AGEMINA
. È una tecnica speciale dell'arte metallica, per la quale si ottiene un effetto policromo mediante l'incrostazione di diversi metalli. Il nome proviene da ‛Agiam, nome della Persia presso gli Arabi, e starebbe a indicare propriamente quei lavori che sono eseguiti incastrando fili o foglie di argento o d'oro in solchi profondamente scavati a sottosquadro nell'acciaio, mentre niello sarebbe quel genere di ornamentazione metallica ottenuta riempiendo dei solchi, intagliati per lo più su metalli nobili, mediante una speciale amalgama, chiamata essa stessa niello (dal basso latino nigellum), composta di argento, rame e piombo, annerita per l'immistione di zolfo. Viceversa i termini sono stati spesso scambiati e confusi, e nel vocabolario artistico il significato di "lavoro all'agemina" (o anche "alla damaschina") si è esteso in genere a significare ogni decorazione a incrostazioni metalliche, anche perché nella maggior parte dei monumenti di tale arte nell'antichità le due tecniche si rinvengono riunite. Colore, durezza e malleabilità del niello hanno variato attraverso i secoli, secondo le diverse arti e i diversi artefici per le diverse proporzioni dei metalli usati nella miscela e per la diversa quantità dello zolfo, il quale ultimo serve soprattutto per dare le varie tonalità e sfumature dell'annerimento voluto dall'artista, come bleu-acciaio, grigio-piombo e nerocarbone. La parola nigellum compare per la prima volta nel sec. IX, e quasi contemporaneamente in un passo d'una lettera del patriarca Niceforo di Costantinopoli (806-815) a papa Leone III, in un passo della vita di papa Silvestro nella parte del Liber Pontificalis compilata da Anastasio bibliotecario, (v.), e in un verso di Teodulfo, vescovo di Orléans; la traduzione greca medievale di questo vocabolo è μέλαν o μελανόν. Sulla tecnica del niello nell'antichità, oltre a un passo di Plinio (Nat. hist., XXXIII, 46, 131), abbiamo soltanto fonti medievali, come una citazione di Teofilo (Divers. artium schedula, III, p. 27 segg.; circa il 1100) e una di Eraclio (de coloribus et artibus Romanorum, III, 48), e poi la trattazione del Liber diversarum artium (de nigello; circa il 1430), a cui fa seguito immediatamente il libro del Cellini del 1568 (Trattato dell'oreficeria, cap. I). Mentre per l'agemina viene scavato o impresso nel metallo il disegno decorativo, e poi la cavità viene riempita da varie lamine di metallo di diverso colore, battute a freddo e spesso inserite anche su foglie di metalli teneri intermedî, nel lavoro a niello, sulla lamina, in cui i disegni sono stati incisi, riscaldata fino ad arroventarsi, si versano i piccoli pezzettini o la polvere in cui è stata ridotta l'amalgama preventivamente preparata, in modo che tale amalgama, sciogliendosi, vada a riempire i vuoti dell'incisione; quando ciò si è raggiunto, si lascia raffreddare la lamina, e si gratta via il niello eccessivo uscito fuori dal disegno; poiché l'amalgama riempie anche ogni minima graffiatura, la decorazione ottenuta può essere finissima, e la policromia è raggiunta soltanto per il contrasto delle incisioni riempite e della lamina levigata.
I lavori a incrostazione metallica si presentano a noi pressoché contemporaneamente nell'arte egiziana e in quella cretese-micenea. In Egitto sono soltanto pochi monumenti, e ristretti in un breve spazio di tempo: sono essenzialmente gli oggetti rinvenuti nella tomba della regina Aahotep, madre di re Amosis I (1587-1562 o 1557 a. C.), e precisamente due teste di sparviero, cioè due terminali d'un collare, un'ascia e un pugnale. Nelle teste di sparviero il niello è del tutto diverso dall'usuale niello delle lamine metalliche, perché la sostanza dell'amalgama non è superficiale, ma incastrata in cavità relativamente assai profonde. Questo carattere del niello egizio si ripete in sostanza anche negli altri esemplari. Sull'ascia v'è uno strato di niello che ricopre tutta l'anima di rame; vi sono disegnate delle figure umane, un grifo e dei geroglifici d'oro; essa, come il pugnale, porta il cartello reale di Amosis I. Nel pugnale (fig.1) sono quasi combinati i due metodi precedenti: al posto della costolatura centrale, su ambedue le parti, v'è una scanalatura riempita d'uno strato compatto di niello, e su questo, su cui posa un'incrostazione d'oro, sono disegnati dei geroglifici e degli ornamenti floreali e inoltre da una parte anche quattro cavallette contrapposte a un leone che insegue un toro.
Anche nell'ambiente cretese-miceneo i monumenti di tale arte sono rari e si aggruppano tutti in un breve periodo, che abbiamo detto essere circa il medesimo dei monumenti egiziani sopra descritti; ma dal punto di vista tecnico tali monumenti sono del tutto diversi. Qui infatti l'elemento principale non è la materia compatta di niello, ma predomina la decorazione policroma dei metalli esterni, in cui soltanto come mezzo ausiliario è adoperato il niello per qualche particolare; inoltre su un pugnale di Micene, con decorazione di spirali e rosette, di cui tra poco parleremo, fa l'apparizione una tecnica nuova, quella del niello a incisione.
I monumenti principali sono i pugnali e i vasi di Micene, tutti, meno la tazza con le teste barbate, provenienti dalla IV e dalla V tomba a fossa della necropoli principesca, nonché una tazza recentemente scoperta a Midea. In alcune di queste armi di Micene non si può parlare né di agemina né di niello; lasciando da parte quelle semplicemente rivestite di decorazione impressa o rilevata su una foglia d'oro, con particolari incisi a bulino, che non fanno parte dell'arte da noi trattata, non è veramente ageminato neppure il pugnale decorato di grifi in "galoppo volante", grifi che sono cesellati sulla costolatura della stessa lama, senza intervento di altri materiali. Altri due pugnali sono ageminati, ma senza l'introduzione del niello; uno è decorato da una serie da leoni correnti, dati da lamine auree in rilievo, in colori diversi per le diverse parti (criniera scura, testa e corpo più chiari), sopra la costolatura dell'arma in una lamina di amalgama d'argento e ferro, con indicazione del terreno (nubi di polvere, o altro) in uno strato non rilevato di elettro multicolore; nella stessa maniera sono rilevati i gigli sul secondo pugnale, dal manico pure decorato a gigli, ma sbalzati su una foglia aurea, gigli che sulla lama sono rilevati in elettro con stami di due diverse sfumature d'oro. Tre pugnali hanno invece introdotto anche il vero e proprio lavoro di niello. Uno di essi (v. tavola a colori) ha una decorazione figurata con rappresentazione di caccia: da una parte, cinque cacciatori cretesi, armati di lance e archi e protetti da scudi, dànno la caccia a tre leoni; la scena è abilmente distribuita nello spazio restringentesi della lama: un leone in fondo fugge, quello di mezzo corre, volgendo indietro la testa, l'ultimo infine affronta i cacciatori, abbattendone uno, nonostante la freccia che l'ha colpito; nell'altro lato dell'arma, è un leone che dà la caccia a un branco di gazzelle, di cui ha già atterrato e addenta una. In quanto alla tecnica, qui l'artista ha impresso, su una lamina di un'amalgama di ferro e argento, come nel pugnale dei leoni già descritto, le sue figure, poi intarsiate di laminette policrome d'oro, d'argento e di elettro, con linee interne sottili incise e più grosse impresse, e l'incrostazione del niello per qualche particolare (capelli, cinghie dello scudo). Il secondo pugnale (v. tavola a colori e particolare in fig. 2) ha una decorazione pressoché identica su entrambe le facce: sono dei gatti selvatici che inseguono delle anatre sulle rive d'un fiume e cui fanno bordo steli di papiro; il fiume è dato da una striscia ondulata in cui guizzano i pesci; il niello qui formava tutto lo sfondo fra gli animali e le piante, mentre l'intarsio è eseguito in elettro di tre colori come nel pugnale precedente, di color oro cupo, più chiaro e rossiccio. Il terzo pugnale (fig. 3) ha tutta la lama adorna di spirali correnti e di rosette, ed in esso è applicata la tecnica sopra indicata a niello inciso, vale a dire che sulla lamina d'oro è inciso il disegno delle spirali tutto riempito di niello.
Dei tre vasi micenei il primo (fig. 4) è un nappo d'argento, con le consuete anse micenee, simili alle anse delle tazze di Vaphiò; la decorazione è sulla parte superiore del vaso, cava, limitata da un listello d'oro e da una serie di dischetti aurei incastrati su due strisce di niello; nel mezzo sono disegnati degli altari fioriti, oppure, secondo altri, dei cestelli ricolmi di fiori, in lamine d'oro battute, in cui i particolari sono incisi o impressi, e riempiti egualmente di niello. I1 secondo vaso di Micene (fig. 5) è una bassa tazza argentea, ritrovata entro una tomba rupestre della città inferiore, decorata con ghirlande e con teste umane incrostate; delle 21 teste rappresentate, solo 7 hanno conservata la loro incrostazione, mentre di alcune altre sono state ritrovate le lamine dell'incrostazione staccate; la tecnica qui varia ancora: il niello forma lo strato sottile intermedio, fra due lamine auree, dando così la colorazione scura per certe parti delle teste, come le barbe e i capelli. Gli uomini infatti sono tutti barbati, mentre le labbra sono rasate, e ricche trecce ondulate pendono dalla nuca. Il terzo vaso, di Midea, è una tazza emisferica d'argento, con una spessa doratura nell'interno, ed esternamente decorata di cinque teste taurine di prospetto, d'oro, bronzo e niello, incastrati nello sfondo d'argento.
Benché i monumenti ageminati dell'arte cretese-micenea siano stati finora ritrovati soltanto sul continente, bisogna ammettere per lo meno un'influenza diretta dell'arte cretese, se non addirittura un'importazione da Creta degli oggetti da noi esaminati. Inoltre le figurazioni di alcuni dei pugnali, soprattutto del pugnale con la scena dei gatti e delle anatre, si devono immaginare indubbiamente in ambiente fluviale estraneo alla natura dell'isola di Creta; come al continente asiatico o africano, non a Creta, sembrano accennare le scene di caccia ai leoni. D'altra parte è stato già da tempo riconosciuto anche come il disegno del pugnale niellato egizio sopra studiato è dovuto a influenza dell'arte cretese. Tuttavia ancora non possiamo dedurre con sicurezza né una provenienza dall'Egitto né una derivazione in senso inverso dell'arte dell'agemina, perché, come da un lato le armi sono caratteristiche e indigene dei due paesi, così dall'altro il metodo e il principio delle due tecniche rimangono diversi e peculiari delle due regioni. Abbiamo dunque in una un vero e proprio niello basato sul contrasto del nero sul fondo d'oro, e con incrostazione profonda dell'amalgama; nell'altra, soprattutto, lavoro d'incrostazione di lamine metalliche multicolori, in cui il niello ha una parte secondaria come distinzione di alcuni particolari minuti. Il von Bissing è incline ad ammettere una derivazione comune da un'invenzione fenicia, di cui l'imitazione in Egitto sarebbe stata più servile che non a Creta. Da una parte, poi, il niello egizio scompare dai nostri occhi, per fare una breve riapparizione soltanto dopo duemila anni in Siria (se non vogliamo confondere con niello una specie di laccatura metallica venuta in uso in Egitto in epoca tarda, chiamata dagli Egiziani rame nero, probabilmente essa stessa imitazione dell'agemina cretese, di cui l'esemplare più conosciuto è la cassetta da unguenti della regina Schepenopet, all'incirca del 700 a. C.), mentre l'unica forma di agemina ancora esercitata è una sottilissima incrostazione che decora di figure e geroglifici le vesti di certe statue di bronzo, come la veste trapunta in argento della regina Takuscit, della XX dinastia, che appartiene al principio del sec. VII a. C. e che si conserva nel Museo nazionale di Atene, o quella, incrostata in oro, in argento e in elettro, della regina Karomama, della XXII dinastia, posseduta dal Louvre. La tecnica micenea, al contrario, ritorna già in epoca alessandrino-romana, per espandersi quindi, liberatasi dall'incrostazione, e lasciando il niello padrone assoluto del campo, in tutte le parti del mondo che hanno adottato tale decorazione metallica.
Tuttavia, fino all'epoca bizantina, i monumenti ageminati sono assai rari; ne possiamo quindi elencare in breve i principali. Prima di tutti gli altri vengono due vasi, una bella brocca e una patera, trovate a Egyed in Ungheria e conservate al Museo nazionale di Budapest; questa è decorata di scene nilotiche, quella di divinità egizio-elleniche e di geroglifici; la tecnica è simile a quella della tazza micenea dalle teste barbate, cioè il fondo bronzeo è tutto coperto da uno strato sottilissimo di niello, con finissima decorazione a incisione. Questi due vasi, per il loro carattere artistico peculiare dell'arte tolemaica dell'Egitto, possono testimoniarci quale fosse la maniera del niello ad Alessandria, prima che venisse a contatto con l'arte dell'Asia Minore. Più vicina alla decorazione di alcuni pugnali micenei, con l'incrostazione assistita dal niello, è la decorazione della pisside di Vaison del Louvre, oggetto probabilmente dovuto all'influenza dell'arte ellenistica attraverso Marsiglia e appartenente già all'epoca imperiale; rappresenta degli amorini che dànno spettacolo davanti a Venere della morte di Adone; gran parte dei nudi delle figure sono d'argento incrostato sul bronzo, mentre le vesti e le ali degli amorini e qualche altro particolare sono, sia incisi direttamente sul bronzo, sia incrostati in niello. In un puntale di guaina di spada romana (probabilmente d'un ausiliare romano seppellito a Colonia) conservato nel Museo di Magonza, cogliamo l'ultimo momento dell'evoluzione di questa tecnica ad agemina e niello mescolati. Il puntale è a disco, e da una parte ha un disegno geometrico a fogliette intrecciate, con incrostazioni di sottili lamine auree battute, in cui il niello è riservato solo per qualche particolare punteggiato, dall'altra parte, invece, come sulla costolatura laterale del puntale, vi sono delle ghirlande di lauro e di edera in solo niello: la tecnica trascurata e rigida mostra l'ultimo impoverimento dell'arte in questo oggetto provinciale. Da questo momento si può dire che le due tecniche battono strade diverse.
Fra tutti i tesori romani di oggetti d'argento, il niello appare soltanto su alcuni oggetti del tesoro di Hildesheim, dove è impiegato per le ghirlande che cingono le pareti di alcune coppe di una tazza bassa e l'orlo di un grande vaso a kantharos. Più tardi ancora perdura l'incrostazione unita al niello in ambiente ellenico com'è dimostrato da una bellissima tazza del Museo nazionale di Atene, di cui pure diamo la riproduzione. Questa bassa tazza, purtroppo in cattivo stato di conservazione, è fatta parte di rame e parte d'argento, e conserva nel mezzo un leggiadro e adorno emblema, e su una fascia rotonda tutto attorno delle scene figurate con le dodici imprese di Eracle e con Eracle nel thiasos dionisiaco (fig. 6); per il carattere e la trattazione dei soggetti figurati il monumento può essere datato nella seconda metà del sec. II d. C.; soprattutto nelle scene figurate del contorno della tazza si può notare la combinazione dell'incrostazione, che forma la maggior parte delle figure, col riempimento del niello per alcuni particolari incisi. Si ricollegano alla tecnica dell'agemina anche le numerose statue di bronzo di qualunque dimensione in cui i capezzoli, le labbra, gli occhi, le bende, gli orli delle vesti sono d'altro metallo, inseriti. Questa tecnica fu in grande favore nella tarda arte ellenistica, e Pompei ne ha dato magnifici esempî.
L'agemina fu praticata largamente anche alla corte bizantina (rivestimento delle pareti della chiesa dei Ss. Apostoli a Costantinopoli, fatta costruire da Costantino; e di quelle dell'oratorio del Salvatore costruito da Basilio; porte di bronzo ageminato d'argento per la basilica di San Paolo in Roma), e fu nota anche ai barbari. In epoca anteriore ai Carolingi si trovano fermagli di cinture e fibbie circolari di ferro, dove l'argento e il rame sono stati così adoperati per la caratteristica decorazione germanica di nastri intrecciati e per quella sempre più diffusa di motivi animali fantastici. In Italia nel Medioevo essa si propagò soprattutto su modelli orientali e bizantini (porte, candelieri, cofanetti), che si trovano tuttora in luoghi anche remoti; ma pochi oggetti possono dirsi sicuramente di fattura locale anziché importati: tali le porte di bronzo ageminate di croci e di epigrafi argentee fatte collocare nell'oratorio di San Giovanni al Battistero lateranense da papa Ilario (461-468), di cui recano il nome (fig. 7) e, più tardi, le imposte del mausoleo di Boemondo a Canosa, di Ruggero da Melfi, con incrostazioni d'argento in qualche parte delle figure, e quelle della cattedrale di Troia pure ageminate d'argento: del 1119 quelle della porta principale, del 1127 quelle di una porta minore, del beneventano Oderisio: le une e le altre composte su modelli bizantini (tavv. CXLIX, CL).
Nei ferri italiani del Rinascimento è l'ageminatura (detta anche gelmina, gemina, algeminia, azzimina) quella che determina l'effetto decorativo. Essa fu esercitata e perfezionata insieme con lo sbalzo e con l'incisione soprattutto dagli armaioli spagnuoli e milanesi fin dal principio del '400 nelle principesche armature di parata e negli scudi, e dopo la metà del sec. XVI introdotta anche nelle decorazioni dei mobili di lusso (stipi milanesi nei musei di Londra, Milano e Vienna: in quest'ultimo, uno di Giuseppe de Vicis del 1567; una tavola da giuoco nella collezione Soltykoff-Hamilton; uno specchio nel museo di South-Kensington; una Pace con rappresentazione della Pietà nel museo Poldi-Pezzoli a Milano). Fra gli artisti milanesi di quel tempo si nominano Giov. Pietro Figino, Bart. Piatti, Francesco Pellizzone e Martino Ghinello; l'orefice Carlo Sovico, Ferrante Bellino e Pompeo Turcone artefici del ferro; Giovanni Ambrogio tornitore; Filippo Negroli, armaiolo citato come ageminatore dal Vasari; Ant. Biancardi, Bernardo Civo, Antonio Federico e Lucio Piccinini (armature farnesiane) e Antonio Romero (armature per Alfonso II d'Este); inoltre Serafino, armaiolo a Brescia verso il 1320; Giorgio Ghisi di Mantova. Anche Benvenuto Cellini si esercitò da giovane in tali lavori; egli ci dice che vi eccellevano i Lombardi, i Toscani e i Romani; quelli nel riprodurre l'edera e la vite, questi l'acanto e gli animali.
Anche a Venezia si fecero piccoli lavori di ferro di tal genere, senza rilievi, per lo più solo con fini viticci e arabeschi (manichi di coltelli; una cerniera, forse per una borsa di cuoio, nel Castello Sforzesco di Milano; un paio di forbici dalla collezione Spitzer nel Museo austriaco). Il cofano d'acciaio della collezione Trivulzio con rappresentazioni geografiche ageminate d'oro reca il nome di un Paulus ageminius, che si è creduto d'identificare con Paolo Rizzo veneziano. A Venezia si fecero pure oggetti di rame dorato, d'ottone o di bronzo, decorati con incisioni e con ageminature d'argento (oggi per lo più scomparse) nel gusto musulmano; essi portano le firme di artisti veneziani e armi di famiglie della regione, e formavano parte non indifferente del corredo casalingo, come si rileva dalle rappresentazioni figurate e dagl'inventarî. Per lo più sono coppe e bacili, preferibilmente di piccole dimensioni, bruciaprofumi di forma semisferica con coperchi piatti traforati, o in forma di globo traforato e destinati ad esser appesi, candelieri a corto fusto e largo piede anulare, boccali e grandi scodelle piatte, di cui una bella serie è nel British Museum. I più antichi esemplari, orientali di stile e di tecnica, sono evidentemente opera di artefici musulmani stabiliti in Venezia (si conosce, p. es., il nome d'uno di essi, Mahmūd ibn al-Kurdī), a cui s'aggiunsero Greci delle isole o della costa orientale dell'Adriatico. Alla fine del '400, i motivi decorativi si fanno sempre più occidentali e frammisti di elementi gotici; nel '500, la composizione è sempre più pervasa dallo spirito della Rinascenza, i motivi vegetali soppiantano quelli ad intreccio, l'incisione prevale sull'intarsio, e finiscono col prevalere i motivi figurati (p. es. ritratti d'imperatori romani) e mitologici. Sono della metà del '500 quell'Orazio Fortelezza di Sebenico, che ha firmato uno di tali oggetti esistente a Londra, e quel Niccolò Rugina di Corfù, di cui si hanno opere a Londra e nel Museo austriaco di Vienna. Poi la tecnica andò trasformandosi, e si limitò a riempire il fondo di linee sottili o di arabeschi. Fuori d'Italia, nel Rinascimento, l'agemina si adoperò soprattutto nelle armature. In Francia, sotto Francesco I, la usò Jean Duvet orefice a Digione nel 1529; sotto Enrico IV, Cursinet spadaio a Parigi. Più tardi, specialmente nei paesi tedeschi, la si adoperò per oggetti piccoli, come scatole, posate, fibbie, impugnature di bastoni.
Nei paesi musulmani l'ageminatura d'oro e d'argento fu usata, insieme con la decorazione incisa, per abbellire vasi di bronzo, ottone, rame, e lavori di ferro. Gli oggetti così decorati, per lo più d'ottone, venivano chiamati bronzi di Mossul (dalla città sul Tigri presso cui erano miniere di rame), sebbene non provenissero solo da questa città, ma anche da Damasco, da Aleppo, dall'Egitto: la tecnica sembra essersi sviluppata in contatto con l'oreficeria sassanide in Mesopotamia, donde passò in Persia e nell'Occidente fino a Venezia. Il metallo adoperato per l'ageminatura è di preferenza l'argento, più raramente il rame rosso, più tardi anche l'oro. Secondo il disegno inciso finemente si praticavano le incassature del metallo, facendovi dei piccoli fori ad angoli vivi nei contorni, che servivano a fissar meglio le laminette di metallo nobile, quando vi venivano picchiate a martello. L'inserzione del filo d'argento sulle cavità predisposte si faceva secondo linee semplici; tutti i particolari venivano eseguiti successivamente, incidendo la superficie dell'argento. In un primo tempo si usava anche riempire il fondo appositamente incavato con una sostanza nera, che nascondeva il colore dell'ottone e aumentava lo splendore dell'argento, come ci appare da un gruppo di bronzi che precedono le ageminature dell'epoca migliore, con semplice decorazione incisa e con forti rilievi a sbalzo o di getto, di forme gravi e massicce (boccali ad ansa, sostegni a tripode, candelieri, mortai, ecc.).
La tecnica dell'ageminatura si afferma nel secolo XII e XIII. I bronzi di Mossul si diffondono assai presto in Occidente, specialmente a Venezia, e sono caratteristici per le rappresentazioni figurate che li abbelliscono. Centro notevole di esportazione e di fabbricazione di tali oggetti doveva esser Damasco (si conosce il nome di un artista di Mossul, al-Husayn, che lavorò a Damasco nel 1259 un'idria per il sultano Yūsuf, ora al Louvre); ma anche in Persia nel sec. XIV e nel XV si esercitò con straordinaria finezza questa tecnica, e vi durò a lungo, pur peggiorando nello stile e nell'esecuzione, mentre rimase rara e semplice nel Marocco. In India e nel Kashmir nel '600 e '700 si trovano ancora rari esempî di oggetti di rame con qualche decorazione ageminata. Da Damasco appunto si diffusero a Venezia, ove presero il nome di damaschini. A Damasco si fabbricarono anche armi ageminate d'oro; l'ageminatura d'oro o d'argento è generalmente frequente nelle armi musulmane, e se ne possono citare esempî cospicui in un casco col nome di un sultano musulmano d'Egitto del sec. XV, ora al Louvre; nella lama di una spada di Emanuele Filiberto nell'Armeria di Torino; in quelle damaschinate in oro o in argento delle provincie orientali della Persia, che rivelano influssi mongolici non scevri di elementi cinesi (Armeria di Monaco), e in quelle anche del sec. XV di fabbrica ispano-moresca, specialmente di Granata, come la daga appartenente all'abito dell'ultimo re Boabdil. I Turchi fabbricarono sciabole e lame d'acciaio curve, così decorate (una, del sec. XVI, nel Louvre), e gl'Indiani raggiunsero anch'essi in tal genere notevole bellezza di esecuzione. In Persia l'ageminatura d'oro appare nei ferri musulmani del sec. XVII e anteriori (custodie d'amuleti della collezione Sarre, ornati di cintura del Louvre), mentre nei secoli XVIII e XIX vi si aggiunge una ricca decorazione incisa. Per il niello nell'arte medievale e moderna v. niello.
Bibl.: M. Rosenberg, Niello bis zum Jahre 1000 nach Chr., Francoforte s. M. 1924; G. Möller, Die Metallkunst d. alten Aegypter, Lipsia 1925. Sulla tazza di Midea v. Art a. Archaeology, XXII (1926), fig. a p. 237; Archäol. Anzeiger, 1927, p. 371, fig. 5. Per le statue di Takuscit e di Karomama cfr. Fr. v. Bissing, Denkm. aegyptischer Skultpur, Monaco 1914, n. 59, ed E. Chassinat, in Monuments Piot, IV (1897), p. 15 segg.; H. Lavoix, Les azziministes in Gaz. des Beaux-Arts, XII, (1862), pp. 64-74; J. Labarte, Histoire des arts industriels au Moyen Age et à l'époque de la Renaissance, 2ª ed., Parigi 1872-1875, III; G. Lehnert, Illustrierte Geschichte d. Kunstgewerbes, Berlino s. d.; G. Migeon, Man. d'art musulman, 2ª ed., Parigi 1927.