto da Poppi, per comunicare loro la sua fedeltà e disponibilità. Non appena Enrico fu in Toscana, infatti, il G. si aggregò al suo esercito e lo seguì a Roma. Qui, combattendo negli scontri presso il ponte Milvio e al Campidoglio, contribuì a consentire la stessa cerimonia d'incoronazione; riconoscente, Enrico il 7 giugno 1312 gli concesse un diploma in cui prendeva lui e i suoi beni sotto la protezione imperiale, confermava tutti i beni e diritti concessi da Federico II al padre del G. nel 1247 e vi aggiungeva i castelli che il G. aveva tolto ai Tarlati.
Continuando a seguire l'esercito imperiale il G., che aveva con sé il figlio Ruggero, partecipò al tentativo di assedio di Firenze; contro di lui la città rinnovò quindi il bando e la condanna come ribelle, ma alla morte dell'imperatore a Buonconvento egli preferì rientrare subito verso Arezzo e il Casentino piuttosto che accompagnarne la salma a Pisa.
L'ostilità contro il gruppo dei guelfi neri dominante a Firenze fu mantenuta dal G., che nell'estate 1315, dopo che l'esercito fiorentino era stato pesantemente sconfitto da Uguccione Della Faggiuola a Montecatini, compì un'incursione nel territorio fiorentino a lui più vicino; non solo: riconoscendo in Uguccione l'esponente politico cui fare riferimento, concordò le nozze di una sua figlia, Sofia, con Neri figlio di Uguccione. All'inizio del 1316, forse per coprire i costi delle varie imprese militari, il G. cedette per 4000 fiorini ai Pazzi di Valdarno tutti i castelli che teneva in Valdarno (Rocca Guicciarda, Gropina, Trappola, Montelungo), e tale vendita significava anche un cedimento politico e la ritirata da una zona troppo vicina a Firenze. Pochi mesi dopo, proprio mentre tornava dall'aver accompagnato la figlia dal marito, fu assalito e catturato dal conte Alberto di Mangona, che era stato spinto dal governo fiorentino a tendere insidie al G., ma che, una volta che lo ebbe catturato, non lo consegnò alla città che lo avrebbe presumibilmente giustiziato, adoperandosi al contrario per un accordo di pace. Così il 10 ott. 1318 il G. promise che si sarebbe da allora in avanti mantenuto alleato di Firenze e dei guelfi neri ottenendo in cambio l'assoluzione da ogni bando nei suoi confronti.
Nel 1323 Guido Tarlati, che divenuto vescovo di Arezzo sfruttava tale posizione per aumentare il potere della famiglia in città e nel territorio, riuscì a far ribellare al G. gli uomini di Caprese, un tempo soggetti ai Tarlati, e questi con gli uomini del vescovo ripresero al G. anche Rocca Cinghiata e Usciano. La rocca di Caprese dove erano alcuni uomini del G., tuttavia, resisteva, nonostante che il vescovo avesse fatto giungere aiuti da Forlì. Il G. allora, per riuscire a tenere l'importante centro dell'alta Val Tiberina, chiese l'aiuto di Firenze, in base ai patti di alleanza. La città acconsentì a recare aiuto al G. ma, prima che le milizie fiorentine potessero raggiungere Caprese, la rocca ai primi di gennaio 1324, dopo tre mesi di assedio, cedette. L'alleanza del G. con Firenze funzionò meglio in altre occasioni. Da un lato, infatti, egli mandò una nutrita schiera di suoi uomini, in aiuto all'esercito fiorentino che si difendeva a Pistoia dall'assedio di Castruccio Castracani, affidandone il comando ai figli Guido e Ruggero, non sentendosi probabilmente più in età da combattere. Dall'altro, quando nel febbraio 1328 il conte Guglielmo Novello, figlio di Guido Novello, assalì e occupò il castello di Romena, costringendo il G. a rinchiudersi in estrema difesa nell'ultima cerchia della rocca, Firenze inviò immediatamente aiuti, e la sola minaccia convinse Guglielmo Novello a ritirarsi ad Arezzo, città dalla quale aveva avuto i mercenari per tentare l'impresa.
Il G., ritiratosi probabilmente da ogni attività politica o militare, ma non dal governo signorile nei territori a lui soggetti, visse, quindi, ancora almeno fino al 1338, anno in cui fece stendere nel novembre il proprio testamento al notaio ser Maffeo da Corzano. La morte dovette essere di poco successiva.
Nel testamento il G. dispose minuziosamente dei suoi beni tentando una sistemazione che accontentasse i figli (Alessandro, Francesco e Bandino che erano religiosi - il primo vescovo di Urbino dal 1317 - Guido e Ruggero, le figlie Albiera, Idana, Maria e Sofia; un altro figlio, Uberto era morto verso la fine del Duecento) e una nutrita schiera di nipoti. Inoltre, come d'uso, lasciò una somma consistente che doveva venire elargita a chiese, ospedali, poveri e religiosi, a salvezza della sua anima, e dispose che venisse risarcito chiunque fosse stato da lui danneggiato. Quindi si ricordò di chi in vita gli era stato più vicino; in particolare spicca un prete, Tommaso di Gian Michele del "popolo" di S. Procolo di Firenze, che per lungo tempo doveva averlo servito come procuratore e che venne indicato anche come principale esecutore testamentario insieme con il nipote Bandino. Lo stesso nipote, figlio del defunto Uberto, che il G. doveva avere già da tempo preso sotto la sua protezione e guida occupandosi anche della sua educazione e che, a giudicare dal testamento, parrebbe appunto risultare il prescelto dal G. per tentare di portare avanti la fama della casata.
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