TERENZIO, Afro Publio (P. Terentius Afer)
Poeta comico romano. Notizie biografiche, evidentemente non tutte documentarie, ci fornisce la vita di Svetonio preposta al commento cosiddetto di Donato. T. nacque a Cartagine, ma non era fenicio, bensì afro, dunque probabilmente berbero. Non si sa qual caso lo portasse a Roma, servo del senatore Terenzio Lucano, il quale lo manomise. Ancora in giovane età compose e fece rappresentare sei commedie, tutte conservate: Andria (la donna di Andro), Hautontimoroumenos (il punitore di sé stesso), Eunuchus (l'eunuco), Phormio (Formione), Hecyra (la suocera), Adelphoe (i fratelli). Poi partì per un viaggio di studî in Grecia e in Asia, durante il quale scomparve. La data della sua morte è evidentemente indotta dall'ultimo apparire del suo nome nei commentarî dei magistrati (v. sotto), 160 o 159; per l'anno della nascita mancavano evidentemente documenti.
T., berbero e libertino, grazie al successo teatrale acquistò tali mezzi di fortuna che la sua figliola poté andare sposa a un cavaliere, e grazie all'ingegno entrò, che è ben più, in strette relazioni con la migliore società romana. Nei prologhi egli fa vedere che non gli dispiace che si sospetti collaborazione alle sue commedie di nobili, i quali godevano di grande popolarità. Tali dicerie non erano probabilmente se non maldicenza, sia pure lusinghiera per il poeta, ma provano a ogni modo che con uomini di tali famiglie T. aveva veramente stretto amicizia. Chi fossero costoro, è impossibile dire: piuttosto che Lelio e Scipione Emiliano, troppo giovani, uomini della generazione anteriore, C. Sulpicio Gallo, Q. Fulvio Labeone, M. Popilio, come suppose già un grammatico dell'ultima età repubblicana, Santra.
La cronologia delle commedie di T. pareva sicura, finché si prestava fede senza restrizioni alle "didascalie", cioè alle notizie premesse da grammatici a ciascuna commedia e ricavate in grandissima parte da protocolli ufficiali. Da queste didascalie si ricavava una tabella cronologica, che è quella riportata ancora generalmente nei manuali: 166, Andria ai ludi Megalenses; 165, primo tentativo di rappresentazione dell'Hecyra, ai medesimi; 163, Hautontimoroumenos, ai medesimi; 161, Eunuchus ai medesimi; Phormio ai Romani; 160, Adelphoe e secondo tentativo di rappresentazione dell'Hecyra ai ludi funebres di Emilio Paolo; terza rappresentazione dell'Hecyra probabilmente ai Romani. Ma studî recenti mostrano che gli accenni alle vicende dei drammi, contenuti nei prologhi, che sono tutti polemici, non si accordano bene con queste date. S'intravedono del resto le ragioni che possono avere indotto in errore i grammatici redattori delle didascalie: dell'Hecyra sono testimoniate da T. stesso almeno tre rappresentazioni, delle quali due non condotte a termine per il contegno del pubblico; due rappresentazioni sono sicure per l'Andria, sicché è possibile o probabile che ve ne siano state anche per altre commedie. I grammatici non avranno sempre distinto bene tra prima rappresentazione e ripresa, tanto più che su rappresentazioni tenute a festività private gli archivî potevano non fornire materiale o essere inaccessibili. La cronologia delle commedie di T. appare quindi ora molto meno sicura che non si creda generalmente. C'è chi (Gestri) ha supposto un ordine: Hecyra (1a, 2a 3a, rappresentazione), Andria, Phormio, Eunuchus, Hautontimoroumenos, Adelphoe. Altri (Blum) stabilisce la seguente tabella: 166, Andria I; 165, Hecyra I; tra il 165 e il 163, Hecyra II, III; Andria II; Phormio; 163, Hautontimoroumenos; 161, Eunuchus; Hecyra IV; Adelphoe, Hecyra V. Gli studî appaiono, quanto alla cronologia, appena incominciati.
I modelli di Plauto appartengono alle più svariate correnti della commedia nuova; Terenzio prende i modelli principali di ciascuna delle sue commedie solo da due autori, Menandro (per 4 commedie) e un suo imitatore piuttosto fiacco, Apollodoro Caristio, per le due rimanenti (Phormio e Hecyra). Questo contrasto ha ragioni profonde ed evidenti: a Plauto i modelli importano soltanto quale materiale per un'opera nuova, improntata del suo marchio di fabbrica. Terenzio ha interesse per le commedie greche in sé; egli è non esclusivamente ma già prevalentemente traduttore, traduttore nel senso che si foggia uno stile, proprio sì ma adeguato a quello dei modelli. Chi traduce così, non può scegliere se non autori che non siano troppo lontani dal proprio spirito. Lo stile di Plauto è caratterizzato dall'un canto dall'abbondanza d'immagini comiche e scurrili, dall'altro dalla ricchezza di effetti fonici, estranee tutt'e due, anzi si direbbe opposte all'arte dei suoi originali, la quale, tranne in passi altamente patetici, predilige una dizione che fa pensare alla conversazione di persone urbane. A Terenzio dispiace in Plauto il contrasto tra lo stile verbale, tutto punte, e i caratteri, che, nonostante le deformazioni cagionate dai tagli, dalle aggiunte, dalla contaminazione, sono rimasti essenzialmente quelli della "commedia nuova", "biotici", psicologistici. Egli restaura, a spese della vivacità, l'unità creando un equivalente romano allo stile di Menandro: che noi non ci illudiamo, riconoscendo in Terenzio un tono altrettanto lontano dall'affettazione quanto dalla trascuratezza, naturale e comodo senz'essere triviale, quale correva allora nella conversazione dei più colti tra i Romani, confermano appunto quei sospetti di collaborazione di nobiles di cui dicevamo: al pubblico di allora, avvezzo a Plauto e ai suoi successori, quello stile faceva dunque la medesima impressione che a noi; solo sembrava a esso impossibile, e anche a noi pare un miracolo, ch'esso fosse creazione autentica di uno schiavo africano. Con ciò noi non asseriamo che di Terenzio sia caratteristica l'unità assoluta di tono, che del resto è altrettanto aliena dall'arte di Menandro: nei prologhi, aggiunte agli originali nelle quali Terenzio difende l'opera propria contro emuli malevoli, ma del pari dovunque i personaggi non più parlano ma orano, il tono si eleva, come si elevava in Menandro. In Menandro l'innalzamento del tono significa avvicinamento alla tragedia: in Terenzio ritorno allo stile consueto della commedia romana, che è quello di Plauto, ma che anche Plauto ereditò da una tradizione più antica e più augusta, quella del carmen romano: dicola, tricola, tetracola asindetici, rilevati spesso da figure, particolarmente allitterazione. Quest'aspetto dello stile di Terenzio sembra sinora troppo poco considerato.
Con questo studio di adeguazione stilistica si riconnette un'altra particolarità: Plauto nelle sue riduzioni aveva trasformato la commedia nuova in melodramma; nulla in lui è più caratteristico, più originale, più bello dei cantica. Terenzio non ha quasi parti veramente meliche se non, poche e brevissime, nell'Andria e negli Adelphoe. Il resto dei suoi cantica è costituito dagli stessi metri di cui sono formate le parti stichiche: senarî giambici, settenarî trocaici e giambici, ottonarî giambici, cosparsi però di qualche ottonario trocaico e di versetti giambici e trocaici. E non ci si può sottrarre all'impressione che anche queste modestissime parti liriche siano concessione al gusto del pubblico, avvezzo alla polimetria plautina. E ben poco è rimasto anche dei fuochi d'artificio stilistici di cui Plauto nelle parti liriche fa tanto sfarzo. Anche qui un'arte tanto continente da apparir grigia: se Terenzio si fosse potuto liberare dalla tradizione, egli avrebbe seguito del tutto i modelli greci anche nella mancanza di elementi lirici. I posteriori, Turpilio e i poeti delle togate, non lo hanno seguito su questa via.
Ogni traduttore tende a lisciare e ad annacquare: Terenzio, se si legge senza ripensare agli originali, apparirà grazioso, se pure alla lunga un po' tedioso. Nei passi dove il confronto con gli originali, grazie a citazioni, è possibile, vediamo chiaro che egli toglie loro forza, cancellando parecchie di quelle immagini dalle quali non rifugge alcuna conversazione per quanto urbana, sopprimendo particolari, e allargando d'altra parte quello che negli originali era detto con efficace brevità; ma un traduttore, per coscienzioso che sia, è condannato a essere più pallido del suo modello.
Del resto Terenzio non ha voluto compiere ufficio soltanto di traduttore. Rinnovando una consuetudine plautina, caduta ormai in disuso ai suoi tempi, T. contamina, introduce cioè scene prese da un originale in una commedia derivata da un altro: questo procedimento egli confessa nei prologhi dell'Andria (modello secondario la Perinthia dello stesso Menandro), dell'Eunuchus (modello secondario il Colax pure di Menandro), degli Adelphoe (modello secondario i Synapothnescontes di Difilo, di un poeta cioè che T. non adopra mai quale modello principale). Lo studio della composizione, reso possibile da parecchi richiami nel commento donatiano, mostra che T. ha combinato i modelli con grande abilità. Non si può d'altra parte negare che proprio nell'Eunuchus, per il quale si può giungere a conclusioni più sicure, la contaminazione ha sciupato la fine del dramma, dando al nodo uno scioglimento che fa torto al carattere nobile dell'eroina principale, l'etera Taide, e all'affettuosa stima che altri personaggi, nonostante la sua condizione, hanno per lei.
Oltre ai mutamenti imposti dalla contaminazione, altri ne ha resi necessarî la sostituzione dei prologhi espositivi degli originali con prologhi polemici. Ma T. ha mutato qua e là anche per altre ragioni: e non intendiamo parlare soltanto di cancellazione di usi che a un romano dovevano riuscire non solo stranieri ma difficili a intendersi, o di trasporti di sentenze dell'una commedia all'altra, ma di cambiamenti molto più radicali. L'Andria cominciava con un monologo del vecchio, la Perinthia con un colloquio tra questo e la moglie; T. sostituisce un colloquio tra il senex e un libertus, nel quale taluno ha voluto vedere un'immagine di T. stesso; e, se si deve concedere che il vecchio liberto non ha molto di comune col giovane poeta, non si può, credo, negare che le parole che il padrone rivolge a Sosia e la risposta di questo, i versi 35-45, potrebbero riflettere le relazioni tra il comico T. e il suo patrono, il senatore Terenzio Lucano. Ma è difficile andare oltre la dimostrazione delle possibilità. Nell'Eunuchus, secondo la testimonianza di Donato, T. ha inventato il personaggio di Antifonte per poter trasformare un monologo troppo lungo in prologo; ed è arbitrario ricusare questa testimonianza solo perché non si ritiene T. capace di tanta vis comica. È stato dimostrato di recente che T. anche qui inventa poco di proprio, ma cuce insieme pezzi e pezzetti dedotti da altre parti dello stesso originale (ma anche da un altro originale), certo con quell'abilità tecnica che gli è riconosciuta universalmente, ed è anzi da taluno sopravvalutata, nella contaminazione. Ch'egli potesse essere comico di vena, che disponesse di allegria di buona lega, non abbiamo alcuna ragione di negare. Volerne fare per forza un traduttore, incapace di poetare di suo, è una pedanteria schematistica, contraddetta dall'invenzione dei prologhi polemici, che sono evidentemente farina del suo sacco.
T. per certa castigatezza dell'argomento e della trattazione, per la semplicità dello stile era scrittore atto alla scuola, e fu infatti autore scolastico sia nell'antichità sia nel Medioevo. Quindi si spiega anche come il testo fosse fornito di scolî e come a esso fossero conservati due commenti, dei quali l'uno, attribuito a Donato (è commentato tutto il testo tranne l'Hautontimoroumenos) assai esteso e ricco anche di richiami al greco. Quest'opera, per noi preziosissima, non è unitaria, ma deriva da giustapposizione di almeno due serie di scolî, come mostra la condizione in cui ci è giunta la spiegazione del Phormio; quanto in essa sia rimasto dell'opera del grande grammatico Elio Donato, è difficile determinare: nell'introduzione è utilizzato il commento di Euanzio, grammatico del sec. IV. L'altro commento, che porta il nome di un Eugrafio, è di valore molto più modesto.
La tradizione di T. presenta molto interesse anche per lo studioso dell'arte dell'ultimo periodo dell'età antica; una famiglia o sottofamiglia di manoscritti medievali porta tutta una serie di miniature, il cui originale sembra, per ragioni iconografiche e stilistiche, doversi attribuire piuttosto al sec. V o forse al VI che al IV.
Ediz.: Un'edizione critica manca ancora. Largo apparato in quella di F. Umpfenbach (Berlino 1870); più recente quella di R. Kauer e W. M. Lindsay (Oxford 1926), con apparato scelto, ma ortografia e metrica spesso arbitraria (le didascalie sono qui pubblicate in modo del tutto insufficiente); migliore il testo più vecchio di K. Dziatzko (Lipsia 1884). Di edizioni commentate notevoli quella francese dell'Eunuchus a cura di Ph. Fabia (Parigi 1893); e le tedesche degli Adelphoe, a cura di Dziatzko-Kauer (Lipsia 1903), e del Phormio a cura di Dziatzko-Hauler (Lipsia 1913).
Bibl.: Quale introduzione a Terenzio servono bene, oltre alle pagine di F. Leo, Geschichte der römischen Literatur, I (232 segg.), N. Terzaghi, Prolegomeni a Terenzio (Torino 1931), e particolarmente lo splendido articolo di G. Jachmann, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V A, col. 598 segg.; dove tuttavia sembra esagerata l'abilità tecnica di Terenzio nella contaminatio, sottovalutata la sua fantasia comica.
Per la cronologia apre una nuova età l'articolo, radicalissimo, di L. Gestri, in Studi italiani di filologia classica, n. s., XIII (1936), p. 64 segg.; qualche restrizione alle conclusioni propone R. Blum, ibid., p. 106 segg.
Quanto alle relazioni con i modelli attici, il libretto d'insieme di F. Nencini, De Terentio eiusque fontibus, Livorno 1891, è ormai superato; A. Saekel, Quaestiones comicae de T. exemplar. graecis, Diss., Berlino 1914, è insufficiente; conviene consultare ricerche speciali. Per l'Andria, H. Oppermann, Hermeus, LXIX (1934), p. 262; G. Rambelli, in Studi ital. di filol. class., XIII (1936), p. 129; per la scena con il liberto F. Jacoby, in Hermes, XLIV (1909), p. 362. Per l'Eunuchus, G. Jachmann, in Nach. Gött. Gesellsch., 1921, p. 69; G. Pasquali, in Studi ital. di filol. class., XIII (1936), p. 117; U. Knoche, Nachr. Gött. Gesellsch., 1936. Per l'Hautontimoroumenos, G. Jachmann, Plautinisches und Attisches, Berlino 1931, p. 245. Per l'Hecyra, W. Schadewaldt, in Hermes, LXVI (1931), p. i. Per gli Adelphoe, H. Drexler, Die Komposition von Terenz' Adelpen, in Philologus, Supp. XXVI (1934).
Le miniature fino al sec. XII, raccolte in Jones-Morey, The miniatures of the mss. of Terence prior to the thirteenth century, Princeton 1930-31; i singoli mss. riprodotti a cura di G. Jachmann (Lpsia 1929), H. Omont (Parigi 1907), E. Bethe (Leida 1903), J. von Wageningen (Groninga 1907). Per la datazione (contro Jachmann, Geschichte d. Terenztextes im Altertum, Basilea 1924), C. R. Morey, in Rendiconti della pontificia accademia romana di archeologia, s. 3a, IV (1925-1926), p. 27; M. Montemaggi, in Rivista d'arte, XIII (1931), p. 292; G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934, p. 364.