GERALDINI, Agapito
Nacque ad Amelia, presso Terni, intorno alla metà del XV secolo, figlio del conte Bernardino e di Persia Cresciolini. Fu educato dalla madre dopo che nel 1458 Bernardino entrò al servizio di Ferdinando I d'Aragona, e fu avviato alla carriera ecclesiastica sulle orme degli zii vescovi Angelo di Sessa e Giovanni di Catanzaro.
Dopo una prima istruzione impartitagli dal maestro Grifone di Amelia, proseguì gli studi all'Università di Perugia e in seguito ricevette la prima tonsura. Il 18 giugno 1479 Sisto IV gli concesse un canonicato, primo di una serie di benefici ecclesiastici amerini che lo portarono in breve al grado di vicario del vescovo; andò quindi a Roma alla scuola di Pomponio Leto e, trentenne, a Napoli dove il padre si adoperava per procurargli un vescovato. A tal fine ritenne preferibile il soggiorno a Roma, sicché vi si stabilì profittando del posto di segretario del cardinale Ph. Hugonet, grazie al quale godette di un canonicato a Liegi e, a partire dal 1482, del titolo di abbreviatore delle lettere apostoliche. Legatosi a personalità come P. Cortesi, G. Vera e S. Ciminelli (Serafino Aquilano, di cui sarà l'esecutore testamentario), entrò a far parte della cerchia di letterati riuniti nell'Accademia romana e nello stesso tempo, grazie agli antichi legami della propria famiglia con i Borgia, della corte di Alessandro VI. Ciò non gli impedì di tornare spesso ad Amelia, per seguire da vicino gli affari della famiglia, la cui cura, espressa attraverso la tradizionale ma prudente adesione al partito dei Colonna, fu sempre il primo dei suoi pensieri.
Il G. si trovava a Napoli nel 1494, quando la paura dell'imminente calata di Carlo VIII lo indusse a riparare a Roma, e l'aperta ribellione dei Colonna al papa a rifugiarsi ad Amelia. I suoi concittadini, del resto, si erano schierati dalla parte di Alessandro VI a causa dell'odio verso Bartolomeo d'Alviano, che era al servizio della famiglia romana e desideroso di espandere i suoi possedimenti nella valle del Tevere a danno del territorio del Comune umbro.
La ritirata di Carlo VIII, nel 1496, riavvicinò Alessandro VI agli Spagnoli e ne dirottò l'ostilità contro gli Orsini (alle cui dipendenze era passato l'Alviano) sicché il G., pur restando colonnese, poté lavorare nella segreteria papale. Nel giugno 1497 Alessandro VI lo segnalò come segretario per il cardinale Giovanni Borgia, legato di Perugia e dell'Umbria. Grazie alla militanza di Amelia sotto le bandiere della Chiesa contro l'Alviano, il G. ottenne che fosse conservato alla città il possesso del castello di Lugnano, dietro versamento di una cospicua somma di denaro alle casse papali.
Nel 1498 riuscì, dopo una lunga mediazione e spalleggiato da tutta la sua famiglia, a ristabilire la pace, seppure solo per qualche tempo, tra i Colonna e gli Orsini, in un patto che il 6 agosto impegnò anche gli Amerini e i recalcitranti Alviano. A luglio cedeva poi il suo posto di segretario del cardinale Borgia a B. Orsino per passare a quello di capo della segreteria di un altro Borgia, Cesare, che aveva appena rinunciato al cardinalato per prendere il posto del fratello, ucciso il 14 giugno 1497, nei progetti del papa. Il G. rimarrà con Cesare Borgia per cinque anni, come un fidato consigliere, seguendone l'avventura fino alla fine e firmandone tutte le lettere più importanti. Cominciò, nell'autunno del 1498, organizzando il viaggio del Borgia in Francia, compiuto - in cambio dell'annullamento del matrimonio di Luigi XII con Giovanna di Valois e un cappello cardinalizio per l'arcivescovo Georges d'Amboise - per infeudarsi del Valentinois e concludere un matrimonio regale. La trattativa fu più lunga e difficile del previsto, giacché alla fine il Borgia dovette rinunciare a Carlotta d'Aragona, ma trovò una valida sostituta in Carlotta d'Albret, sorella del re di Navarra. Il G. fu testimone della cerimonia nuziale, il 10 maggio 1499 a Blois, e della successiva nomina, per conto del "duca Valentino", di C. Sexte a luogotenente per l'amministrazione dei possedimenti francesi.
Il 6 ott. 1499 il G. entrò a Milano insieme con il Borgia e il re di Francia Luigi XII, quindi seguì il duca nella guerra di Romagna, per fissare la sede della sua segreteria nella città di Cesena, conquistata dal duca il 23 genn. 1500. Ma il ritorno di Ludovico il Moro a Milano lo obbligò a occuparsi del governo della Romagna dai palazzi vaticani, inserendo nell'amministrazione di quella provincia alcuni ecclesiastici che facevano parte del seguito del Valentino, come il governatore di Cesena mons. G. Oliviero. Egli stesso, poi, acquistò per 500 fiorini d'oro l'arcivescovato di Manfredonia, il 4 giugno. La sua occupazione preferita era comunque la frequentazione dell'Accademia, in casa di P. Cortesi, accompagnato da un piccolo seguito di amici eruditi amerini: il generale dei francescani E. Delfini e il medico C. Clementini, che gli dedicherà il suo trattato sulle febbri. Aveva fama, secondo le parole di V. Calmeta (Vita…, p. 13), di "homo e per dottrina e per actioni mondane venerando".
In estate, a causa dei riflessi amerini sulla rinata rivalità tra Orsini e Colonna, il G. perse il fratello Piergiovanni, ucciso in una faida. In ottobre ripartì per la Romagna al seguito del duca, che lo inviò in missione a Firenze, dopo la presa di Faenza.
Il Borgia contava di attaccare prima o poi anche i Fiorentini, ma non era ancora in grado di farlo, anche perché questi erano protetti da Luigi XII, suo alleato. Cosicché il G. si limitò a destinare alla Signoria uno sprezzante discorso pieno di biasimo sulla follia di Firenze che osava opporsi alla Chiesa, concludendo con una richiesta di versamento di 36.000 ducati, accettata dalla città il 15 maggio 1501 sotto forma di una condotta militare per il Borgia.
In realtà, i Fiorentini volevano solo prendere tempo, e il duca, dal canto suo, fidava proprio in un mancato pagamento come futuro pretesto per potersi rivalere contro di loro. Tale tattica di esplicite minacce e compromessi finanziari sarà la caratteristica di tutte le ambascerie del G. fatte, in nome del Borgia, a chi mostrava di voler resistergli, mentre delle città che gli aprivano le porte lodava la perspicacia dimostrata, come avvenne nella presa di possesso di Fano, il 22 luglio.
Più difficile fu seguire il Borgia nell'assedio di Capua: il G. andò a fronteggiare i due antichi protettori della sua famiglia, gli Aragonesi di Napoli e Prospero Colonna. La sconfitta dei Colonna spinse il papa a rivalersi sui loro alleati, tra i quali Amelia, che venne pesantemente multata. Per difendere la sua città e i suoi beni il G. dovette negoziare con la Curia una riduzione della somma richiesta. Alessandro VI alla fine accettò di portarla da 5000 a 3000 ducati, che il Comune terminerà di pagare solo al tempo di Leone X. Inoltre dovette far sì che il Comune di Amelia, oltre a colmare di doni ogni Borgia in transito per il suo territorio, revocasse le alleanze precedenti per accettare, in settembre, la protezione del duca e, ancora una volta, senza rompere i rapporti con Prospero Colonna.
A Urbino e, nuovamente, in Romagna nel 1502, il G. incontrò N. Machiavelli, inviato per due volte presso il Borgia per conto della Repubblica fiorentina, e fece amicizia con lui. Il G. colse nel segretario fiorentino un'attenzione verso la figura di Cesare Borgia che oltrepassava i doveri del suo ufficio di ambasciatore, e la volle sfruttare per rassicurare Firenze (cui i rapporti inviati dal Machiavelli, infatti, non piacquero) parlandone a lungo con lui nei termini migliori possibili, "soggiungendo, che di una fortuna verde a questo modo si debbe pur far qualche conto" (N. Machiavelli, Legazioni…, VII, p. 32).
Da parte sua il Machiavelli lo riempiva di domande, non solo circa la politica del duca su Firenze, ma soprattutto sulle idee del Valentino dopo la ribellione dei suoi capitani. Tanto fece che alla fine il G. arrivò, con una certa imprudenza, a confidargli che le capitolazioni di pace con loro (gli farà leggere anche quelle concluse con Giovanni Bentivoglio) erano patti tali che "insino a li putti se ne debbono ridere" (ibid., p. 81). Naturalmente non gli accennò nulla del piano che il Borgia stava mettendo a punto, insieme con lui, per punirli a Senigallia. Invece, d'accordo con il duca, approfittò della confidenza concessa al Machiavelli per spingerlo a segnalare alla Signoria che sarebbe stata molto gradita l'elezione di un nobile amerino a giudice della lana.
Dopo l'eccidio dei congiurati, il G. preparò la versione ufficiale dell'accaduto (lo spiegava imputando ai capitani la volontà di sopprimere il Borgia, costretto ad agire per legittima difesa) e la inviò al doge veneziano Leonardo Loredan, in Amelia e in altre città.
Il G. era all'apice della notorietà e aveva aggiunto numerosi altri benefici al suo patrimonio. Nel gennaio 1503 fu nominato commissario di Perugia, abbandonata dai Baglioni, e ambasciatore a Siena, dove quasi restò vittima di un tumulto antiborgiano, ma ottenne comunque l'allontanamento di Pandolfo Petrucci e un donativo di 60 ducati, contro i 100.000 richiesti. A Roma, dopo la presa di Ceri, rassicurò l'ambasciatore di Venezia A. Giustinian sulle intenzioni pacifiche del duca e presenziò, il 7 apr. 1503, alla sottomissione di G. Orsini al papa. In giugno, a Cesena, cominciò a funzionare la Rota di Romagna, l'organo ideato per curare l'amministrazione di quelle terre, la cui presidenza fu affidata ad Antonio di Monte San Savino.
L'improvvisa morte del papa in agosto, in coincidenza con la malattia del duca, rovinò i Borgia. Il G. fece del suo meglio per difendere il Valentino infermo, riuscendo a convincere il Sacro Collegio a rinnovargli la carica di gonfaloniere della Chiesa il 22 agosto, a ottenere il "perdono" del duca di Urbino Guidubaldo I di Montefeltro e - sfruttando i buoni rapporti con Prospero Colonna - a impedire un'alleanza tra questa famiglia e gli Orsini (ricordando al Colonna la promessa di matrimonio tra il figlio di Lucrezia Borgia e Alfonso d'Aragona, Rodrigo, e una principessa della sua casa e promettendogli la restituzione delle terre che gli erano state confiscate).
Ciò indusse i Francesi a credere che il Borgia si fosse volto alla Spagna, dando loro una ragione in più per abbandonarlo - quando effettivamente lo farà - dopo la battaglia del Garigliano. Fino alla morte del papa Pio III (18 ott. 1503) la situazione sembrava in realtà positiva, ma il G. non riuscì a persuadere il duca, da poco ristabilitosi, che sarebbe stato meglio andare subito in Romagna, dove aveva ancora forze disponibili, piuttosto che restare a Roma per influire sulla scelta del nuovo pontefice, che infine cadde sul suo nemico Giuliano Della Rovere, Giulio II.
Il G. chiese più volte al nuovo papa un breve che autorizzasse la partenza del duca, ma Giulio II riteneva di aver già concesso molto al Borgia lasciandolo in vita. Quando il Valentino si recò a Ostia, da dove sarebbe partito per Napoli, il G. rimase a Roma, secondo il Machiavelli "per non partecipare della sua cattiva fortuna" (N. Machiavelli, Legazioni…, VII, p. 311), più probabilmente perché non era più in grado di operare in suo favore.
Giovandosi della protezione dei Colonna, il G. si ritirò nella sua casa romana di Borgo S. Pietro e, durante i mesi estivi, in quella di Amelia, nella vana attesa del suo signore. Nel 1506 rinunciò al vescovato e, negli anni seguenti, a molti benefici la cui amministrazione era ormai diventata troppo faticosa. Nel settembre 1512 accolse ad Amelia Prospero Colonna, dopo aver ristabilito l'alleanza della città con quella famiglia nella persona del cardinale Pompeo, nuovo protettore.
Il G. morì nella prima metà del luglio 1515 ad Amelia, e fu sepolto nella cappella Geraldini della chiesa di S. Francesco. Ricordandone la fedeltà, Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara, in quello stesso anno indusse il cardinale Ippolito d'Este a concedere i benefici della sua diocesi di Capua a un nipote del G., per "la servitù della bona memoria de messer Agapyto".
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