Africa
di E. Zanini
La storia dell'A. settentrionale tra il sec. 5° e il 16° può essere sintetizzata in tre grandi fasi: la conquista vandala, la riconquista bizantina e il lungo e articolato processo costituito dall'affermarsi della dominazione islamica. I Vandali, provenienti dalla Spagna, invasero l'A. nel 429, sotto la guida di Genserico; dopo una prima fase in cui si riconobbero federati dell'impero, in seguito alla conquista di Cartagine nel 439 dichiararono la propria sovranità. Un accordo con l'Impero romano permise a quest'ultimo di recuperare, fino alla caduta dell'Impero in Occidente, la Mauretania e parte della Numidia. Il dominio dei Vandali, soprattutto sull'A. proconsolare, la Bizacena e la Tripolitania, si protrasse fino al 533, quando l'imperatore bizantino Giustiniano, nel quadro della sua politica di renovatio imperii, intervenne in un conflitto dinastico tra Gelimero e Ilderico, inviando un piccolo esercito al comando del generale Belisario che riuscì in brevissimo tempo ad abbattere l'ormai logoro regno vandalo. Nel 534 una parte dell'A. settentrionale (fino a Sétif, in Algeria) era nuovamente sottomessa all'imperatore bizantino, che provvide alla riorganizzazione del sistema difensivo, amministrativo e produttivo della regione. La dominazione bizantina si protrasse solamente per un secolo, fino a quando la pressione degli Arabi verso il Mediterraneo non sfociò nelle prime sconfitte dell'esercito di Costantinopoli, nella caduta di Alessandria (642 e 645) e nella definitiva conquista dell'Egitto. Dall'Egitto gli Arabi estesero lentamente il loro dominio su tutta l'A. settentrionale, con un processo durato, dopo una prima sconfitta dell'esercito imperiale a Sbeïtla (647), all'incirca sessanta anni, fino al 708, anno della definitiva sconfitta dei Bizantini.
di N. Duval
È difficile caratterizzare la situazione artistica dell'A. alla fine dell'epoca vandala. Durante l'occupazione germanica non sembra siano da segnalare interruzioni nel campo dell'edilizia religiosa. Tutt'al più le persecuzioni, le confische, le distruzioni - in altri tempi negate con impegno da Courtois (1955), ma di cui soprattutto a Cartagine si incomincia a misurare l'ampiezza reale - provocarono fatalmente successive ricostruzioni di chiese, alcune delle quali possono essere datate già alla fine della dominazione vandala, là dove la pace religiosa era stata ristabilita, rendendo quindi più facili i mutamenti nelle piante e nelle tecniche di costruzione. Non è quantificabile l'apporto di un'architettura propria della Chiesa ariana, alla quale appartenevano i Vandali: se si esclude una costruzione accertata a Cartagine, questa Chiesa sembra, secondo Vittore di Vita (Historia persecutionis Africanae provinciae; CSEL, VII, 1981), essersi piuttosto insediata in basiliche in precedenza cattoliche, dopo averle confiscate. È questo il caso, senza dubbio, del principale edificio religioso, detto basilica I, ad Ammaedara (Haïdra, Tunisia).
Neppure l'architettura profana del tempo ha lasciato tracce. Le costruzioni dei re vandali a Cartagine (palazzi, terme, ecc.) sono note attraverso alcune poesie dell'Antologia, soprattutto quelle di Draconzio; ma questi testi, di carattere non descrittivo, alludono in ogni caso generalmente ad aspetti ornamentali e decorativi.
L'apporto germanico si rivela molto scarso anche per quanto riguarda l'artigianato e la produzione propria delle c.d. arti minori. Si può segnalare unicamente la scoperta di qualche gioiello, attribuibile al periodo vandalo, nelle tombe di Ippona, di Cartagine e di Thuburbo Majus (Courtois, 1955). Fondandosi soprattutto su un generico carattere di novità, definito 'barbarico', si è talora proposto di attribuire un certo numero di mosaici al periodo vandalo, ma senza prove decisive. Fra la brillante e rilevante serie di mosaici attribuita al sec. 4° e le pavimentazioni caratteristiche dell'epoca bizantina, non si è ancora riusciti a delineare la produzione della seconda metà del sec. 5° salvo forse per il settore dei 'mosaici funerari' (coperture di tombe), un gran numero dei quali risale alla fine del 4° e al 5° secolo.
Le due leggi dell'aprile 534 (Cod. Just., I, 27, 1-2), con cui Giustiniano dettò, dopo la riconquista, le norme atte a ricostituire le strutture dell'A. romana e a garantirne la sicurezza, sono chiarificatrici della volontà dell'imperatore di ristabilire in tutta la sua forza ed estensione l'organizzazione tradizionale e, soprattutto, la divisione in province dell'Africa. Occorsero però parecchi anni prima che le armate bizantine potessero garantirsi uno stabile dominio nella Numidia meridionale e forse nell'Aurès (il problema è stato discusso, ma le tracce dell'occupazione bizantina a S dell'Aurès sembrano sicure) e raggiungere a O la regione Sitifiense, forse giungendo poco più in là della piana di Sétif e dell'Hodna. Nella Mauretania Cesariense la presenza bizantina si limita a qualche porto (Igilgili, forse Saldae, di certo Rusguniae - chiamato nel secolo scorso Matifou, oggi Tementfoust - a E di Algeri, Tipasa e Cherchell) accessibile solo dalla parte del mare, mentre una guarnigione occupava presso le Colonne d'Ercole il porto di Septem nella Mauretania Tingitana.
L'impatto della restaurazione nel campo dell'arte interessò quindi solo la metà orientale del Maghreb, ma non bisogna dimenticare che un'arte cristiana, difficile da circoscrivere cronologicamente e la cui evoluzione non è ancora stata studiata, continuava a vivere nella parte di A. lasciata nelle mani dei re indigeni. Questa civiltà offre oggi come punti di riferimento solo gli epitaffi (datati dall'era mauritana) dei secc. 6° e 7° nel Sud-Ovest della Mauretania (regione di Tiaret, Altava in Algeria) e in Marocco, a Volubilis. A tale cultura può venire attribuita anche una decorazione scolpita di tradizione locale, con ornato soprattutto geometrico.
L'azione imperiale, pur nella continuità, portò tuttavia in A. elementi nuovi: da prima, nel momento in cui l'architettura religiosa conobbe una profonda mutazione in Oriente, un impulso che riguardò in special modo il restauro degli edifici di culto restituiti ai cattolici, la costruzione di nuove chiese e inoltre, sotto il governo del patrizio Solomone, la fondazione di numerose fortificazioni di un tipo fino allora sconosciuto in A.: questo secondo il bilancio dell'opera di Giustiniano steso da Procopio (De Aed., VI, 3-7).
Assai meno facilmente valutabile è l'impatto reale delle correnti artistiche orientali (o italiane, dopo la riconquista dell'Italia) attraverso l'importazione diretta di materiali semilavorati o di prodotti finiti (per es. i capitelli), il trasferimento di artisti e artigiani, o semplicemente l'arrivo di cartoni per mosaici. In mancanza di fonti scritte, soltanto gli scavi archeologici o lo studio della scultura architettonica bizantina riutilizzata nei monumenti islamici permettono di tentare oggi congetture, ovviamente soggette a revisione continua.
Prima della conquista dei Vandali, poche città africane erano fortificate; alcune cinte di mura, ampie come quelle di Cherchell e di Tipasa, rispondevano a scopi specifici, probabilmente alla necessità di creare basi di partenza per le spedizioni contro le rivolte dei Mauri. Cartagine venne dotata di una cinta di mura (il cui studio progredisce grazie alla campagna di ricerche effettuate con il patrocinio dell'U.N.E.S.C.O.) soltanto al principio del sec. 5°, nel 425. A S invece, lungo il limes, il cui tracciato era stato più o meno definito all'epoca dei Severi, dalla Tripolitania fino alla Mauretania Tingitana, si erano moltiplicati gli accampamenti militari e i forti (castra e castella) e a volte le linee di difesa continue lungo le quali sorgevano opere più modeste (fossatum Africae). La necessità, sia di contenere le rivolte maure al Sud, sia anche di fronteggiare la penetrazione profonda delle tribù 'barbare', di cui la storia militare dei primi anni della rioccupazione aveva dimostrato la frequenza, obbligò il governo bizantino a ripensare in modo nuovo la difesa dell'A. 'utile'.
Le fortificazioni dell'A. bizantina sono state oggetto di due ricerche, l'una, a opera di Diehl alla fine del secolo scorso (Diehl, 1896; Gsell, 1901), l'altra, molto più recente, dovuta a Pringle (1981), mentre Durliat (1981) ha nuovamente ripreso in esame le iscrizioni dedicatorie delle opere di difesa. Ma sia i rilevamenti particolareggiati, sia gli scavi esaustivi sono stati ben poco numerosi e tra questi solo quello nella fortezza di Timgad (Algeria) è stato pubblicato (Lassus, 1981); vanno segnalati inoltre anche gli scavi di Ksar Lemsa in Tunisia.
Le rovine conservate e le iscrizioni coincidono in parte con gli elenchi di Procopio, ma permettono anche di completarli; resta tuttavia difficile la datazione delle cinte murarie, là ove non si dispone di una chiara tipologia, di una menzione di Procopio o di una esplicita iscrizione: un certo numero di fortificazioni attribuite per molto tempo all'epoca bizantina possono in realtà essere più tarde.
La distribuzione delle difese bizantine è stata oggetto di discussione. Diehl (1896), secondo la concezione della strategia dell'epoca, aveva diviso queste fortificazioni in 'linee di difesa' successive; una interpretazione criticata con ragione da Pringle (1981), il quale ha messo in evidenza come la maggior parte delle opere siano troppo lontane fra loro e troppo eterogenee per appartenere a un sistema di questo tipo. Si tratta di cinte murarie di piccole dimensioni, di cittadelle e di forti destinati a proteggere città precedentemente aperte, ad alloggiare guarnigioni (come nel caso di Timgad), a ospitare stati maggiori, centri amministrativi, erari militari o civili e anche magazzini. Naturalmente queste installazioni erano più numerose nelle zone minacciate della Bizacena e della Numidia che nella provincia della Africa proconsularis o Zeugitana nel Nord della Tunisia.
L'impianto delle opere varia notevolmente: le cinte di mura ristrette, le cittadelle e perfino i forti (Madaura, Algeria) erano dislocati nel cuore delle città antiche e implicarono un sovvertimento dell'impianto urbanistico con una preliminare distruzione o adattamento di monumenti e con la creazione di spalti, vale a dire, aree lasciate libere in leggera pendenza intorno alle cinte murarie. Questi interventi modificarono a tal punto il paesaggio urbano che non si è sempre in grado di stabilire se le distruzioni siano dovute alla situazione esistente alla fine del periodo vandalo o alla vicenda delle guerre 'maure', o se invece esse siano state volute dagli ingegneri militari. Altre fortezze invece sono fuori dai centri urbani, anche se sorsero, come a Timgad o a Ksar Lemsa (Tunisia), su costruzioni molto più antiche.
Architetture puramente utilitarie e di rapida realizzazione, le fortificazioni bizantine non avevano pretese estetiche. La tecnica di costruzione privilegiava, infatti, il reimpiego di conci di spoglio che provenivano da edifici distrutti o da necropoli (spesso molti blocchi conservano iscrizioni) sovrapposti senza cura in file irregolari, prive di malta, per formare le due pareti esterne che erano riempite all'interno di pietrisco.
La perizia degli ingegneri militari si esercitava piuttosto sui tracciati, spesso irregolari, data la necessità di tenere conto di esigenze topografiche nelle cinte di mura, in generale ristrette, rigorosamente geometriche per i forti, con due varianti importanti, a seconda della grandezza: il quadriburgium, con quattro torri agli angoli (Ksar Lemsa), o la fortezza rettangolare con torri intermedie (del tipo di Timgad).
Il tipo di torri (soprattutto a pianta quadrata) sporgenti rispetto alla cinta, le porte (aperte in una torre o inquadrate fra due torri, spesso provviste di chiusure successive, battenti e saracinesche), i cammini di ronda sostenuti di frequente da arcate, le scale di accesso ai camminamenti, la disposizione delle feritoie - di cui restano poche tracce - appartengono alle acquisizioni normali delle tecniche militari del tempo e non differiscono molto dalle realizzazioni conosciute in altre province. Ma l'ignoranza della poliorcetica e l'assenza di materiale da assedio da parte degli eventuali assedianti comportarono una certa economia di mezzi: mancavano infatti i fossati e le cinte murarie esterne.
La disposizione interna è conosciuta soltanto nel caso delle poche fortezze in cui si sono fatti scavi: a Timgad si tratta di acquartieramenti di tipo classico, destinati a una guarnigione, mentre a Ksar Lemsa gli alloggiamenti sembrano più sommari ed eterogenei. Una fortezza (Timgad) e almeno una cittadella (Ammaedara-Haïdra) contengono un edificio di culto che fungeva da cappella per la guarnigione.
A fianco delle 'fortificazioni ufficiali', la cui edificazione fu dovuta all'iniziativa dell'amministrazione bizantina e la cui realizzazione fu affidata a ingegneri militari, esistono in A. casi di cinte murarie, spesso prive di torri, la cui datazione non è facilmente definibile, ma che possono venire riferite al tentativo delle popolazioni di proteggersi (e qualche iscrizione vi allude). Un grande numero di fortini, da m. 10 a 20 di lato, spesso senza porte (e quindi accessibili solo al piano superiore, come le case fortificate in Corsica o in Albania), ma talora chiusi, in modo a un tempo efficace ed economico, da una porta 'a ruota', sono stati segnalati nella zona rurale in Tripolitania, nel Sud della Bizacena e della Numidia e nelle città dell'interno, dove servivano da punto di appoggio a fortezze più consistenti. Si tratta talvolta di cinte che inquadrano o completano monumenti anteriori (case di abitazione a Sbeïtla, Tunisia, monumenti pubblici come archi di trionfo a Zana o a Haïdra, edifici di culto come a Tebessa Khalia in Algeria); in altri casi invece sono state portate alla luce installazioni specifiche, spesso dotate di una duplice serie di vasche in pietra che erano sia scuderie, sia depositi o centri di esazione o di distribuzione.
È così evidente la continuità con l'architettura militare del periodo omayyade, da non permettere in alcuni casi una unanimità di pareri sulle datazioni di specifici edifici (a proposito, per es., del Borj Younga nel Sud-Est della Tunisia). La concezione dei ribāṭ costieri della Tunisia (per es. a Susa) non è molto diversa da quella delle sopra descritte fortezze, se non per la tecnica della costruzione e per il tipo di torri.
Il periodo bizantino in A. fu erede di una lunga tradizione di architettura religiosa nei confronti della quale non si registra soluzione di continuità. Le chiese presentano comunemente impianto basilicale a tre navate (qualche volta a cinque, eccezionalmente a sette o più, per monumenti di dimensioni molto vaste, come la grande basilica di Tipasa o la basilica di Dāmūs al-Kharīṭa a Cartagine), molto raramente precedute da un atrio; l'abside era sopraelevata e spesso era inquadrata da locali annessi (che si possono definire 'sacrestie') chiusi entro terminazioni perimetrali di pianta rettangolare.
I procedimenti costruttivi sono estremamente economici: generalmente si tratta di muri assai sottili (cm. 50-52, cioè il 'cubito africano') in opus africanum (ovvero ciottoli con armatura di pietra squadrata), con colonne molto ravvicinate, spesso di reimpiego, frequentemente abbinate a causa del diametro minimo. A eccezione di alcuni elementi (come mensole e abachi, in qualche regione) e di casi a sé (quali gli edifici della 'scuola' di Tebessa, nell'Algeria meridionale), la decorazione scolpita è molto sobria e spesso realizzata con materiale di recupero (capitelli). Nelle chiese trova invece largo impiego il mosaico pavimentale, per il quale il sec. 4° sembra essere stato un periodo particolarmente fecondo.
L'architettura religiosa dell'A. prebizantina si caratterizza per alcune disposizioni liturgiche specifiche, come la collocazione dell'altare, molto avanzato nella navata centrale, l'assenza dell'ambone (il vescovo o il sacerdote predicavano probabilmente dalla loro cattedra posta nell'abside sopraelevata), la presenza frequente di un secondo centro di culto opposto all'abside - a carattere martiriale o funerario - che abbastanza spesso assume la forma di una controabside (come la si conosce anche in Spagna e che ricompare nell'architettura occidentale in epoca carolingia e ottoniana); infine il frequente orientamento dell'abside verso occidente, soprattutto nell'Est dell'A. (così come si verifica in Italia).
I battisteri, la cui collocazione intorno alla chiesa non segue una regola precisa, hanno raramente carattere monumentale: in tutta l'A. si contano due battisteri ottagoni, un tetraconco e una rotonda.
Il culto dei martiri conobbe invece uno sviluppo senza pari: numerosi martyria presentano piante centralizzate (a pianta circolare, a quattro o a tre absidi) spesso ambiziose, come le due rotonde di Cartagine, sulle quali sono in corso nuovi studi.In età bizantina furono restaurate e ricostruite parecchie chiese; si sono potuti distinguere, a partire dal secolo scorso, vari rimaneggiamenti attribuibili a quest'epoca grazie, per es., allo stile dei mosaici; in alcuni dei casi più rari (a Cartagine, nella basilica detta 'del Supermercato', a Uppenna, a Sbeïtla) il fatto che sopra un primo edificio ne sia stato edificato un secondo, completamente interrato, permette di riconoscere nell'edificio più recente una ricostruzione del sec. 6°; a Leptis Magna e a Sabratha, nella Libia nordoccidentale, si è creduto di poter identificare le chiese attribuite da Procopio a Giustiniano, mentre a Cartagine non si è ancora arrivati a localizzare quelle dedicate a s. Primo e alla Theotókos (nella cinta del palazzo vandalo). In tutti questi edifici non si nota alcuna 'rivoluzione': la pianta basilicale continua a rimanere la più diffusa, mentre la 'controabside' si sviluppa permettendo, forse sotto l'influsso bizantino, di ribaltare verso oriente chiese prima rivolte a occidente. La chiesa II di Sabratha, forse una fondazione giustinianea, presenta una pianta 'africana' classica (anche se l'abside è scomparsa); la chiesa I di Leptis Magna, la cui fondazione sarebbe opera dello stesso imperatore, è un adattamento, senza modifiche architettoniche, della grande basilica civile severiana. A Rusguniae, a E di Algeri, un'iscrizione cita espressamente un restauro dovuto al magister militum locale: secondo i risultati degli scavi, l'intervento consistette essenzialmente in una ricostruzione dell'alzato (che non cambiò il livello dell'edificio), nell'aggiunta di due file di sostegni nell'antica navata centrale, considerata troppo larga, e forse anche nella costruzione di una 'controabside' (la cui datazione è discussa).
Più sensibile è l'evoluzione nel campo dell'arredo liturgico: l'altare sembra ravvicinarsi all'abside (secondo gli esempi di Sbeïtla e della chiesa a N di Kelibia); si introduce l'ambone, almeno in Tripolitania (due esempi a Leptis Magna e uno a Sabratha nella chiesa 'giustinianea'); si vedono comparire, come in Grecia, recinzioni che racchiudono l'altare entro una struttura rettangolare (nella chiesa dei Ss. Silvano e Fortunato di Sbeïtla). La forma a croce del fonte battesimale è anche qui dominante come nelle regioni orientali (con due varianti: propriamente cruciforme e quadrilobata), ma convive con un tipo polilobato che sembra caratteristico dell'A. anche se ne è conosciuto almeno un esempio a Costantinopoli.Questo bilancio negativo è stato peraltro modificato da studi recenti. Sembra che alcune delle chiese esistenti, soprattutto a Cartagine, Dāmūs al-Kharīṭa e forse Midfa (considerata come la Basilica Maiorum), ma soprattutto la grande basilica di Bulla Regia in Tunisia, nonché altre di recente scoperta, come la chiesa dei Ss. Silvano e Fortunato a Sbeïtla e forse quella del Forum Vetus di Leptis Magna (basilica II), così come le chiese I e III di Younga, siano state costruite o ricostruite introducendo nella pianta basilicale coperture a volta (probabilmente in forma di cupola a Bulla Regia e a Sbeïtla, e invece di volte a crociera a Leptis Magna); questo piccolo nucleo, studiato da Duval (Bulla Regia, Sbeïtla, Younga) e più generalmente da Christern (1976), rappresenterebbe quindi l'equivalente africano delle 'basiliche a cupola' dell'Oriente greco e denuncerebbe un influsso, certo abbastanza limitato, della 'nuova' architettura del 6° secolo.
Nel corso delle ricerche svolte ad Haïdra (Ammaedara) si è d'altra parte rintracciata nella chiesa III (della cittadella bizantina) e nella ricostruzione bizantina della chiesa II l'attività delle stesse maestranze alle quali si deve anche la chiesa bizantina del Kef (Dār al-Kous): maestranze che avrebbero dunque operato nel sec. 6° nella zona ovest dell'attuale Tunisia. Due elementi di originalità rispetto ai monumenti anteriori si trovano nell'abside, il cui catino a nervature poggia su colonnine addossate alla parete (ben conservate a Kef), e nelle volte a crociera delle navate laterali, realizzate secondo una tecnica molto particolare. In base alla sola pianta e senza che si siano conservate le strutture, sembra tuttavia di poter affermare che in Tunisia, nella stessa epoca, anche altre chiese siano state parzialmente coperte a volta; questo progresso della volta in pietra in un paese in cui le navate presentano in prevalenza coperture lignee o, in certi casi, a terrazza - ma che aveva una lunga familiarità con le volte leggere in tubi fittili (tecnica molto usata per i catini delle absidi) - potrebbe dunque rivelarsi anche frutto di influenze esterne.
Un recente riesame della grande basilica di Siagu, presso Hammamet (Cap Bon, Tunisia), nella quale all'inizio del secolo sono stati condotti scavi rimasti quasi inediti, ha dimostrato l'originalità di questa pianta ambiziosa, in cui l'abside poligonale della basilica a tre navate è circondata da un deambulatorio e la chiesa è prolungata da un grande battistero ottagonale con un colonnato anulare (analogo, per es., al mausoleo di Costanza a Roma e a certi battisteri provenzali). In base ad alcuni indizi, per questa costruzione di tipo insolito in A. e dovuta certamente a un architetto di talento, è stata proposta di recente una datazione al sec. 6° (Duval, 1984-1985).
Sarebbe dunque inesatto affermare che, a eccezione dell'ambito militare, l'era nuova non abbia avuto alcuna influenza sull'architettura africana.
Data la relativa rarità, in A., del marmo impiegato di norma nella scultura architettonica e decorativa, i pochi elementi di decorazione scolpita nelle basiliche cristiane del periodo precedente alla riconquista bizantina sono per la maggior parte in pietra, sia che si tratti della scultura 'colta' di Tebessa (inizi del sec. 5°, secondo la datazione proposta da Christern, 1976) o delle realizzazioni locali dovute alle maestranze di Sbeïtla (nel centro della Bizacena) e della Numidia meridionale. Questa tradizione rimase viva soprattutto in Numidia dove questo tipo di scultura può essere attribuito all'epoca bizantina. Ma la riconquista del Mediterraneo occidentale e forse la liberalità imperiale aprirono la via a importazioni massicce di materiali marmorei provenienti dalle cave orientali, esemplificate dal trasporto via mare di vere e proprie chiese 'prefabbricate' (è il caso dei materiali trasportati dalla nave naufragata a Marzamemi, al largo della Sicilia). Queste importazioni furono limitate alle zone costiere; a Cartagine, Susa, Sfax e Younga in Tunisia, a Sabratha e Leptis Magna, in Tripolitania, si sono trovati capitelli, rilievi, plutei, colonne di ciborio. Alcuni sono di importazione diretta, altri copie da modelli bizantini. Soprattutto gli importanti gruppi di capitelli reimpiegati nelle più antiche moschee delle grandi città - da Tunisi a Susa, Kairouan, Sfax, Gafsa, ecc. (ma a volte anche in modesti mausolei) - illustrano il numero e la varietà delle importazioni bizantine (capitelli tardocorinzi, capitelli a cesto, capitelli a due zone con aquile o arieti, ecc.). I recenti restauri e la relativa rimozione degli intonaci sovrapposti hanno permesso di studiare in modo più approfondito tutto questo materiale, di cui si è arrivati a iniziare la pubblicazione sistematica (Harrazi, 1982, per la moschea di Kairouan). Perfino all'interno del paese si è ritrovata l'influenza dei tipi importati su capitelli di fattura locale (Harrazi, 1982; Pensabene, 1986).
Il marmo di importazione (e spesso di reimpiego) era molto più diffuso, in tutta l'A. bizantina, per l'arredo liturgico di piccole dimensioni: basi, colonnine, mense d'altare, mense secondarie, reliquiari, eccetera. Soprattutto le colonnine e le mense giunsero dall'Oriente: le tipologie si ritrovano lungo tutto il Mediterraneo e, malgrado il ritardo delle ricerche in questo campo (fino a epoca recente non si era in grado di identificare questo materiale), si conosce in A. qualche esempio delle principali forme di mense - profane o di culto - prodotte dalle cave dell'Egeo e del Proconneso, soprattutto le mense a sigma 'chiuso' o quelle rotonde o semicircolari polilobate (a Ippona, Tebessa, Cartagine, Sfax, Younga, Sbeïtla, Sabratha, ecc.), che continuarono poi a essere usate durante il Medioevo.
Fino a un'epoca recente, il mosaico di età tarda, e soprattutto quello pertinente a edifici chiesastici, è stato trascurato dagli studiosi, interessati soprattutto ai pavimenti figurati che vanno dal 2° al 4° secolo. Parecchi esemplari, soprattutto quelli a decorazione geometrica, sono andati distrutti perché non erano giudicati degni di entrare in un museo e ben pochi sono stati oggetto di rilievi particolareggiati (a eccezione di qualche planimetria di Delamare e di Sadoux del sec. 19° e di altre realizzate in questi ultimi anni). Gli scavi della basilica 'giustinianea' di Sabratha, effettuati prima della seconda guerra mondiale (i mosaici rinvenuti sono stati trasferiti nel Mus. of Antiquities di Sabratha), le nuove scoperte verificatesi dopo la guerra (a Bulla Regia, Chemtu, Cartagine, Pupput, Hergla, Lemta, La Skhirra, Younga, ecc.) e i confronti proposti dagli specialisti dei mosaici italiani, spagnoli, sardi o siciliani, hanno risvegliato l'interesse dei ricercatori. Studi recenti dedicati al problema della classificazione e delle influenze (Lavin, 1963; Duval, 1971; 1986; Février, 1972; Farioli, 1974; 1975; Wilson, 1982; Dunbabin, 1985) danno possibili indicazioni, ma mancano pubblicazioni particolareggiate relative alla maggior parte dei singoli siti così che non si possono trarre per ora se non conclusioni provvisorie.
Le decorazioni figurate sono relativamente rare, in particolare per quanto riguarda i motivi cristiani. In una chiesa non identificata di Sfax è stato trovato un Daniele nella fossa dei leoni, di stile schematico ma spettacolare (Sfax, Mus. Archéologique); sono stati più volte raffigurati i quattro fiumi del paradiso (Younga, Oued Ramel e, su uno schema geometrizzante, Bir Ftouha a Cartagine); si trovano spesso pannelli che fungono da soglia, mosaici in forma di 'tappeti' davanti all'altare o al battistero, con cervi disposti simmetricamente che si abbeverano a un cantaro, come a La Skhirra, nella grande basilica (ora a Sfax, Mus. Archéologique) e a Uppenna, nel battistero; pavoni affrontati (el-Mouassat, Bulla Regia, Cartagine); raramente leoni (Djemila). La croce, a volte gemmata, appare sul pavimento della chiesa di Onorio a Sbeïtla (mosaico, ora nel Mus. di Sbeïtla), a el-Mouassat, a Thuburbo Maius, a Cartagine. Si conoscono anche numerosi fonti battesimali dell'epoca, decorati a mosaico con motivi simbolici (Sfax, Hr Hakaima, Hammam Lif, regione di Kelibia, ecc.) e una rappresentazione di un ciborio stilizzato a La Skhirra.Fra i motivi ornamentali domina il girale (di vite o di acanto) abitato, che spesso si distende nelle absidi (Younga, basilica B, ora a Tunisi, Mus. Nat. du Bardo; La Skhirra, grande basilica; el-Mouassat, ecc.) e nella basilica 'giustinianea' di Sabratha copre invece la navata centrale in una delle più belle realizzazioni del mosaico bizantino. Gli si oppone il girale animato, molto 'secco', ma assai vicino per il disegno complessivo alle opere del Libano o della Palestina, che adorna una grande sala di ricevimento nella casa dell'Asino a Djemila, la cui datazione è stata modificata negli ultimi studi (Lavin, 1963, la collocava nel sec. 4°). Scene rurali, di caccia e di pesca non sono rare nelle chiese (Cartagine, Sbeïtla, Hergla, el-Mouassat, Djemila, Rusguniae); si può forse attribuire a questo periodo anche la grande scena di caccia nel triclinio a sette absidi di Djemila, molto spettacolare nonostante il trattamento piatto a fasce sovrapposte. Nei pavimenti delle chiese o delle case, spesso ornati con medaglioni di varie forme con uccelli o pesci, domina il repertorio geometrico, con motivi ereditati dal periodo precedente e altri che sembrano invece ideati ex novo o anche importati: girali di acanto intrecciati, spesso combinati con motivi figurali (Cherchell, Cartagine, Oued Ramel, Lemta, Sfax, ecc.), embrici con rami di rose tra le squame, contornate e non, vasi con archetti di ghirlande ornate di fiori o di piume, combinazioni di palmette, pannelli bordati di ghirlande o di nastri intrecciati. Alcuni di questi motivi (squame e fiori) vengono usati soprattutto in Oriente; altri (cerchi intrecciati di acanto, vari motivi a palmette o a foglie di vite) compaiono inizialmente nella zona dell'Alto Adriatico e si diffondono, oltre che in A., in Sicilia, in Sardegna e nelle Baleari.
Punti di riferimento datati o databili vengono forniti da alcune chiese dell'Adriatico (a Grado, nel sec. 5°, per quanto riguarda i girali d'acanto) o dai pavimenti giustinianei di Ravenna (S. Vitale), che hanno equivalenti, per es., a Sabratha. Al momento della scoperta della chiesa 'giustinianea' di Sabratha si è creduto all'invio di mosaicisti da Costantinopoli su iniziativa dell'imperatore. Duval (1974) e Farioli (1974) hanno pensato piuttosto, nel caso di motivi ben precisi, a un'influenza delle botteghe dell'Adriatico (verosimilmente al momento della riconquista dell'Italia), forse con la mediazione della Sicilia (Wilson, 1982). Più di recente Dunbabin (1985) ha proposto una soluzione complessa che riprende l'idea di un invio di mosaicisti costantinopolitani a Cartagine. Nutrite anche di elementi africani, queste maestranze avrebbero poi operato pure a Ravenna e in area adriatica. In ogni caso è certo che, accanto a influenze orientali (forse ancora più vistose nei pavimenti figurati del Sahel), nel Mediterraneo occidentale, comprendente anche la Sicilia, la Sardegna e le Baleari, si determinò in epoca bizantina una vera e propria koinè artistica specifica e affatto peculiare.
In A. si cominciano a distinguere scuole e maestranze: anzitutto, naturalmente, a Cartagine, dove gli scavi recenti (basilica 'del Supermercato', rotonda dell'Odeon) hanno arricchito il repertorio conosciuto, nell'Ovest della Tunisia (Bulla Regia, Chemtu, el-Kef, Haïdra), sulle coste del Sahel nel Nord (Sidi Habich, Hergla, Lemta) e nel Sud (Sfax, el-Mouassat, La Skhirra, Younga) e in Tripolitania.
Bisogna aggiungere che l'arte del mosaico 'funerario', tipico del Nordafrica, continuò a sussistere in epoca bizantina, ma in scala minore. D'altra parte l'opus sectile, meno diffuso che in Italia e in Oriente, continuò peraltro a venire usato in sale di maggiore importanza all'interno di case private, ma anche nella basilica di Siagu, che ne è quasi interamente ricoperta.
Nel campo della ceramica (di colore rosso o arancione), l'A. era erede di una lunga tradizione che aveva dominato il Mediterraneo occidentale a partire dal 3° secolo. Le classificazioni di Lamboglia (1941; 1974) sono state precisate da Hayes (1972; 1980) mentre gli scavi di Sétif (Algeria) e poi quelli di Cartagine hanno permesso di meglio puntualizzarne la cronologia. Il periodo bizantino, come d'altra parte l'epoca vandala, non segnò una rottura in questo settore di produzione, in cui dominavano la sigillata D a motivi stampigliati e le lampade 'cristiane' nella forma africana classica, inventariate da Ennabli (1976) per quanto riguarda le collezioni di Tunisi e di Cartagine. Si nota però l'apparizione di una ceramica incisa (soprattutto a Cartagine), la sopravvivenza della ceramica dipinta, analoga in parte alle terrecotte copte, e inoltre, probabilmente verso la fine del periodo, l'introduzione della ceramica invetriata, che comparve in quell'epoca a Costantinopoli e che divenne quindi dominante dall'arrivo degli Arabi in poi (l'ultima produzione bizantina è spesso ancora confusa con la più antica ceramica araba).
Una produzione tipica del periodo - e dell'A. - fu quella delle piastrelle di terracotta, usate, secondo la struttura e l'inquadramento, per decorazioni murali o di soffitti (si può anche pensare a elementi di copertura per terrazze, prevedendo una impermeabilizzazione esterna). Dopo i lavori del secolo scorso, un inventario degli anni Trenta e tesi recenti sono stati dedicati a quest'arte particolare, che conobbe equivalenti in Spagna, in Gallia e, secondo una scoperta isolata, nella Macedonia jugoslava. Oltre a figurazioni dell'Antico e Nuovo Testamento, a immagini della Vergine e di un piccolo numero di santi orientali (Teodoro, Pantaleone), queste piastrelle - dalla superficie dipinta a colori vivaci - presentano anche temi mitologici (Pegaso e le ninfe), profili di animali stilizzati e un grande numero di motivi geometrici o vegetali.Si comincia a distinguere, soprattutto grazie agli scavi di Cartagine (ma non vanno dimenticate le collezioni del Mus. Nat. du Bardo a Tunisi e del Mus. Archéologique di Sfax), una produzione locale di vetri la cui classificazione è attualmente in atto a cura di Hayes e Caron.
Per il periodo vandalo è stata attribuita alle fabbriche di Cartagine la produzione di alcuni piatti d'argento, quali il missorium (piatto di largizione) di Gelimero e il c.d. 'clipeo di Scipione' (ambedue a Parigi, BN, Cab. Méd.). L'argenteria africana di epoca bizantina è quasi completamente scomparsa a causa del reimpiego del metallo e dei saccheggi, salvo alcuni reliquiari, per es. la c.d. 'capsella argentea africana' del Mus. Sacro della Biblioteca Apostolica Vaticana (da Aïn Zirara in Numidia). Così pure rimane incerta, per le stesse ragioni, anche l'esistenza di una produzione locale di oggetti in avorio; si può citare comunque la pisside di Younga, che tuttavia poté essere importata. Per altro la zecca di Cartagine, oggi ben studiata nei cataloghi (Londra, British Mus.; Parigi, BN, Cab. Méd.; Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.) e nell'opera di Hahn (1973-1981), continuò a battere moneta durante tutto il periodo in questione. La pubblicazione di un tesoro d'oro di Rougga (presso el-Jem) ha chiarificato l'importanza delle ultime monete africane bizantine (Guery, Morrisson, Slim, 1982). Vanno inoltre ricordati anche i numerosi sigilli bizantini in piombo, raccolti soprattutto a Cartagine.
I testi arabi e le iscrizioni scoperte a Kairouan e in Tripolitania attestano l'esistenza di comunità cristiane che scrivevano in latino in pieno 11° secolo. È evidente che il cristianesimo non scomparve bruscamente al tempo dell'invasione araba; lo provano anche le liste episcopali, le fonti storiche dell'epoca e le descrizioni dei viaggiatori (ma non è da escludere che una comunità come quella di Kairouan fosse piuttosto costituita da artigiani o da commercianti chiamati, per es. dalla Sicilia, alla corte dei sovrani). In alcuni scavi (a Sbeïtla, a el-Faouar) si è creduto di scorgere segni di sopravvivenza di edifici cristiani anche dopo la conquista. Resta tuttavia il fatto che dopo il sec. 7° non sussistono tracce di un'arte specificamente cristiana. Va detto peraltro che le tecniche costruttive, i temi decorativi, le forme architettoniche stesse elaborate da quest'ultima nei secoli precedenti esercitarono indubbio influsso sull'arte musulmana, che praticò su larga scala il reimpiego di elementi scultorei bizantini, continuando inoltre a servirsi del mosaico, come nel Medio Oriente.
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di V. Strika
L'Islam è penetrato in A. attraverso due vie principali: l'A. settentrionale e il Corno d'Africa. Mentre la prima diede vita a un'arte che si pone tra le maggiori dell'Islam, la seconda, non stimolata da grandi civiltà preesistenti, lontana dai massimi centri della civiltà islamica, e ritenuta secondaria dagli stessi musulmani, nel Medioevo si arenò sulla costa, anche per la presenza dell'Etiopia, rimasta cristiana.
Dalla costa settentrionale dell'A. la religione musulmana si diffuse verso l'interno ben oltre i confini dei paesi mediterranei, raggiungendo con un processo tuttora in corso l'A. subtropicale ed equatoriale: si tratta peraltro di un fenomeno che, con poche eccezioni, appartiene all'era moderna e, pur con le sue caratteristiche locali, non giocò un ruolo significativo per il costituirsi dell'arte islamica, il cui contributo africano appartiene sostanzialmente all'Egitto e ai paesi del Maghreb che qui interessano.
Per i musulmani il maghrib (da cui Maghreb, nell'accezione geografica odierna) è l'Occidente, ossia 'il luogo dove il sole tramonta', ed è contrapposto al mashriq, l'Oriente o 'luogo dove il sole sorge'. Il Maghreb comprende quindi i paesi situati a occidente dell'Egitto e cioè (nella denominazione odierna) la Libia, la Tunisia, l'Algeria, il Marocco, la Mauritania e in taluni periodi anche la Spagna e la Sicilia. Prima della conquista araba, questi paesi avevano fatto parte dell'Impero romano e successivamente, limitatamente a certe aree, di quello bizantino. L'arte che vi si era sviluppata non ebbe peraltro sostanziale presa sui conquistatori arabi. L'apporto bizantino restò limitato a particolari settori (è, per es., rilevabile nel mosaico e nell'uso di materiali di spoglio); mentre l'arte romana influenzò, magari per il tramite spagnolo, opere come le famose porte marocchine. Non va invece trascurato l'apporto, sia pure limitato alle arti minori, della tradizione berbera. Così come è in Siria e in Mesopotamia che vanno ricercati i modelli d'origine per quanto riguarda la produzione architettonica.
Politicamente l'evoluzione del Maghreb cominciò in epoca omayyade (661-750) con la conquista dell'Ifrīqiya, grosso modo la Tunisia attuale, a opera di 'Uqba b. Nāfi', il fondatore di Kairouan nel 670. Il periodo omayyade vide l'estendersi del dominio musulmano fino all'Atlantico e nel 711 le armi musulmane passarono in Spagna, evento che non fu privo di conseguenze nell'evoluzione dell'arte maghrebina, specialmente in Marocco. La caduta degli Omayyadi in Siria nel 750 portò alla creazione di un emirato, poi califfato omayyade in Spagna, che per un certo tempo estese il suo potere anche sulla sponda africana instaurando rapporti che non furono mai smentiti nei secoli successivi. I centri maggiori della civiltà islamica, come Baghdad e Samarra, esercitarono la loro influenza nella parte orientale del Maghreb e specialmente in Tunisia, dove si installò la dinastia aghlabide che si riconosceva vassalla degli Abbasidi di Baghdad. Ma sin dal 789 Idrīs I, un discendente di 'Alī, fondatore dello sciismo, costituiva in Marocco una dinastia sciita, con centro a Fez, destinata a un luminoso avvenire, mentre l'Algeria passava a una dinastia di origine persiana - i Kharigiti Rustamidi - con capitale Tahert. Dunque sin dai primi secoli erano rappresentate nel Maghreb le principali correnti musulmane.
Tutto ciò comunque non ebbe grandi conseguenze artistiche, tranne per gli Aghlabidi che a più riprese si ispirarono all'arte della Mesopotamia e nell'827 iniziarono la conquista della Sicilia, completata nel 902. All'inizio del sec. 10° il loro potere decadde a opera dei Fatimidi, altra dinastia sciita che dapprima si installò a Kairouan e poi fondò Mahdiyya, una capitale-fortezza destinata a esercitare una notevole influenza nei territori sui quali si estese il suo dominio. Ma la conquista dell'Egitto spostò ben presto gli interessi della dinastia sulle sponde del Nilo, facendo emergere le dinastie locali, gli Ziridi ad Achir e gli Hammaditi con centro a Qal'a. In questo periodo di transizione, il Maghreb appare per un certo tempo isolato dal resto del mondo islamico, costituendo un capitolo tutto da rivedere, almeno per quanto riguarda l'apporto della tradizione locale all'arte del periodo. Con la decadenza del califfato abbaside i nuovi modelli furono ricercati in Egitto e specialmente in Spagna, sempre più minacciata dalle armi cristiane e costretta, dopo la frammentazione del califfato omayyade di Cordova, a ricorrere all'aiuto degli Almoravidi, berberi del Sahara. Costoro, se momentaneamente posero freno alla Reconquista, riportando l'ordine in Andalusia, rimasero peraltro soggiogati dall'arte e dalla cultura andalusa, valendo con ciò a intensificare ulteriormente l'influenza della Spagna musulmana soprattutto in Marocco e Algeria; la Tunisia rimase invece in parte separata dal fenomeno, risollevandosi solo sotto la dinastia hafside. Il culmine dell'arte maghrebina fu raggiunto con la dinastia degli Almohadi che per un certo tempo, nel sec. 12°, riuscirono a riunire l'intero Maghreb e la Spagna sotto un'unica dinastia. Con la loro decadenza emersero in Tunisia i già ricordati Hafsidi e in Marocco i Merinidi, mentre l'Algeria passò agli Zayyanidi. Pur con le dovute eccezioni fu questo un periodo di decadenza che aprì le porte alla conquista ottomana del 16° secolo.
Malgrado le sue caratteristiche locali, l'arte del Maghreb partecipa dei caratteri generali dell'arte islamica. L'edificio fondamentale è quindi la moschea che come altrove conserva la distinzione tra masjid al-jāmi' o grande moschea, con le sue funzioni pubbliche e religiose, e il masjid, la moschea esclusivamente religiosa. Va però notato che il primo tipo, a giudicare dalla Grande moschea di Ḥasan a Rabat, continuò a ospitare talune funzioni pubbliche più a lungo che nell'Oriente islamico, rimanendo praticamente estraneo all'influenza persiana. Esso privilegiò piuttosto i modelli classici di derivazione mesopotamica, con i loro vasti cortili e le navate perpendicolari al muro di fondo, quello della qibla (direzione della preghiera) presso il quale spesso si sviluppa una navata parallela che, assieme a quella centrale della sala di preghiera, conferisce all'edificio una disposizione a T. Le poche eccezioni presentano, come nell'arte omayyade, le navate parallele al muro di fondo (Marocco). Un altro elemento che lega la Grande moschea maghrebina alla Mesopotamia sono le gallerie laterali che costituiscono un prolungamento delle corrispondenti navate della sala di preghiera, come nella Grande moschea di Abū Dulaf presso Samarra. Il minareto è quadrangolare, con una lanterna dello stesso tipo, per lo più situato al centro del lato settentrionale. A differenza dell'Oriente musulmano, è unico e, a giudicare da quello di Kairouan, costituì sin dai primi secoli il punto di massima espressione della perizia creativa dell'architetto. Nel cortile, generalmente vasto e circondato da gallerie e porticati, domina l'arco a ferro di cavallo, presente con tutte le sue varianti, anche nella sala di preghiera, attorno al miḥrāb, nelle porte e nella decorazione. Le origini di questo tipo di arco vanno probabilmente ricercate in Spagna, mentre il minareto, malgrado l'esempio del faro di Alessandria, sembra più verosimilmente ispirato ai modelli siriani, trapiantati in epoca omayyade anche in Egitto. La cupola conserva la sua importanza, ma non ha mai la funzione dominante che assume, per es., in Persia e in Turchia. Serve semplicemente a sottolineare l'area del miḥrāb, il muro di fondo e talvolta l'ingresso alla navata assiale, sia per ragioni estetiche, sia per sottolineare la direzione della preghiera.
La rigidità religiosa di gran parte delle dinastie succedutesi nel Maghreb fece sì che il mausoleo avesse una diffusione, nel complesso, minore che in Oriente. Per la stessa ragione l'aniconismo, a differenza della vicina Spagna, venne, con poche eccezioni, rigidamente osservato. Secondo i canoni estetici dell'arte islamica, la decorazione tende a ricoprire, all'interno, l'intera superficie parietale.In assenza di arti figurative domina l'arabesco, con i suoi motivi floreali e geometrici, il più delle volte tra loro differenziati in uno stesso edificio o vano (minareto della Kutubiyya a Marrakech). La decorazione (zakhrafa) può fondersi alle stesse strutture portanti, ma più spesso si esprime in forme indipendenti dall'architettura ('imāra): si tratta dunque di due forme d'arte tra loro diverse, affidate ad artisti di formazione diversa e perciò da studiare separatamente. Il materiale da costruzione è piuttosto vario. Negli edifici più antichi fu usato, ove non era disponibile materiale di rimpiego, il mattone crudo, che ben presto cedette al cotto, spesso rivestito in maioliche, stucco e talvolta in marmo. La pietra non era ignota, specialmente nelle costruzioni che richiedevano una struttura robusta come i minareti, ma di scarsa qualità. Specialmente nel tardo periodo medievale fu fatto anche largo uso del legno. Per quanto riguarda le c.d. arti minori, si ricorda che il termine arabo fann indica tutte le arti, senza distinzioni tra 'maggiori' e 'minori'; d'altra parte l'epigrafia e la calligrafia, in quanto legate all'abbellimento delle lettere in cui è stato diffuso il Corano, hanno sempre svolto un ruolo a parte, non solo come elemento essenziale nella decorazione degli edifici, ma anche come forme d'arte a sé stanti nell'epigrafia funeraria e nei libri. Scarso sviluppo ebbe invece la miniatura, per la rigida osservanza del divieto di rappresentare la figura umana. Non così la ceramica, la cui produzione, benché abbia influenzato la ceramistica italiana, è ancora poco studiata. L'influenza abbaside, egiziana e spagnola, appare comunque per lo più trasfigurata dalla tradizione locale, il che è forse da mettere in relazione con la diffusione e l'importanza dei tessuti. Scarso anche lo sviluppo dei metalli e degli avori incrostati o scolpiti che costituiscono al contrario il vanto della Spagna.
L'opera principale degli Aghlabidi è la Grande moschea di Kairouan. In realtà l'edificio trae origine da una moschea estremamente semplice costruita da 'Uqba b. Nāfi' che fondò la città destinata a essere il maggiore centro religioso dell'Occidente islamico. Nel periodo omayyade l'edificio, dapprima in mattone crudo, fu ricostruito e restaurato almeno due volte, nel 693 da Ḥasan ibn Nu'mān e poi dal califfo Hishām (724-743), al quale la tradizione fa risalire il minareto. La moschea che forse aveva le dimensioni attuali fu interamente ricostruita dagli Aghlabidi, più precisamente da Ziyādat Allāh nell'836 e dal suo successore Abū Ibrāhīm che completò i lavori nell'862. La moschea, che presenta ben diciassette navate perpendicolari al muro di fondo, ha una caratteristica disposizione a T, costituita dalla navata centrale più larga delle altre, con due cupole alle estremità, e da una navata parallela adiacente al muro di fondo. In generale la pianta ricorda i modelli mesopotamici, la cui influenza sembra evidente nell'ampiezza del cortile, circondato da gallerie e porticati, nelle torri che affiancano l'edificio, nel gran numero delle porte e, infine, nel minareto che, pur di forma diversa, è incorporato nella moschea, sul lato opposto al miḥrāb. In seguito la moschea, la cui influenza sugli sviluppi dell'arte maghrebina è stata notevole, non ha subìto ampliamenti di rilievo. Notevoli, invece, i lavori di restauro che hanno più volte portato aggiornamenti alla decorazione, come i fregi in legno con medaglioni polilobati di epoca ziride, mentre nel periodo hafside venne aggiunta l'elegante Bāb (porta) Lalla Raihāna'.
La Grande moschea di Susa è stata costruita da Abū 'l-'Abbās nell'850. L'edificio, più volte restaurato, presenta anch'esso le navate perpendicolari, la centrale più larga delle laterali con una cupola davanti al miḥrāb. L'ampliamento maggiore risale al sec. 10°, quando l'intero muro di fondo è stato spostato più a S. Da notare a Susa la piccola moschea Bū Fatata (ca. 840), uno dei rari esempi sopravvissuti di masjid maghrebino, che con le sue tre navate parallele al muro di fondo ricorda, in assenza del cortile, le chiese bizantine; effetto accentuato dalla presenza di un portico in antis. Notevole anche il fregio decorativo che corona le mura esterne. Forse simile era in origine il masjid delle 'Tre Porte' eretto a Kairouan nell'866. La moschea Zaytūna di Tunisi, da tempo uno dei maggiori centri di studi teologici maghrebini, risale al periodo omayyade, ma è stata interamente ricostruita da Abū Ibrāhīm (856-863). Nei tratti essenziali segue l'esempio di Kairouan, ma in dimensioni più ridotte, come si conveniva a una città che, malgrado la sua importanza marittima, divenne capitale soltanto sotto la dinastia hafside. Gli Aghlabidi potenziarono notevolmente anche i lavori di pubblica utilità e l'architettura civile e militare, come dimostrano innanzitutto le opere idrauliche di Kairouan costruite da Abū Ibrāhīm. Le opere civili di maggiore interesse sono i complessi residenziali di al-'Abbāsiyya e Raqqāda, dei quali non rimane molto, ma che danno, specialmente il primo, un'idea delle ambizioni della dinastia, impressionata dalla grandeur della Mesopotamia abbaside. Certamente di non minore interesse sono le opere militari, tra le meglio conservate dell'arte islamica. L'architettura militare islamica, nelle sue varie forme (mura di cinta, qaṣr e ribāṭ) risale ai precedenti romani, persiani e bizantini. In Tunisia, gli Aghlabidi diedero sviluppo specialmente ai ribāṭ, specie di forti o castelli, nei quali abitavano a guisa di monaci guerrieri i difensori della Dār al-Islām (territorio islamico), oppure avamposti per ulteriori conquiste, talvolta anche per le donne. Il più famoso è quello di Susa, un edificio quadrangolare a due piani, provvisto di una moschea, con torri semicircolari ai lati e circolari agli angoli, a eccezione dell'angolo sudorientale che presenta una base quadrata dalla quale si erge il minareto con funzione, come altrove nel mondo musulmano, anche di torre d'osservazione; al centro è un cortile. Questa pianta è stata forse troppo frettolosamente collegata ai famosi castelli omayyadi di Siria e Giordania che, se in effetti hanno una disposizione analoga, sono rimasti quasi tutti incompiuti e all'epoca aghlabide erano sicuramente in rovina. Forse più coerentemente si dovrebbe guardare alla Mesopotamia e all'Iran, dove la pianta era familiare già in epoca preislamica. Interessante, ma con disposizione diversa, è anche il ribāṭ di Monastir. Gli studi sull'arte militare dell'Ifrīqiya sono stati rinnovati da Lézine (1965), per il quale anche talune moschee avevano funzioni militari, simili ai ribāṭ. In tal senso anche il minareto è interpretato come una struttura militare, non essenziale alle funzioni religiose della moschea.
L'arte aghlabide, pur nei suoi adattamenti locali, risentì dell'influenza dei grandi centri dell'arte islamica, dai quali non fu mai totalmente indipendente. L'eccezione maggiore sono forse le cupole che non mancano di varianti locali, come nella moschea Zaytūna di Tunisi, la cui cupola presenta un tamburo forse ispirato ai vicini modelli cartaginesi.
Benché la maggior parte dei monumenti fatimidi appartenga all'Egitto, le rovine della capitale al-Mahdiyya, fondata nel 913, presentano interessanti innovazioni che non mancarono poi di farsi sentire in seguito nell'evoluzione dell'architettura maghrebina e in Egitto. L'insicurezza politica in cui si mosse la dinastia fece sì che gli aspetti militari prevalessero sulle considerazioni estetiche. Mahdiyya fu munita di solidi bastioni e di una doppia cinta di mura, la prima delle quali è oggi sommersa dal mare; la seconda appare affiancata da torri quadrangolari e circolari, situate nei punti strategici di maggior rilievo. La città, costruita su una penisola e collegata alla costa da un istmo, era fortificata soprattutto dalla parte terrestre. La zona centrale era occupata dalla Grande moschea e dal palazzo del Mahdī, entrambi del periodo di 'Ubayd Allāh. Un secondo palazzo fu eretto dagli Ziridi. Secondo la tradizione il primo di questi edifici a essere costruito fu la Grande moschea, nella quale è presente la pianta a T sul modello di Kairouan, ma scompare il gran numero di entrate sui lati. L'ingresso principale è situato sul lato settentrionale del cortile ed è costituito da un portico aggettante, il primo esempio del genere che, come tale, ebbe notevole influenza sulla successiva arte fatimide, preludendo all'importanza che la facciata rivestì in seguito nell'arte musulmana, nei suoi aspetti sia estetici sia simbolici. Come volevano le necessità locali, a Mahdiyya le due estremità della moschea furono rinforzate da torri, particolare che si ritrova in seguito nella moschea di al-Ḥākim in Egitto con funzioni, però, puramente estetiche.
Gli Ziridi ebbero in consegna il territorio dei Fatimidi, quando questi passarono in Egitto durante il califfato di alMu'izz. La loro arte è stata rivalutata soltanto di recente con gli scavi di Achir, la capitale costruita nel cuore delle montagne. Le indagini archeologiche hanno portato alla luce un interessante palazzo che presenta intorno al cortile quattro appartamenti, i cui vani sono raggruppati intorno ad altrettanti cortili. L'entrata è sul lato meridionale, protetta da torri quadrangolari come in taluni castelli omayyadi. Sul lato settentrionale del cortile si trova una sala d'udienza, con un vano triabsidato che ricorda Mshattà, probabilmente ricoperto in origine da una cupola. L'interesse del palazzo consiste nel fatto che esso colma una lacuna nel quadro dell'arte civile maghrebina superstite, relativamente a un periodo in cui il tipo di palazzo ora descritto era certamente più diffuso, tanto da influenzare i famosi palazzi della Cuba e della Zisa a Palermo.
Scomparsa la minaccia fatimide si affermò in Algeria la dinastia dei Hammaditi, la cui capitale Qal'a ('cittadella') è stata anch'essa oggetto di scavi. Fondata nel 1007 a m. 1400 di altitudine, presenta come edifici principali la Grande moschea e i palazzi del Manār (minareto) e del Lago. La prima è caratteristica per l'ampiezza della sala di preghiera che occupa gran parte dell'edificio, probabilmente per ragioni climatiche. Per il resto ricompare la disposizione a T e le navate perpendicolari al muro di fondo. Il minareto, quadrangolare, ha una decorazione a nicchie, un tempo rivestite di maioliche, mentre lungo l'asse del lato meridionale si trovano delle finestre decorate che preludono agli sviluppi del minareto maghrebino. Il Manār presenta una torre d'osservazione cruciforme, con le stanze raggruppate intorno a piccoli cortili, simili ai patios spagnoli. L'edificio era a due piani, la sala di rappresentanza si trovava al secondo piano. Il palazzo del Lago deve il suo nome al lago rettangolare che occupava gran parte del cortile e che prelude al caratteristico amore per le acque e il verde dei giardini, tipico dell'arte andalusa e in generale di quella musulmana.Una dinastia kharigita, insediatasi per breve tempo a Tahert, fu cacciata dai Fatimidi e finì con il rifugiarsi ai bordi del Sahara, dove fondò Sedrata, località nella quale gli scavi hanno portato alla luce una serie di abitazioni, la cui decorazione ricorda gli stili di Samarra ma appare anche condizionata dalla tradizione berbera locale.
Molto più importante fu la dinastia degli Almoravidi (al-murabitūn, coloro che abitano i ribāt), usualmente insediati ai bordi del Sahara. I principali centri in cui si esplicò la loro arte nel Maghreb, e cioè Marrakech e Fez nel Marocco, Algeri e Tlemcen in Algeria, dimostrano come il rigorismo ascetico comunemente attribuito a questi conquistatori non impedì lo sviluppo di un'arte che si inserì saldamente nella tradizione locale, già orientata verso la Spagna, ma con apporti originali che trovarono poi la loro piena maturazione nel periodo almohade. Marrakech, destinata a divenire uno dei maggiori centri dell'arte maghrebina, fu fondata dal conquistatore Yūsuf b. Tāshufīn, ma lo sviluppo della città si deve specialmente al figlio 'Alī che vi eresse un palazzo del quale rimane intatta una cupola a costoloni con la sua elegante decorazione interna, realizzata singolarmente in pietra, benché non manchino le stalattiti e la decorazione in stucco, comuni all'intera arte maghrebina.
Se Marrakech fu per un certo tempo il centro dell'impero almoravide, le cure maggiori andarono ancora una volta alla più antica Fez. Le fonti ricordano vari monumenti, che tuttavia, molto alterati dalle epoche successive, sono di più difficile lettura. Questa città, fondata dagli Idrisiti nel sec. 9°, presso la romana Volubilis, svolse un ruolo molto importante negli sviluppi dell'arte marocchina, ma i primi monumenti non sono noti. Sembra certo che intorno all'859 vi siano state erette la Qarawiyyīn e la moschea degli Andalusi, le moschee congregazionali per i due quartieri in cui inizialmente si articolava la città. Entrambe seguono la planimetria omayyade con le navate parallele al muro di fondo e una navata assiale in corrispondenza del miḥrāb. Il minareto data al 956, nel quadro dei lavori che allargarono la moschea sui due lati; ma è in epoca almoravide che la moschea raggiunse dimensioni e decorazioni rimaste in seguito pressoché inalterate dai restauri successivi. Come di consueto il vasto cortile è circondato da gallerie che prolungano la sala di preghiera. Particolare cura fu data alla navata assiale sormontata da ben cinque cupole. Da notare il minbar in legno, considerato tra i più belli del mondo islamico. Anche la moschea degli Andalusi presenta le navate parallele, ma i lavori che vi hanno avuto luogo dopo la fondazione non sono stati altrettanto felici, come dimostra l'irregolarità del cortile. Essi sono comunque da ascrivere prevalentemente a un'epoca successiva agli Almoravidi, la cui attività in Marocco si svolse anche in altre località, tra cui Taza, la città-fortezza trasformata in ribāṭ, dotata in epoca almoravide di una grande moschea, troppo alterata in epoca almohade e merinide perché sia possibile riconoscerne le forme originarie. In Algeria Yūsuf b. Tāshufīn promosse lo sviluppo di Tlemcen, dopo che la località era stata abitata dagli Idrisiti. La città, sorta non lontano dalla romana Pomaria, deve agli Almoravidi la Grande moschea eretta dal figlio di Yūsuf b. Tāshufīn, 'Alī. Nella forma attuale presenta le navate perpendicolari al muro del miḥrāb.
Il potere degli Almoravidi si estese anche in Algeria e il loro zelo religioso portò alla creazione di opere significative. Ad Algeri la più antica moschea risale al periodo almoravide. Anch'essa eretta da Yūsuf b. Tāshufīn all'incirca nel 1097, continuò la tradizione precedente: le navate sono perpendicolari al muro di fondo, la centrale più larga, mentre quelle alle due estremità del cortile si allungano, costituendo di fatto un prolungamento della sala di preghiera. La sua importanza prevale su quella del cortile relativamente ristretto, come a Tlemcen e altrove. In generale va peraltro detto che i monumenti almoravidi si distinguono per la loro sobrietà; la decorazione vi ha infatti scarso sviluppo.
L'arte del Maghreb raggiunse il suo apogeo durante la dinastia almohade, la cui arte rappresenta una felice sintesi di quanto elaborato nei secoli precedenti e una solida base per quelli successivi. Anche gli Almohadi giunsero al potere con una rivoluzione religiosa, rigidamente puritana e ortodossa, il che spiega come l'austerità nella decorazione sia proseguita anche nel sec. 12°, salvo peraltro ciò che riguarda le parti più significative della moschea, come la facciata, la navata trasversale, il muro della qibla, l'inquadratura e l'area davanti il miḥrāb. Questa cura speciale, riservata a talune parti della moschea, non è certo a vantaggio dell'armonia generale dell'interno, il che tuttavia non compromette le esigenze dell'estetica islamica, il più delle volte portata a curare ogni parte di un edificio come un elemento a sé stante, piuttosto che inserirla in uno schema decorativo globale. L'unico caso in cui questa tendenza prevale è quello dei minareti, che costituiscono il vero vanto del periodo; i loro lati, pur appartenendo a uno schema decorativo molto simile, presentano in realtà una decorazione diversa. Si direbbe che la tecnica dell'arabesco, più comune all'interno, si sia estesa anche all'esterno. Il minareto all'interno è a più piani, i soffitti hanno volte incrociate, rivestite di stalattiti. Queste caratteristiche si trovano a Marrakech, Tinmal e Rabat. A Marrakech è famosa la Kutubiyya che riproduce, portandoli a inusitata maestria, i modelli tradizionali, con la sala di preghiera con le navate perpendicolari al muro di fondo e la classica disposizione a T. Da notare che la moschea fu costruita due volte, poiché nella prima redazione architettonica la qibla risultò errata. La navata assiale e quella parallela al muro di fondo presentano numerose cupole che anche dall'esterno evidenziano le parti essenziali della moschea. Nella decorazione prevalgono le stalattiti e particolare cura è posta nell'ornamentazione del miḥrāb. Il minbar in legno, ora nel palazzo el-Badi, era d'importazione spagnola, come pure alla stessa origine si possono far risalire alcuni capitelli che ricordano quelli della Grande moschea di Cordova. La Kutubiyya deve la sua fama soprattutto al minareto, alto oltre m. 60, i cui motivi decorativi sottolineano la struttura architettonica: nicchie cieche e finestre incorniciate da archi polilobati e altri motivi prevalentemente geometrici. Una tradizione, non pienamente accertata, attribuisce il minareto allo stesso architetto della Giralda di Siviglia, già appartenente alla Grande moschea di questa città.Al periodo almohade risale, sempre a Marrakech, la moschea della Qasba che - eccezionalmente nell'arte islamica - presenta ben cinque cortili. La sala di preghiera ricorda quella della non lontana Kutubiyya. Un'altra moschea almohade, tra le più suggestive del Marocco, si trova, purtroppo in rovina, a Tinmal. L'edificio riproduce il noto schema a T, ma lungo il muro di fondo compaiono tre cupole - una al centro in corrispondenza del miḥrāb e le altre alle estremità, con una tipologia che ricorda l'arte fatimide - ricoperte da padiglioni quadrangolari e all'interno decorate con stalattiti. Da notare che il miḥrāb è incorporato nel minareto, secondo una disposizione già nota in Algeria, il cui lontano prototipo si può considerare il minareto della moschea interna di Khirbat al-Mafjar.
Il più famoso monumento almohade, rimasto però incompiuto, è la Grande moschea di Ḥasan a Rabat, eretta, intorno al 1197, dopo la vittoria di Alarcos in Spagna, a opera di Ya'qūb al-Manṣūr. Molti sono gli elementi che ricordano le grandi moschee abbasidi, come le torri che rafforzano le mura, il gran numero d'entrate, le navate perpendicolari al muro di fondo, nonché le tre navate parallele a quest'ultimo; navate che, con quella centrale, ricordano alla lontana la disposizione a T presente nella moschea di Abū Dulaf. Scompare, come del resto nelle altre moschee di questo periodo, l'importanza del cortile, atrofizzazione dovuta alle mutate funzioni della moschea. A Rabat, forse soltanto con funzioni igieniche, i cortili sono tre, ma nessuno raggiunge le dimensioni di quelli mesopotamici, anche se la moschea, una volta ultimata, sarebbe stata tra le maggiori dell'Islam. Attualmente è nota soprattutto per il minareto, assurto a simbolo della città con la sua decorazione, diversa nei quattro lati, che rientra, perfezionandolo, nel repertorio maghrebino. Tra le altre opere religiose almohadi si ricorda la moschea di Taza, la città fortificata nella quale gli Almoravidi avevano eretto una grande moschea nel 1135. Essa venne successivamente allargata, come ricorda un'iscrizione, dagli Almohadi: ma i lavori che vi furono eseguiti mal si distinguono da quelli precedenti e specialmente da quelli successivi, dovuti ai Merinidi. La parte più interessante è la decorazione interna della cupola che precede il miḥrāb, solo in parte almohade, con i suoi costoloni e l'abbondante decorazione in stucco. Non meno importante è, in questo periodo, l'architettura civile, della quale peraltro ben poco è rimasto, malgrado i testi storici che ricordano, oltre ai palazzi reali, anche ospedali e madrasat. Uno dei rari esempi sopravvissuti di ḥammām (bagno) maghrebino si trova a Tlemcen; nella disposizione delle camere calde si riallaccia ai bagni romani.
Anche gli Almohadi diedero grande impulso all'architettura militare, benché il primato in questo settore spetti alla Spagna, minacciata dalle armi cristiane. In particolare, furono restaurate le mura di Tlemcen (distrutte dagli Almoravidi) e rafforzate quelle di Tinmal. Questa architettura almohade segue i modelli dei periodi precedenti, specialmente almoravidi, particolarmente evidenti in ciò che è rimasto a Taza, dove le mura sono meglio conservate e presentano torri aggettanti vari metri oltre la cinta. Probabilmente al sec. 12° risale il ribāṭ di Tit, località a S di Mazagan, eretto su una base emisferica, sulla quale si elevava la fortezza a pianta ottagonale, affiancata da torri quadrangolari e semicircolari. Una delle entrate è del tipo c.d. 'a gomito', sistema noto agli Egiziani, ma a quanto sembra in seguito abbandonato. Nell'arte islamica compare nella 'rotonda di Baghdad' nell'8° secolo.Fanno spicco nell'architettura militare almohade le famose porte di Marrakech e Rabat, forse le migliori dell'arte musulmana, malgrado la dimensione ridotta. Esse facevano parte delle fortificazioni delle città, il che spiega l'austerità della decorazione, comune peraltro ad altri monumenti del periodo. A Marrakech, il Bāb Agnau che dà accesso alla Qasba è inquadrato da una cornice rettangolare con un'iscrizione cufica e sotto di essa si sviluppa una serie di arcature, talvolta polilobate, l'ultima delle quali è a ferro di cavallo. A Rabat nelle mura di cinta si accentuano i caratteri militari, particolarmente evidenti nel Bāb Rouah che permetteva l'accesso all'interno mediante una serie di porte a zig-zag. La decorazione è compresa tra le arcature, il tutto è racchiuso da una cornice epigrafica rettangolare, come a Marrakech. L'origine di queste porte è stata indicata nell'arte mesopotamica, ma è forse più logico pensare a un'influenza romana.
Gli Almohadi tennero inoltre in somma cura le opere pubbliche. Canali e cisterne furono costruiti un po' ovunque. Basta ricordare gli acquedotti di Fez e Marrakech, nonché il canale che forniva l'acqua alla Qasba di Rabat.
Delle dinastie che succedettero nel Maghreb agli Almohadi, la più interessante sul piano artistico è stata quella dei Merinidi, il cui periodo corrisponde a quello dei Nasridi di Granada, l'ultimo regno arabo in Spagna, con il quale la loro arte ha molti tratti in comune. Politicamente il periodo merinide è in realtà un periodo di decadenza (Ceuta nel 1415 è in mano portoghese); ma da un punto di vista artistico spicca anche perché, dato che si tratta di una età più recente, i suoi monumenti sono meglio conservati. I Merinidi concentrarono la loro attenzione quasi su tutte le principali città marocchine, privilegiando soprattutto Fez, la capitale, e Meknes. Poche furono le innovazioni per ciò che riguarda la moschea, che ripete gli schemi almohadi, sia pure con una profusione decorativa ignota al periodo precedente. Molto importante fu invece lo sviluppo della madrasa, forse già apparsa in epoca almohade, ma comunque più tardi rispetto all'Oriente musulmano dove la sua diffusione è documentata almeno dal sec. 11°, in seguito alla decadenza del califfato e alla fine della speculazione teologica. Si tratta di un edificio il cui scopo era quello di custodire quanto in fatto di dogma e di diritto si riteneva definitivamente acquisito. Nella sua forma più completa, la madrasa doveva ospitare tutte e quattro le scuole di diritto canonico, perciò nei paesi d'origine gli edifici erano complessi, spesso a quattro īwān. Dalla Mesopotamia la madrasa passò, ai tempi di Saladino, restauratore dell'ortodossia, in Egitto e da qui nel Maghreb, ma ebbe larga diffusione, sia pure in dimensioni più ridotte che altrove, soltanto nel Marocco e in particolare a Fez. La pianta, pur con le singole varianti, è abbastanza simile: attorno a un cortile si trova la sala di preghiera, insieme a una serie di vani adibiti ai servizi, mentre nel piano superiore si trovano le celle per gli studenti, generalmente prive di finestra e allineate lungo un corridoio. Le madrasat principali furono costruite, tra la metà del sec. 13° e la prima metà del 14°, prevalentemente a Fez (madrasat al-Ṣaffārīn, al-Ṣahrīǰ, al-'Aṭṭārīn, Bū 'Ināniyya, ecc.). Nelle altre città si ricorda: a Meknes la madrasa di Abu 'l-Ḥasan e l'altra di Bū 'Ināniyya, dello stesso costruttore di quella omonima di Fez. Meknes, tuttavia, deve la sua fama al periodo alawide, dunque a una età che non fa più parte del Medioevo, quando il sultano mawlay Ismā'īl ne volle fare una delle maggiori città del mondo islamico. Se la grande diffusione della madrasa costituisce la vera novità del periodo, i Merinidi non trascurarono gli altri aspetti dell'arte religiosa, dalla moschea all'arte funeraria. Quando nel 1276 Abū Yūsuf fondò Fez al-Jadīd (Fez Nuova), venne eretta anche la Grande moschea, restaurata nel 1395, che sebbene non porti niente di nuovo rispetto alla tradizione locale (navate perpendicolari, disposizione a T, ecc.), è notevole per la geometria dell'assieme. Lavori furono eseguiti a opera dello stesso sovrano anche alla Grande moschea di Taza. La moschea di al-Manṣūra, eretta durante il prolungato assedio di Tlemcen a danno degli 'Abd al-Wād, non fu ultimata a causa delle vicissitudini della guerra. Essa risente dell'influenza della Grande moschea di Rabat, con ai lati tre gallerie, prosecuzione di quelle corrispondenti della sala di preghiera, tutte perpendicolari al muro di fondo, tranne le tre in corrispondenza e parallele a esso. Ai Merinidi si devono anche alcune moschee minori che riproducono in schema ridotto la disposizione precedente, come la moschea al-Wabbād, eretta dal sultano Abu'l-Ḥasan, presso la tomba di Sīdī Bū Midyān. Nell'arte funeraria si segnala la necropoli di Chellah, nei pressi di Rabat, eretta tra il 1310 e il 1335, dove compaiono portali di accesso monumentali e una cinta di mura completa. Le costruzioni interne, tra cui due moschee, sono circondate da giardini e comprendono cortili e fontane. Perduta la maggior parte dei palazzi merinidi, si conservava fino a non molti anni or sono un gruppo di bagni che replicavano la disposizione delle terme romane, ma in dimensioni molto ridotte.
Di notevole importanza è l'arte militare, di cui è esempio la rinnovata cinta di Salé. In essa particolare rilievo era dato alla difesa del porto, cui si accedeva dal Bāb al-Marsà, largo nel punto più ampio m. 12, sormontato da un arco a ferro di cavallo e affiancato da torri quadrangolari. Notevoli la decorazione e il fregio epigrafico che ricorda le porte di Rabat. Anche Fez al-Jadīd venne protetta da una doppia cinta muraria, secondo un sistema derivato dai Bizantini. Le mura includevano un cammino di ronda ed erano rinforzate da torri.
Gli Hafsidi governarono un territorio grosso modo corrispondente alla Tunisia attuale fino all'arrivo degli Ottomani. Il fondatore Abū Zakaryā costruì a Tunisi la moschea della Qasba. Numerosi furono i lavori alla Grande moschea di Kairouan, tra i quali si segnala la porta nota come Bāb Lalla Raihana, dal nome di una pia donna sepolta nelle vicinanze. La porta, di altissima eleganza, rientra nella tradizione del portale della moschea di Mahdiyya, sviluppandola fino alle conseguenze estreme. Sormontata da una cupola, presenta un'entrata con un arco a ferro di cavallo e nella parte superiore una decorazione a nicchie e archetti e infine una merlatura a denti di sega.
Dei palazzi hafsidi ben poco è rimasto. Notevole invece lo sviluppo delle madrasat, le cui connotazioni originarie sfuggono però per i ripetuti restauri successivi. Dell'architettura militare rimangono a Tunisi il Bāb al-Jadīd e il Bāb al-Manāra: il primo è affiancato da torri semiottagonali, un particolare raro nell'arte islamica, e l'entrata, sormontata da un arco a ferro di cavallo, è 'a gomito', come le porte di Monastir, erette all'incirca nello stesso periodo.
La Libia non ha avuto un'identità culturale al pari delle altre regioni del Maghreb. Nulla rimane del periodo della conquista islamica. Scavi recenti hanno tuttavia portato alla luce alcuni monumenti che si ricollegano all'arte fatimide in Tunisia, come il palazzo e la moschea di Agedabia e la moschea di Madīnat al-Sulṭān. Per la pianta e la decorazione, entrambe si possono attribuire al 10° secolo.
Nell'arte islamica la decorazione costituisce spesso un elemento a sé stante, svincolato dall'architettura vera e propria; si tratta, in altre parole, di un rivestimento delle strutture portanti dell'edificio, il che rende il più delle volte autonoma l'opera dell'architetto da quella del decoratore. Ne consegue che talvolta anche gli elementi architettonici finiscono con l'essere trattati in previsione della loro funzione decorativa. Contrariamente a quanto comunemente ammesso, la decorazione interessa anche l'esterno dell'edificio, come dimostra l'elaborazione della facciata nella Grande moschea di Sfax, nei palazzi della Qal'a dei Banū Ḥammād e Mahdiyya. Ma è ovviamente all'interno che si concentra l'attenzione, specialmente intorno alle parti più rilevanti della moschea. Nel suo insieme a questa decorazione non è estraneo un certo simbolismo, dal momento che la moschea è 'la soglia sacra' e la facciata ne rappresenta la premessa, mentre l'elaborazione della navata centrale e specialmente dell'area del miḥrāb simboleggia la 'via' verso Dio. Perciò nella decorazione del miḥrāb non mancano elementi che, su basi coraniche o astrologiche, implichino un riferimento a questa simbologia, anche se essa è meno accentuata rispetto all'Oriente islamico. Ne fanno parte le nicchie e i motivi stellari che da tempi antichissimi sono penetrati nell'arte islamica con la funzione di proteggere un edificio o una porta o come allusione alla resurrezione.
Anche per la decorazione la tradizione fu iniziata dagli Aghlabidi, i cui edifici e monumenti sepolcrali offrono una grande varietà di motivi che talvolta si ricollegano alla tradizione bizantina (come il mosaico di cui è stato trovato qualche frammento a Raqqāda), talaltra, come per es. nell'impiego di capitelli classici di spoglio o nella loro imitazione ex novo (in libere rielaborazioni del corinzio), rimandano a modelli tardoantichi. Ma non mancano caratteri originali che ebbero sviluppo nei secoli successivi.
Kairouan è stata uno dei grandi centri islamici dell'epigrafia funeraria che, nel periodo aghlabide, presenta stretti rapporti con l'Egitto, anche qui inizialmente limitata al cufico, trattato in un modo estremamente sobrio. Nella fascia dell'iscrizione i pochi elementi decorativi sono infatti separati dalle lettere, come nella moschea delle 'Tre Porte' (nella quale è anche da segnalare la cornice a mensole che sovrasta la facciata e che ebbe largo sviluppo nei periodi seguenti, specialmente in Marocco).
Nella decorazione aghlabide svolgono un ruolo importante i motivi vegetali, con i loro intrecci dove prevalgono i viticci, più rari la palmetta e l'acanto. Ne offre un ottimo esempio la moschea di Kairouan, la cui decorazione raggiunge i suoi momenti più felici nel miḥrāb, dove i motivi ornamentali oscillano tra la tradizione classica e quella della Mesopotamia. Da notare l'uso, nella decorazione, oltre che della pittura e dei soffitti lignei, anche della pietra e del marmo, materiali piuttosto rari nella decorazione islamica.
Nell'arte aghlabide, in definitiva, erano presenti o in gestazione gran parte dei repertori ornamentali che caratterizzavano l'arte maghrebina, con una spiccata tendenza al sincretismo senza peraltro che le diverse influenze vi appaiano sempre ben assimilate. Coesistono infatti motivi floreali svolti in maniera realistica accanto ad altri nella più pura tradizione astratta. Questo è in gran parte presente anche nel periodo fatimide, ma l'epigrafia, ancora in cufico, subì una notevole evoluzione e le lettere cominciarono a presentare appendici floreali che preannunciavano gli sviluppi successivi. Più complessa appare anche la decorazione geometrica, nella quale ebbe particolare rilievo il poligono stellato. Da notare la comparsa, come in seguito in Egitto, delle rappresentazioni umane. Un bassorilievo di Mahdiyya, ora a Tunisi (Mus. Nat. du Bardo) presenta una scena di corte con il sovrano che ascolta una musicista e tiene in mano una coppa: tema e costumi che si ricollegano alla Mesopotamia e alla Persia. Eccezionalmente, a Mahdiyya è stato trovato anche un mosaico, uno dei pochi esempi che dimostrano la sopravvivenza della tradizione romano-bizantina.
Aghlabidi e Fatimidi guardavano specialmente all'Oriente islamico; gli Almoravidi e gli Almohadi, invece, alla Spagna. Si accentuò, nel loro periodo, il gusto per la policromia, l'uso degli stucchi e dei bassorilievi. I capitelli si liberarono dall'influenza classica, ove non fossero materiale di reimpiego, mentre l'arco, nella sua funzione decorativa, assunse le forme più svariate. Fece la sua apparizione anche la decorazione a stalattiti, che forse fu importata dall'Egitto e dalla Persia e fu usata più comunemente per il rivestimento delle trombe d'angolo e delle zone adiacenti la cupola. Non mancò tuttavia l'uso dei mattoni nelle porte e nei minareti ed essi, pur costituendo strutture portanti, disposti ad arte, contribuivano alla decorazione. Ma è sull'ornato delle superfici parietali dei miḥrāb che si concentrò l'attenzione. Nella parte superiore, le stalattiti si alternano a nicchie cieche sovrastanti intrecci stellari e vegetali. Anche l'epigrafia subì una notevole evoluzione. Il cufico diventò più elegante e nei suoi intrecci floreali ricorda quello a bordo ornamentale della Persia. Si affermò, anche qui con un certo ritardo, il corsivo i cui primi esemplari risalgono al 12° secolo. Continuò, facendosi più accurato ed elegante, l'uso del legno, specialmente nei soffitti. Le porte almohadi replicavano la decorazione dei miḥrāb: le une e gli altri inquadrati da una cornice rettangolare per lo più in pietra, mentre venne usato il marmo nelle colonne e negli interni prevalse lo stucco. Il periodo merinide non apportò molto di nuovo almeno negli elementi essenziali. Si diffuse comunque una certa tendenza a barocchismi di effetto, sia pure espressi con grazia ed eleganza estrema, come nei capitelli. Si accentuò, raggiungendo forse le vette più alte, l'ornamentazione in legno, nonché l'uso più accentuato della decorazione a smalto, specialmente nei minareti, mentre le stalattiti raggiunsero rara eleganza nella decorazione degli interni. Nell'epigrafia, il cufico subì un'ulteriore evoluzione, ma fu il corsivo a prevalere, con accentuata tendenza allo horror vacui. Ne offrono esempio le madrasat, in cui particolare rilievo venne attribuito all'esterno, e all'elegante cortile, il cui pavimento poteva essere in marmo o in ceramica, le pareti in stucco e in legno lavorato. Le porte, in taluni casi, sono rivestite in bronzo. Caratteristica infine è la cornice a mensole che sovrastava l'entrata degli edifici e circondava la parete superiore dei cortili, destinata ad avere in seguito largo sviluppo.
Si tratta di un settore che nel Medioevo maghrebino non ha avuto lo sviluppo goduto nelle altre regioni dell'Islam. Fa però eccezione, entro certi limiti, la ceramica, per la quale valgono soltanto in parte le osservazioni sopra fatte a proposito della decorazione nell'architettura maghrebina. Anche la sua produzione risentì dell'influenza dell'Oriente islamico e dell'Egitto da una parte, e della Spagna dall'altra e seguì le vicende che fecero prevalere ora l'una, ora l'altra tendenza. In essa è però presente, forse più che nella decorazione dei monumenti, una componente berbera che comparve specialmente nei periodi in cui prevalsero entità statali locali, mal collegate alle grandi correnti dell'arte musulmana. Cronologicamente, è da segnalare innanzitutto la decorazione del miḥrāb della Grande moschea di Kairouan, costituita da ceramiche a lustro metallico importate dalla Mesopotamia al tempo dell'aghlabide Abū Ibrāhīm che completò i lavori del padre nella moschea. Le piastrelle decorano la superficie dell'arco del miḥrāb e il riquadro rettangolare che lo circonda; mentre nel primo caso sono disposte irregolarmente, nel riquadro tendono a costituire un intreccio a losanghe e preludono quindi agli sviluppi della decorazione maghrebina, specialmente dei minareti. I motivi floreali, alquanto stilizzati, e geometrici, policromi o monocromi, rientrano nel repertorio della Mesopotamia. Di una produzione locale si può parlare per le ceramiche trovate a Raqqāda, al-'Abbāsiyya e Ṣabra-Manṣūriyya, località nelle quali è stata trovata una ceramica invetriata al piombo e allo stagno, rispettivamente su fondo giallo intenso e su fondo bianco, dipinta in bruno, verde e giallo. I motivi sono geometrici, floreali e animali. Nel gruppo di ceramiche di Ṣabra compare anche la figura umana con rappresentazioni di cavalieri e lottatori, motivi che poterono essere derivati sia dalla Spagna, sia dall'Oriente islamico. Ṣabra-Mansūriyya fu fondata nei pressi di Kairouan dai Fatimidi e completata dai loro successori, gli Ziridi. La comparsa della figura umana si inserisce bene nella tradizione fatimide che privilegiò tali rappresentazioni molto più di quanto si possa evincere dal materiale conservatosi; certo una fabbrica di ceramica doveva esistere a Mahdiyya, come dimostrerebbe il bottino che vi fecero i Pisani nel 1087. Una migliore documentazione si ha nei secoli seguenti, a partire dall'11°, quando attorno alla corte hammadita della Qal'a sorse un notevole centro di produzione che da una parte si riallacciò alla tradizione aghlabide, mentre dall'altra preannunciò gli sviluppi successivi. Caratteristica fondamentale ne fu l'eclettismo, con un repertorio relativamente vasto che va da modelli persiani, particolarmente evidenti in un pavimento dai motivi stellari, alla continuazione più o meno variata del repertorio aghlabide, con le sue ceramiche invetriate al piombo e allo stagno, alle ceramiche a stampo e alle tecniche più raffinate, come il lustro, che si rifacevano a modelli d'importazione, orientali e occidentali. Mentre i colori rimasero per lo più quelli del periodo precedente, i motivi decorativi furono trattati con maggiore ricercatezza, sia per ciò che riguarda le rappresentazioni animali, sia per quelle floreali, mentre si affermò la decorazione epigrafica, con la formula d'augurio per il destinatario. Anche gli oggetti rinvenuti sono molto vari e comprendono alcuni tipi di anfore e coppe.
La Qal'a, come Kairouan, subì le conseguenze dell'invasione dei Banū Hilāl e dei Banū Sulaym, le due tribù arabe che i Fatimidi dall'Egitto inviarono a punizione dei ribelli Ziridi e Hammaditi. Discussa è la questione se la Qal'a abbia continuato dopo l'invasione una produzione autonoma, sia pure a livello minore, o se le sue maestranze, come quelle di Kairouan, si siano trasferite sulla costa, a Bugia, dove la corte hammadita si spostò nel 1085, continuando, ma con maggiore apertura, i temi presenti nella Qal'a e introducendo, a partire dal sec. 13°, una ceramica dipinta e invetriata allo stagno anche in blu e in bruno violetto, con motivi quasi esclusivamente geometrici e vegetali.
La particolare situazione di Bugia, porto aperto specialmente ai contatti con la Spagna, spiega il fatto che negli sviluppi successivi l'Andalusia esercitò un'influenza determinante. La produzione di origine andalusa, di fatto, si confonde spesso con quella prodotta dai centri commerciali tra Tunisia e Algeria. Vi compare una ceramica in bruno e blu con motivi floreali molto simili a quella attribuita a Bugia nel 13° secolo. Discussa è la questione dei rapporti tra queste ceramiche e quelle dell'aghlabide al-'Abbāsiyya, abbandonata dopo l'invasione dei Banū Hilāl e dei Banū Sulaym, ma la cui produzione sembra comunque sia stata ripresa, almeno per un certo tempo, da altri esempi anteriori all'invasione. I materiali ritrovati a Cartagine hanno ulteriormente arricchito la documentazione relativa alla produzione ceramica tunisina con una serie di oggetti e frammenti che per lo più seguono la produzione precedente e gli sviluppi della Qal'a e di Bugia, ma con l'introduzione di un complesso cartiglio e di un elemento a mandorla che costituisce il motivo dominante di parte di questa ceramica permettendo di datarla tra il sec. 11° e il 12° sulla base di analoghi rinvenimenti in Toscana, in Sicilia e nel Lazio, che hanno arricchito il materiale comparativo.
In Marocco la produzione ceramica si sviluppò con un certo ritardo rispetto a quella tunisina. Le prime testimonianze compaiono nel sec. 11°, con gli Almoravidi, ma è nel periodo almohade che si ebbe la produzione più raffinata. La tecnica prevalente è a stampo (i centri maggiori, come Marrakech, Salé, Taza, ecc., continuarono questa tecnica anche nei secoli seguenti). I motivi impiegati sono prevalentemente geometrici, vegetali ed epigrafici, rare invece le rappresentazioni animali, il tutto con una forte impronta andalusa. A partire dal sec. 12° la ceramica assunse un'importante funzione nella decorazione architettonica, senza però sostanziali variazioni nelle tipologie decorative.
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