Africanismo
Il termine 'africanismo' è antico, e per lungo tempo ha avuto significati differenti, ma più o meno legati tra loro. Il più antico uso conosciuto in inglese, per esempio, è del 1641 e si riferisce agli 'africanismi' dei primi padri della Chiesa; esso aveva a che fare, come in altri usi contemporanei, con l'esegesi delle Scritture. Il termine era già usato dai viaggiatori europei, sebbene raramente, per indicare le caratteristiche culturali africane ritenute insolite ed esotiche: questo significato divenne corrente per un certo tempo nel Nordamerica per descrivere gli africanismi linguistici degli schiavi neri.
Alla fine del secolo scorso cominciarono a emergere nuovi e diversi significati. Uno di questi, sempre più diffuso a partire dal 1920 circa, si riferisce allo studio dell'Africa da parte degli 'africanisti' (un altro neologismo) e avrà un'evoluzione lunga e fruttuosa. Intorno al 1900, inoltre, l'africanismo riappare come 'panafricanismo', sostantivo derivato da 'panafricano', e quindi riferito come l'aggettivo all'idea e al programma dell'unità continentale. Anche questo senso del termine persisterà nell'uso e avrà una lunga evoluzione. Un ulteriore significato ha avuto breve circolazione negli anni cinquanta, come quando lord Hailey, rivedendo nel 1957 il suo classico studio del 1938, consigliò l'uso di africanismo al posto di nazionalismo nel contesto africano. Ma il significato di studio umanistico dell'Africa, così come quello di unità continentale, avrebbero in seguito assorbito completamente il senso della parola, che oggi tuttavia indica per lo più una persona, l'africanista, e i frutti del suo lavoro. Un ulteriore significato di africanista, piuttosto che di africanismo, è emerso ultimamente nella politica dei Neri del Sudafrica, per indicare qualcuno che rifiuta la cooperazione politica con i Bianchi nella lotta contro il razzismo: è probabile che questo significato risulti effimero.
Hailey nel 1957 aveva qualche giustificazione per far coincidere africanismo e nazionalismo africano, dal momento che questo nazionalismo si era dimostrato inseparabile da tutta la gamma di idee e aspirazioni confluite nella spinta a trasformare le colonie africane in Stati-nazione, e perciò a determinare una valutazione nuova delle loro culture e organizzazioni sociali. Ma i primi sviluppi del termine possono essere seguiti in pratica solo attraverso la storia delle idee e delle aspirazioni del panafricanismo. Quest'ultimo ebbe origine in Nordamerica e nei Caraibi, non in Africa, e le sue prime fasi si potrebbero piuttosto definire 'pan-negrismo' o 'pan-nerismo'. I primi panafricanisti rivendicavano per i Neri d'Africa, così come per quelli d'America, un'autentica eguaglianza di diritti umani con gli altri popoli, ovvero esattamente ciò che la cultura della schiavitù e dell'imperialismo aveva negato a tutte le popolazioni nere. Queste rivendicazioni dovevano, a tempo debito, dar nuovo impulso allo sviluppo dei moderni studi africani: dell'africanismo nel suo significato moderno più comprensivo.
Le correnti di pensiero che portarono all'africanismo nel suo significato più antico, ma ancora attuale, possono essere rintracciate nelle remote concezioni relative a un continente con una propria peculiarità e perciò, in un senso ideale o mistico, unificato al suo interno: l'Africa dell'antichità, dalla quale venne 'sempre qualcosa di nuovo'. Queste concezioni sopravvissero attraverso i secoli dopo i primi insegnamenti degli storici della Grecia classica. Questi ultimi avevano affermato che 'la terra dei Neri' aveva generato la civiltà dell'Egitto dei Faraoni, e che l'Egitto, a sua volta, aveva favorito la nascita della civiltà greca: in breve, come dice Erodoto nel 450 a.C. circa, "i nomi di quasi tutti gli dei vennero alla Grecia dall'Egitto". Questo modo di vedere fu largamente accettato dagli Europei fino agli inizi del XIX secolo, più esattamente fino al 1830 circa, quando fu d'un tratto sostituito dalla nascita delle ideologie imperialiste sulla gerarchia delle razze, all'interno della quale i Neri furono collocati a un livello inferiore e addirittura subumano. La famosa tesi di Hegel del 1830, secondo la quale "ciò che intendiamo propriamente come Africa è quel suo essere non storico e non dispiegato, che è ancora tutto immerso nel grado naturale dello spirito" (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze 1966⁴, vol. I, p. 262) venne formulata, come per una logica inconscia, proprio nel momento in cui la Francia stava invadendo l'Algeria: cioè quando gli Europei cominciarono a fare agli Africani, in forma di espropriazione su larga scala, ciò che nessuna moralità esistente avrebbe permesso a un europeo di fare a un altro europeo. Di conseguenza, non si poteva ammettere che i Neri fossero umani in senso pieno; né, per estensione dello stesso atteggiamento, che l'Africa potesse aver dato vita a una sua propria civiltà.
Col sorgere della protesta contro questo razzismo da conquistatori, ci furono alcuni, in Europa o in America, che, negando quel tipo di asserzioni, arrivarono a profezie mistiche o messianiche sullo 'speciale destino' dell'Africa. Così suona una poesia del 1841: "Indescrivibili misteri del fato / coinvolgono, o Africa, il tuo futuro stato. [...] / Velata nella notte di questi tempestosi anni / un'alba di festa sull'Africa appare: / allora il suo collo libero dal giogo dell'Europa sarà, / e arti guaritrici alle orride armi seguiranno" (S. Montgomery, Poetical works, London 1841, vol. I, p. 17).
Pochi al di fuori dell'Africa, e ancor meno all'interno del continente, avrebbero potuto avere una visione come questa. Ma il tema continuò da allora a risuonare nella diaspora al di là dell'Atlantico, e fu recepito con intensità crescente verso la fine del secolo, con la diffusione nell'Africa stessa del cristianesimo etiopico e di altre comunità cristiane separatiste, le quali profetizzavano che Dio avrebbe concesso alla terra dei Neri (l''Etiopia' in senso etimologico e non nel senso della regione che chiamiamo con questo nome) quei doni del cielo che meritava in modo speciale.
Queste idee, che sono alla radice di ciò che doveva diventare il panafricanismo, erano essenzialmente chiliastiche. Si attendeva con ansia una grazia divina per cui l'Africa sarebbe stata redenta dalle sue miserie, giudicate, non senza ragione, di origine recente ed esterna. I miti del 'buon selvaggio' del XIX secolo aggiungevano a ciò i loro toni romantici. Ma dopo le conquiste coloniali e l'instaurazione dei relativi regimi, tutte queste nozioni cominciarono ad acquisire un senso molto più politico. Questa 'Africa dagli speciali destini', soprattutto quella della diaspora e dei gruppi dell'Africa occidentale e meridionale educati in Occidente, aveva bisogno della forza unita dei suoi popoli perché la giustizia e quindi l'uguaglianza potessero diventare possibili. Intorno al 1920, per esempio, le quattro colonie dell'Africa occidentale britannica (Nigeria, Costa d'Oro, Sierra Leone, Gambia) videro la nascita del National Council of British West Africa con il programma, significativo anche se vago, di preparare la strada a una federazione tra le quattro colonie, come primo passo verso qualche forma di unità continentale. In una interessante dichiarazione del 1921 il presidente di questo Consiglio, l'avvocato della Costa d'Oro J.E. Casely-Hayford, affermò che "come c'è un sentimento di fratellanza internazionale tra tutti i bianchi, tra tutti i bruni, tra tutti i gialli, così deve esserci un sentimento di fratellanza internazionale tra tutta la gente nera" (v. Sampson, 1951, p. 25).
L'idea progressivamente si rafforzò. Scrivendo al pensatore nero americano Du Bois (v. sotto) nel 1929, il sudanese (occidentale) Tiémoko Garan Kouyaté spiegò che lo scopo della appena fondata League Against Imperialism, attiva a Londra e Parigi, era "l'emancipazione politica, economica, morale e intellettuale dell'intera razza negra", con il programma finale di "fondare in Africa un grande Stato negro" (v. Langley, 1972, p. 312). Già a quel tempo, in altre parole, si era avviato un processo di sintesi di idee e atteggiamenti preesistenti, concernenti lo 'speciale destino': da questo movimento il concetto politico di africanismo avrebbe gradualmente preso corpo d'ora innanzi come cornice delle agitazioni politiche e faro per un futuro libero.
Questi furono i convincimenti che consentirono ai suoi adepti di trascurare ogni elemento di diversità e di conflitto tra le popolazioni africane. L'esperienza aveva insegnato loro, spesso amaramente, che ciò che li univa indissolubilmente, il nero della loro pelle, era molto più importante nel mondo che conoscevano di tutto ciò che poteva dividerli. Questo significato dell'africanismo, come scudo per i perseguitati e come speranza, si sarebbe conservato al di là di ogni scoraggiamento o sconfitta. Come mostrò il lavoro degli africanisti, l'africanismo avrebbe tratto beneficio da ogni nuova scoperta delle entità che erano state alla base dello sviluppo culturale dell'Africa nella storia, sia nei termini di strutture religiose che sociopolitiche, così come dall'esperienza comune a quasi tutta l'Africa della spoliazione coloniale. Esso avrebbe dato slancio ai primi nazionalisti degli anni cinquanta, e portato quindi all'Organisation of African Unity. Il panafricanismo può così essere considerato una delle ideologie creative del XX secolo.
In questa accezione il panafricanismo prese forma e si affermò attraverso una serie di convegni tra il 1900 e il 1945. Organizzato da un avvocato di Trinidad, Henry Sylvester-Williams, il primo di questi meetings riunì a Londra 32 persone di colore, delle quali sembra che solo quattro fossero nate in Africa. Per effetto di questo meeting nacque la Pan-African Association e un giornale, "Pan-African", del quale sembra sia stato pubblicato solo un numero. L'indirizzo conclusivo del meeting "alle nazioni del mondo" era scritto da un oratore e storico negro degli Stati Uniti che doveva diventare una figura di fama mondiale, William Burghardt Du Bois (1868-1963), e si apriva con un brano che doveva restare celebre: "Il problema del ventesimo secolo", dichiarava, "è il problema del colore, la questione di quanto le differenze di razza [...] diventeranno la base per negare a oltre la metà del mondo il diritto di condividere, fino al limite delle loro capacità, le opportunità e i privilegi della civiltà moderna". Du Bois convocò una seconda conferenza a Parigi nel 1919, sperando di sfruttare l'occasione della Conferenza per la pace per pubblicizzare gli scopi del movimento, che furono riassunti dai poco più di 50 partecipanti in una risoluzione che proclamava esser tali la difesa e il progresso dei "nativi dell'Africa e dei discendenti dei popoli africani"; ma a quest'invocazione di giustizia, per quanto nota alle potenze riunite a Parigi, non si prestò alcuna attenzione. Una terza conferenza si tenne a Londra e a Lisbona nel corso del 1923, e ribadì l'esigenza "che i Neri sian trattati da uomini. Non vediamo altra strada alla pace e al progresso". Nel frattempo era emerso un altro gruppo dello stesso movimento, l'Universal Negro Improvement Association (UNIA), che tenne a New York, nel 1920, una Convenzione internazionale dei popoli negri del mondo. Dominata dalla veemenza di Marcus Moziah Garvey (1887-1940, di origine giamaicana), essa lanciò lo slogan "L'Africa agli Africani, quelli in patria e quelli fuori", e per qualche anno fu popolare in Africa e nelle Americhe. Rivale naturale di Garvey per carattere e per politica, Du Bois insistette nella sua azione convocando un altro congresso panafricano a New York nel 1927, ma la spinta propulsiva del colonialismo, allora dilagante, annullò ogni sua possibile influenza.
L'ultimo dei congressi panafricani, che si tenne a Manchester, in Inghilterra, nell'ottobre del 1945 e vide la presenza di 90 delegati più altri partecipanti, si spostò su un terreno completamente nuovo. Esso portò il panafricanismo, per la prima volta ma in modo decisivo, dalla diaspora nera al continente d'origine. Du Bois era presente, come lo erano alcuni eminenti attivisti dei Caraibi quali George Padmore (1902-1959, della Guyana) e il sempre straordinario C.L.R. James (n. 1901, originario di Trinidad), ma c'erano anche leaders politici dell'Africa, compresi due che dovevano diventare presidenti di repubbliche indipendenti: Kwame Nkrumah (1909-1972) della Costa d'Oro (Ghana dopo il 1956), e Jomo Kenyatta (c. 1889-1978) del Kenya; c'erano inoltre il vecchio nazionalista della Sierra Leone I.T.A. Wallace-Johnson (1895-1965) e una forte presenza nigeriana. In questo congresso di Manchester emersero per la prima volta l'esigenza dell'indipendenza dai regimi coloniali e il nazionalismo: "Siamo determinati a essere liberi", affermarono i delegati; "se il mondo occidentale è ancora determinato a governare il genere umano con la forza, allora gli Africani, come ultima risorsa, potranno essere costretti ad appellarsi alla forza nell'impresa di conseguire la libertà".
Nel frattempo, negli anni fra le due guerre, la creazione di sistemi coloniali stabili aveva cominciato a favorire un atteggiamento meno sprezzante nei confronti dei popoli che vivevano all'interno dei confini imperiali. Ciò era ispirato in parte dalle esigenze dello studio scientifico, soprattutto nel campo dell'antropologia sociale, e in parte da un gruppo piccolo ma influente di alti funzionari coloniali dei vari imperi; in questi uomini un lungo contatto con i popoli africani aveva stimolato l'interesse e persino il rispetto per le culture indigene. In larga misura grazie a loro lo studio della storia e delle istituzioni sociopolitiche dell'Africa cominciò a sembrare possibile e persino, in teoria, auspicabile.
Importante nell'incoraggiare o rafforzare queste influenze fu la fondazione a Londra nel 1927 dell'International African Institute, finanziato generosamente dalla fondazione statunitense Rockefeller e sotto la direzione amministrativa del Ministero per le colonie britannico. Nel 1928 fu fondata la rivista "Africa", come sede per dibattiti e studi socioantropologici, linguistici, e su altri aspetti delle culture africane che, a questo punto, mutando le necessità dell'amministrazione coloniale, esigevano chiaramente una migliore comprensione. Un'iniziativa corrispondente fu lanciata in Francia nel 1931 dall'etnologo Marcel Griaule: la Société des Africanistes, subito seguita, nel 1936, dalla fondazione a Dakar di un Institut Français de l'Afrique Noire (IFAN), che avrebbe raggiunto grande importanza scientifica. Interessi simili erano presenti in Belgio, mentre un serio studio dell'Africa incontrò difficoltà in Italia, Portogallo e Germania con l'affermarsi del fascismo e dei suoi pregiudizi razziali.
Ma in generale fu solo negli anni cinquanta, quando le conseguenze della seconda guerra mondiale aprirono una prospettiva di decolonizzazione, che si delinearono le condizioni per uno studio scientifico dell'Africa. Un primo passo verso l'inserimento degli studi africani in un curriculum universitario fu fatto negli Stati Uniti nel 1947, con l'istituzione di un programma interdisciplinare in questo settore di studi alla Northwestern University; centri analoghi di studi africani sorsero subito dopo nell'Università di Boston e altrove. Lo stesso processo fu efficacemente avviato all'Università di Londra, dove l'esistente scuola di studi orientali si allargò a comprendere anche gli studi africani. Lavori pionieristici, concepiti da un punto di vista afrocentrico piuttosto che eurocentrico, furono tra i primi frutti di queste iniziative. Cominciarono ad apparire lavori di studiosi africani: a questo riguardo va menzionato lo studio del nigeriano K. Onwuka Dike sul commercio e la politica sul delta del Niger (v. Dike, 1956), in cui l'africanismo ricevette, per così dire, il suo primo riconoscimento sul piano storiografico da parte di qualcuno che era originario del continente.Intorno agli anni cinquanta, in breve, il consueto approccio eurocentrico alle ricerche sull'Africa fu in larga misura rovesciato. Comprensibilmente, questo capovolgimento di prospettiva si dovette in larga parte al lavoro degli storici, dato che era soprattutto nel campo della storia che nel passato era stata negata ogni evoluzione alla cultura africana. Il proposito non era quello di sostenere, futilmente, che la storia europea e quella africana poggiavano sulle stesse basi, ma affermare che lo studio della storia africana poteva fondarsi su valori e fonti che erano o potevano essere validi quanto quelli su cui si basava lo studio della storia europea. Con il concorso di tutti questi differenti sforzi e interessi, l'africanismo avrebbe infine raggiunto la maturità, sia come concetto che come progetto, con il primo congresso internazionale degli africanisti nel 1962.
Come abbiamo visto, gli africanisti esistevano da parecchi decenni prima di questo congresso tenuto ad Accra, la capitale del Ghana, tra l'11 e il 18 dicembre 1962. Questi primi africanisti si sono generalmente definiti studiosi di discipline umanistiche più che scientifiche, ritenendo che queste ultime non avrebbero potuto essere interamente africane nel contenuto o nella natura, mentre le discipline umanistiche avrebbero potuto trattare meglio i fenomeni peculiari dell'Africa. Più in generale, gli africanisti avevano semplicemente desiderato distinguere i loro ambiti e soggetti di studio da quelli di cui si occupavano i colleghi a loro più vicini, cioè gli orientalisti, che, a quel tempo, li avevano in qualche modo patrocinati. Questi ultimi godevano di rispetto accademico da molti decenni, tenevano congressi periodici, e avevano messo sotto la loro ala protettiva ogni studio che riguardasse, più o meno, le culture non europee a est dell'Atlantico. L'orientalistica era da tempo una disciplina riconosciuta, persino quando il termine era usato poco, come quello più recente di africanismo.
Ma verso gli anni sessanta fu largamente avvertita l'esigenza che l'africanismo cessasse di essere una semplice branca dell'orientalistica. Dato che più di venti colonie avevano ormai ottenuto l'indipendenza, e la considerazione dell'Africa e delle sue culture cresceva notevolmente presso coloro che facevano opinione nel mondo, la ricerca di conoscenze esatte o almeno attendibili sull'Africa era diventata un'esigenza pressante in Europa, in Nordamerica e ormai nell'Africa stessa. Gli africanisti dovevano perciò conquistarsi una loro propria indipendenza.Questo convincimento fu ben esposto alla sessione plenaria di apertura del congresso di Accra dal veterano fra gli africanisti americani, Melville Herskovits, che ebbe a lungo un'influenza determinante sugli studiosi nordamericani del continente nero.
Egli ribadì che "gli studi africani non devono più rimanere un'appendice degli studi orientali". "Storicamente", aggiunse, "la nostra presenza in quell'ambito di studi rappresentava una reliquia del passato, nel senso stretto del termine, [dato che] la designazione"orientalista' era usata per tutte le ricerche umanistiche che non riguardavano la cultura europea o di derivazione europea, o le società aborigene delle Americhe - materia di studio degli americanisti - e delle isole del Pacifico. Era lo stesso complesso di idee che aveva favorito l'opposizione di 'Est' e 'Ovest', qualcosa che oggi, nelle discussioni sulle relazioni tra i popoli africani e quelli dell'emisfero settentrionale, rende questa fraseologia un'assurdità geografica ' (v. Bown e Crowder, 1964, p. 31). Herskovits continuò a mettere in rilievo ciò che doveva essere un motivo conduttore del congresso, e cioè che l'africanismo, così come stavano le cose, doveva liberarsi degli atteggiamenti e approcci eurocentrici del periodo coloniale. "Il dato di fatto", proseguì, "è che la sezione africanista degli orientalisti per la maggior parte della sua esistenza ha limitato il suo interesse al Nordafrica e all'Etiopia. Si occupava soprattutto di linguistica africana e, fino al meeting di Mosca del 1960, non vi figuravano né la storia, né i linguaggi e le culture dell'Africa subsahariana". Ora che gli Africani, con la decolonizzazione, erano diventati o stavano per diventare, per la stragrande maggioranza, i soggetti della propria storia e cultura, piuttosto che gli oggetti del protettorato o della dominazione coloniale, la riduzione dello studio dell'Africa a una branca degli studi orientalistici diventava inaccettabile.
Ciò era evidente già da tempo. Molto era stato conseguito dopo la fine della seconda guerra mondiale. "Erano stati forgiati concetti nuovi delle risorse umane e materiali africane", proseguiva Herskovits. "Gli Africani erano ormai un fattore attivo nella direzione dei propri destini politici", anche se, come si poteva notare, ciò doveva ancora essere assimilato da molti europei e americani. Nell'ambito culturale, gli studiosi africani erano diventati effettivamente 'colleghi' come mai prima d'allora, e questo aveva notevolmente stimolato l'attività di ricerca nell'Africa stessa. "Prima della seconda guerra mondiale" - ricordò lo stesso oratore - "un certo numero di africani era andato all'estero per l'istruzione superiore, di solito alle università delle loro metropoli o, in alcuni casi, degli Stati Uniti e del Canada; ma questi erano solo una parte delle centinaia e poi migliaia che più tardi si riversarono nelle università e nei politecnici d'Inghilterra e Francia, nei colleges e nelle università degli Stati Uniti e, con il passar del tempo, di altre nazioni dell'Europa occidentale, e anche della Cecoslovacchia, Germania Est e Unione Sovietica, di Israele, India e Cina" (v. Bown e Crowder, 1964, pp. 40-41).
Lo status internazionale di questo africanismo moderno era rappresentato dai membri del comitato organizzatore del congresso. Oltre lo stesso Herskovits, vi erano Ivan Potekhine, dell'Istituto per l'Africa dell'Accademia delle Scienze dell'URSS, illustri africanisti della Gran Bretagna e del Belgio, e delegati e osservatori di molte altre nazioni, tra i quali, per esempio, in rappresentanza dell'Italia, lo studioso dell'Etiopia Enrico Cerulli. La principale caratteristica di questo africanismo di recente indipendenza era rappresentata dalla presidenza e dalla composizione africane del congresso e dal luogo in cui si svolse, Accra. Il congresso ricevette un valido sostegno dal governo del Ghana, allora al suo sesto anno di indipendenza. Il presidente Nkrumah, nell'indirizzo di apertura, cercò di collegare il congresso alla tradizione indigena. A tal fine egli citò le parole di uno studente Zulu (sudafricano), che 57 anni prima aveva ricevuto un premio dalla Columbia University. "L'africano", aveva detto questo studente, Isaka Seme, nel 1906, "riconosce la sua posizione anomala e desidera un cambiamento. Sta per sorgere sull'Africa il giorno più luminoso. Mi sembra già di vedere dissolte le sue catene [...]. La rigenerazione dell'Africa vuol dire che si aggiungerà presto al mondo una civiltà nuova e unica". (v. Bown e Crowder, 1964, p. 14). Tutto questo poteva suonare utopistico ed era certo eccessivamente ottimistico: tuttavia, detto da Nkrumah nel suo indirizzo all'assemblea degli africanisti del 1962, sembrò del tutto appropriato ai compiti futuri.
Il congresso fu presieduto dallo storico nigeriano K. Onwuka Dike, a quel tempo vicerettore dell'università più antica della Nigeria, quella di Ibadan. Egli era affiancato da studiosi africani il cui nome si sarebbe poi affermato e che in breve tempo sarebbero stati all'avanguardia nelle rispettive discipline. Dike sostenne il bisogno di un ampliamento della sfera degli studi africani. "A mio giudizio", egli disse, "non dovremmo escludere dalle nostre discussioni nessun soggetto vitale per la comprensione della nostra cultura, o che sia necessario allo sviluppo delle nostre risorse, umane e materiali. I delegati del mio paese riflettono quindi questo approccio più ampio agli studi africani e comprendono un biochimico, un pediatra, storici, agronomi, economisti e studiosi di scienze politiche"; egli manifestò la speranza che il congresso avrebbe "cercato di superare la divisione tradizionale tra discipline umanistiche e scienze pure".
Al di là di questi sentimenti c'era l'affermazione della necessità di uscire finalmente da quella diffusa atmosfera intellettuale e dai suoi stereotipi, che avevano così a lungo ostacolato l'approccio alle realtà del continente. Se l'africanismo - ma, di nuovo, si dovrebbe sottolineare che il termine era usato raramente - doveva realizzare il suo compito, allora, secondo Dike, doveva rinunciare, specie per quanto riguardava la storia, ai "miti superati e insostenibili" che "continuavano a dominare l'interpretazione del passato africano": come, per esempio, 'l'ipotesi camitica', di uso corrente, secondo cui "i Negri non hanno dato nessun contributo al progresso umano" e le civiltà dell'Africa sono state civiltà camitiche. Il locus classicus di questa 'teoria' in seguito screditata - e tuttavia ancora discussa all'epoca del congresso - può essere rintracciato in uno scritto di Seligman del 1930. Seligman riteneva che "non sarebbe esagerato affermare che la storia dell'Africa a sud del Sahara non è niente di più che la storia della penetrazione nei secoli, per gradi e tempi diversi, del sangue e della cultura camitica tra gli aborigeni negri e boscimani", essendo sottinteso che quest'influenza camitica, comunque evidentemente misteriosa, aveva avuto origine fuori dell'Africa, e probabilmente in Europa (v. Seligman, 1930, p. 19).
Lo stesso tema fu svolto in un altro modo dallo psicologo nigeriano T. Adeoye Lambo, i cui successi clinici in Nigeria gli avevano già procurato ampi riconoscimenti. Il suo intervento, intitolato Zone significative di ignoranza e incertezza nello studio della psicologia africana, è un altro indicatore del clima intellettuale in cui questo africanismo pervenne alla maturità. Egli esprimeva insoddisfazione riguardo alla povertà intellettuale della recente produzione di un gran numero di ricercatori non africani; al tempo stesso, però, come altri africani intervenuti, metteva in rilievo che lo studio dell'Africa doveva diventare una disciplina d'interesse internazionale. Alcuni esponenti dei recenti studi psicologici e sociologici su soggetti africani, affermava, "hanno prodotto lavori che nei casi peggiori" - e ne elencava parecchi per nome - "non sono che romanzi pseudoscientifici o aneddoti manifestamente etnocentrici; nei casi migliori" - e ne menzionava parecchi di più - "sono enciclopedie in compendio di informazioni fuorvianti [...] che contengono tante lacune ed evidenti incoerenze, da non poter più essere presentate seriamente come osservazioni dotate di rigore scientifico" (v. Bown e Crowder, 1964, p. 339). La civiltà occidentale - affermava - mostrava un grandissimo interesse per le istituzioni sociali e culturali esotiche e per le loro implicazioni psicologiche, ma in realtà dimostrava un'ignoranza profonda in materia. Uno studio inglese di soli undici anni addietro, egli ricordava, aveva potuto raggiungere la strabiliante conclusione che "la mentalità africana normale assomiglia molto alla mentalità di una parte della popolazione europea, che è comunemente definita psicopatica o sociopatica", mentre "la rassomiglianza dei pazienti leucotomizzati con gli africani primitivi è, sotto molti punti di vista, totale". Un'autentica scienza sociale doveva liberarsi di queste fantasie. A tal fine Lambo auspicò un progresso - sia quantitativo che qualitativo - delle ricerche nell'intero campo delle scienze psicologiche e sociali: e questo risultò uno dei temi centrali del congresso. La risposta l'avrebbero data gli anni seguenti.
Questa condanna delle superstizioni e dei miti etnocentrici costituì un elemento decisivo nello sviluppo dell'africanismo moderno. Se essa può sembrare oggi inappropriata, ciò dipende senza dubbio dal fatto che la mentalità del periodo coloniale è ormai lontana. Nel frattempo non vi è stata soltanto la nascita di una mentalità molto differente da quella del periodo coloniale, ma anche una vasta opera di istruzione e un nuovo lavoro di ricerca. A distanza di pochi anni dal congresso degli africanisti del 1962, lo studio umanistico e scientifico del continente si era largamente diffuso in tutte le maggiori nazioni del mondo e in un numero notevole di paesi minori, in particolar modo dell'Africa stessa. In Africa le poche scuole secondarie e i due o tre colleges universitari ereditati dai regimi coloniali verso l'inizio degli anni sessanta si moltiplicarono rapidamente e, per la maggior parte, con risultati positivi. I loro corsi di studio diedero nuovo e largo spazio agli interessi africanistici.
Vennero scritti nuovi libri di testo per le discipline umanistiche e, progressivamente, anche per quelle scientifiche; fu creato un gran numero di facoltà corrispondenti. Questo sviluppo si ebbe parallelamente all'ulteriore decolonizzazione del continente che, negli anni ottanta, aveva raggiunto e influenzato più o meno profondamente ogni nazione africana salvo la Repubblica del Sudafrica, dove il pregiudizio razzista dominava in modo marcato il sistema educativo, sia per i Bianchi che per i Neri. Anche fuori dell'Africa si verificò uno sviluppo analogo. Una crescita dei 'centri di studi africani', così com'erano spesso denominati, poté avvalersi largamente di fondi pubblici, sia negli Stati Uniti che in Europa occidentale, nell'Europa dell'Est e in URSS, fino a che lo stimolo della rivalità politica e ideologica - avvertito da governi e istituzioni, se non da parte di pedagoghi e studenti - rimase vivo: questo accadde soprattutto negli anni sessanta. Si può persino pensare che l'africanismo in quel periodo fosse cresciuto troppo: infatti il bisogno di asserire l'unicità e il valore delle culture africane non fu più avvertito con la stessa intensità, sia da parte degli Africani nella loro rivendicazione della propria dignità, sia da parte dei non Africani nel loro sforzo di liberarsi da miti superati. C'era stato, inevitabilmente, un certo atteggiamento difensivo nel lavoro dei primi africanisti. Il loro africanismo, in altre parole, aveva dovuto attraversare una fase in cui, indubbiamente, aveva dato un taglio politico alla discussione. La banale necessità di replicare al comune convincimento che la storia debba mostrare elenchi di 're e regine e battaglie' aveva imposto limiti che dovevano ormai essere trascesi.
Un certo numero di questioni metodologiche, insieme con le accresciute conoscenze e con la maggior fiducia nei propri mezzi, consentì di approfondire e rafforzare questo processo. Una di tali questioni concerneva la natura delle fonti e dei documenti della storia africana. Si era ben compreso, già negli anni cinquanta, che i documenti scritti africani erano più numerosi di quanto generalmente non si supponesse, in particolare per il periodo che aveva visto l'origine dell'alfabetizzazione nell'Arabia del sud e nel nord del Sahara, e che coincise all'incirca con il Medioevo in Europa. Questo progresso nella comprensione del mondo africano era iniziato nel 1857 con la pubblicazione a Londra del resoconto dei viaggi di Heinrich Barth e con il successivo recupero, a uso europeo, dei maggiori testi storici, come il Tarikh asSudan, redatto a Timbuktu intorno al 1660, ma a lungo sconosciuto in Europa. Il nuovo africanismo sperava nel recupero di un maggior numero di questi testi, sia in lingua araba che in ajami (lingue indigene traslitterate in caratteri arabi), e questa speranza non fu delusa. Contemporaneamente si prestò attenzione alle fonti europee inutilizzate, negli archivi delle società missionarie, delle compagnie commerciali, delle amministrazioni coloniali. Anche qui il raccolto fu ricco.
Tuttavia fu subito chiaro che la ricerca non poteva fare affidamento solo sulle fonti scritte. Doveva estendersi a tutto quanto si poteva apprendere dalla storia orale e dalla tradizione. Quali risultati si potessero raggiungere in tal modo lo avevano dimostrato tempo addietro Samuel Johnson, un sacerdote yoruba di Oyo in Nigeria, con la sua Storia degli Yoruba (1921), e un capo edo, J.U. Egharevba, che aveva raccolto la storia orale dei re dell'antica città e Stato di Benin (da non confondersi, geograficamente o in altro senso, con la moderna repubblica del Benin). Benché l'utilizzazione di queste storie orali richiedesse anche maggior prudenza di quella applicata ai documenti scritti dell'Europa medievale, esse gettarono luce su aspetti altrimenti oscuri.Ciò che restava da dimostrare era che i popoli senza sovrani, e quindi senza memorie ufficiali, possedessero testimonianze orali di valore. A tal fine un'efficace metodologia fu proposta dallo storico belga Jan Vansina, in un lavoro di importanza basilare pubblicato per la prima volta nel 1961. Sulla scia di Vansina altre opere seguirono. Notevole da questo punto di vista è una storia del popolo Luo, ricavata in larga misura da fonti orali, storia che iniziò a essere pubblicata nel 1967 dallo storico kenyota B.A. Ogot. Da allora la storia orale costituisce un valido aiuto e offre materiale illuminante per la conoscenza storica e sociologica dell'Africa. Essa ha permesso soprattutto di approfondire la comprensione del cambiamento e dell'evoluzione istituzionali e culturali tra le popolazioni non alfabetizzate.
Questo africanismo ribadì che il suo raggio d'azione doveva coprire l'intero continente, a nord come a sud del Sahara, e per questo qualcosa doveva essere modificato nel metodo. Generalmente lo studio dell'Africa a nord del Sahara era stato assegnato agli studi di islamismo e arabismo, agli egittologi, o agli studiosi dell'Etiopia. Tutti questi ricercatori tendevano a vedere le zone del Nordafrica di loro competenza come dotate di culture sui generis, o come semplici appendici delle culture asiatiche. Ma la riflessione degli africanisti sulla connessione tra le culture a nord e a sud del deserto generò il convincimento che l'una non poteva esser compresa senza l'altra. L'africanismo avrebbe dovuto dar peso alle fonti e influenze non africane, rappresentate dalla cultura islamica e araba, ma avrebbe anche dovuto insistere sul processo di iniziativa e di sviluppo che doveva la sua forza e flessibilità a tutte le popolazioni della regione, incluse quelle delle oasi del Sahara stesso. Questo convincimento fu alimentato da nuovi studi, in particolare nel campo del diritto e della storia economica, che misero in rilievo l'apporto reciproco tra le popolazioni di ambedue le zone del Sahel, a sud e a nord del deserto. I contributi degli africanisti agli studi berberi, al recupero dei testi islamici nell'Africa occidentale e, in misura minore ma significativa, nell'Africa orientale, così come alcune notevoli traduzioni di fonti classiche arabe (v. Levtzion e Hopkins, 1981) sono stati alcuni dei frutti di questo approccio. Studi africani e arabi sono riusciti a procedere insieme in modo produttivo.
L'egittologia si è dimostrata un partner più difficile. L'Egitto dei Faraoni andava considerato appartenente all'Africa? Finora il problema non si era quasi mai posto e, nonostante la testimonianza di autori greci dell'antichità, per esempio Diodoro Siculo, gli egittologi avevano in genere dato una secca risposta negativa: o l'Egitto dei Faraoni si era evoluto all'interno del proprio spirito originario, o l'aveva derivato dalle culture della Mesopotamia, mentre l'Africa nera in ogni caso non vi aveva avuto che una minima influenza periferica. Questo atteggiamento fu sottoposto al crescente e sempre più efficace attacco dell'africanismo durante gli anni sessanta; e questo attacco, puntualmente respinto, è continuato, come si può vedere per esempio nel secondo volume della Storia generale dell'Africa dell'UNESCO, pubblicata negli anni ottanta (v. Mokhtar, 1981, p. 58). La cooperazione con gli specialisti dell'Etiopia si è dimostrata più fruttuosa, sebbene anche in questo caso la tradizione di un'etiopistica non africana sia dura a morire.
Generalmente, gli studiosi dell'Africa sembrano aver trovato più motivi di unione che di divisione, per quanto vari possano essere stati i loro punti di vista e le loro origini. L'archeologia africana ha fatto passi da gigante negli ultimi 25 anni, grazie in non piccola parte all'applicazione delle nuove tecniche di datazione dei materiali organici, soprattutto attraverso l'esame della radioattività dell'isotopo carbonio-14: le scoperte di questa archeologia sono diventate parte integrante degli studi umanistici. Quasi lo stesso si può dire della linguistica africana, dove il lavoro di Greenberg (v., 1963) e di altri ha posto le basi per una esauriente comprensione dei principali ceppi linguistici e dei percorsi del loro sviluppo. La scienza politica si è unita all'antropologia sociale per dare profondità e prospettiva a sistemi e strutture di società e governo che, fino a quel momento, non sembravano suscettibili di alcuna evoluzione. Stesso discorso vale per lo studio del diritto africano. Basandosi su questo tipo di lavoro, in un'importante opera degli anni cinquanta, Olawale Elias poté sbarazzarsi dei preconcetti europei secondo cui il diritto in senso proprio sarebbe arrivato in Africa con il colonialismo, mentre prima non c'era stata che una congerie di consuetudini che, in ogni modo, non costituivano un diritto (v. Elias, 1956, p. 55); altri specialisti hanno seguito le sue orme.
Negli anni seguenti il congresso del 1962, l'africanismo inteso come legittimazione dello studio dell'Africa in quanto parte dello studio del genere umano ha probabilmente raggiunto il suo scopo. Tutto quel che sembra rimanere di questo, nel campo della ricerca, è un proficuo rapporto tra gli africanisti o un'etichetta di comodo per i loro studi. Può darsi, comunque, che le originarie istanze politiche abbiano ancora un potenziale inutilizzato. Perché, mentre l'originario interesse nazionalistico negli obiettivi panafricanisti ha perso la sua forza, per quanto l'Organizzazione dell'Unità Africana (fondata nel 1963) continui a esistere come forum internazionale di discussione o, più spesso, di retorica, il sottostante concetto di unità africana è tenacemente sopravvissuto in più o meno tutto il continente. Seppure con prudenza, l'insegnamento di questi anni ha teso a rafforzare le rivendicazioni emotive dei primi anni, soprattutto scoprendo e descrivendo le affinità essenziali nello sviluppo culturale e istituzionale. I popoli africani, secondo questo punto di vista ancora incompleto, hanno sviluppato forme di civiltà che, pur prestandosi a un esame comparativo con altre forme in luoghi diversi, mostrano di derivare da un remoto passato africano ed esprimono un ethos specificamente africano. C'è molto più di un'intuizione, in sostanza, nell'opinione che le molteplici diversità e i contrasti dell'Africa sorgano da unità essenziali di pensiero e di esperienza. In questo senso, sottile ma persistente, l'africanismo può ancora avere un fine da conseguire. Questo fine può scaturire dall'esigenza, sempre più evidente dagli anni settanta, di una riorganizzazione istituzionale delle partizioni territoriali e politiche imposte dal periodo coloniale. Almeno da questo punto di vista, le energie di un certo africanismo possono essere ancora in medias res.
(V. anche Colonizzazione e decolonizzazione; Imperialismo; Sottosviluppo).
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